Gastronomia

Il Sake, uno sconosciuto dal lontano oriente

Passo passo seguiamo il processo di produzione di questa tradizionale bevanda alcolica, cercando di coglierne i segreti e la storia, Molte le differenze fra il prodotto industriale e quello artigianale

25 aprile 2009 | Duccio Morozzo della Rocca

Per essere famoso è famoso, almeno di nome. Ma cosa è esattamente il Sake?
“Contrariamente a quanto si crede, il Sake è una bevanda alcolica molto più vicina al vostro vino che alla vostra grappa: nasce infatti dalla fermentazione degli amidi e degli zuccheri non da una distillazione.” Ci ha dichiarato Koichi Hasegawa, leader dell’omonimo gruppo di distribuzione, attivo dal 1960.

Se 2.000 anni fa il Sake era un dono destinato agli dei e si presentava denso e pastoso venendo preparato attraverso la masticazione del riso da parte delle sole sacerdotesse, è intorno all’anno Mille che comincia a trasformarsi in una bevanda liquida prodotta ad uso dei comuni mortali.
Da quel momento gli agricoltori e i maestri cantinieri giapponesi hanno sviluppato nei secoli metodi di processo tanto avanzati da poter parlare oggi di una vera e propria scienza sakeologica che parte dalla ricerca della massima qualità in campo per arrivare alla meticolosità del lavoro in cantina.

“Ciò che sta alla base della produzione di un ottimo Sake -sottolinea Hasegawa- sono riso e acqua di altissima qualità”.

Delle oltre 180 varietà di riso esistenti oggi in Giappone 3 sono segnalate da Hasegawa come veramente importanti per la produzione di Sake: lo Yamadanishiki che è considerato l’imperatore dei risi, il Gohyakumangoku che è il più diffuso come coltura e il Miyamanishiki che si adatta ai climi freddi del nord del paese.
Piantato tra il mese di aprile e quello di maggio, preferibilmente in zone con forte escursione termica tra il giorno e la notte, il riso viene poi raccolto a settembre e lavorato tra ottobre e marzo.
Il chicco grezzo viene per prima cosa avviato alla brillantatura che consiste nell’eliminazione del grasso e delle proteine presenti nella parte esterna -il chicco si riduce di circa il 50%- per poter ottenere poi aromi e gusti più eleganti e armonici nel Sake.
Una volta pronto, dopo due settimane dedicate al riequilibrio ambientale del chicco, si procede al lavaggio manuale e all’ammollo controllato: una differenza anche minima della percentuale di acqua assorbita determina grandi cambiamenti nel Sake che si vuole ottenere. Si può dunque passare alla cottura a vapore che dura circa 50 minuti e che conferisce al riso la giusta elasticità lasciandolo duro fuori e morbido dentro.
Da questo momento inizia il processo di fermentazione per la produzione di Sake. Ognuna delle 2.000 cantine presenti sul territorio giapponese custodisce i propri metodi e i propri segreti ma il processo di base resta comune e ruota intorno al Kouji (leggi Koogi), l’impasto fermentato.
Il riso viene steso dunque su una superficie piana e spolverato con una muffa (Aspergillus Orza) che, ad una certa temperatura e umidità, avvia il processo di fermentazione trasformando l’amido di riso in zuccheri: in questa fase, come detto, ogni cantina può intervenire conferendo uno stile al proprio prodotto: il Sake dipenderà infatti interamente dalla lavorazione di questa pasta, il Kouji.
A questo punto si passa alla fermentazione del Sake non raffinato che avviene in fusti tenuti a temperatura di 6° circa dove il riso si scioglie diventando sempre più fluido giorno dopo giorno grazie ad una doppia fermentazione dell’amido in zuccheri e degli zuccheri in alcol.

“Attraverso i cinque sensi si può saggiare quotidianamente lo stato di fermentazione del prodotto: lo stato superficiale, il borbottio della fermentazione, il profumo sono preziose fonti di informazione. Senza dimenticare il controllo della temperatura e le analisi quotidiane” spiega il produttore Iwao Niizawa.

Dopo 30 giorni circa è ora della spremitura della miscela fermentata che viene separata in una parte solida (la feccia) e in una liquida, un giovane Sake che deve essere pastorizzato per eliminare interamente i lieviti e imbottigliato per raggiungere la sua maturità.

Per un approfondimento abbiamo posto qualche domanda ancora a Koichi Hasegawa,

- Mr. Hasegawa, quale è oggi il rapporto dei giapponesi con il Sake?
Il Sake ha sempre accompagnato i momenti emozionali della nostra vita, quando si è tristi e quando si è felici. Viene bevuto generalmente solo quando è calato il sole e accompagna i pasti a base di pesce, carne e verdure.
Purtroppo, il Sake sta attraversando oggi un periodo di crisi e rappresenta il 7% del totale delle bevande alcoliche vendute in Giappone, un calo dovuto soprattutto all’allontanamento dei giovani da questo prodotto tradizionale. Anche per stiamo vendendo all’estero: pensiamo possa esercitare un buon effetto di ritorno anche sulla vendita del Sake in Giappone.

- Quali prospettive vede per l’export del Sake nel mondo?
Molto buone. Soprattutto negli Stati Uniti e in Asia.

- Vede il vino come un concorrente del Sake o una bevanda complementare?
Sicuramente concorrente, ma noi amiamo il vino e ci piace pensare alla convivenza di questi due prodotti. Ad eccezione ovviamente del Sushi che deve essere accompagnato da Sake.

A Tadatsugu Inoue, produttore di Sake, chiediamo invece di spiegarmi brevemente la differenza tra un Sake industriale ed uno artigianale.

“Ci vogliono due mesi per fare un buon Sake – ci dice Tadatsugu - contro le 2 settimane invece per quello industriale.
Mentre con la brillatura del riso noi scartiamo il 50% del chicco, l’industria elimina circa il 10%.
Il riso che utilizziamo costa poi fino ad 8 volte di più rispetto a quello delle grandi aziende che spingono infine molto la fermentazione per aumentare il grado alcolico per poi successivamente allungare il Sake con acqua. Quello che si ottiene in questo modo è più prodotto ma di bassa qualità.”

Non è facile, per chi è estraneo alla cultura del Sake, capire i pregi e le differenze di un buon prodotto rispetto ad un altro mentre emerge netta a tutti la raffinata qualità della selezione presentata.
In un buon Sake, ci spiegano infatti i produttori, non deve prevalere o emergere al naso la nota dell’alcol e mentre lo si beve deve scendere lungo la gola come se fosse seta. Il suo aroma, infine, deve essere discreto e il suo sapore profondo, per valorizzare al massimo il piatto che accompagna.

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