Economia
Quando l'industria agroalimentare, e non solo, antepone il profitto al benessere del consumatore
2,7 milioni di decessi all'anno sono connessi con le politiche industriali globali, secondo un recente rapporto dell'Organizzazione mondiale della Sanità. Vietato bersi tutto quello che propina l'industria
12 luglio 2024 | Giosetta Ciuffa
Un consumatore informato, in grado di discernere ciò che è bene da ciò che fa male, al di là degli slogan. Ci vogliono istruzione e formazione, ci vogliono persone che vadano a educare i consumatori laddove questi non possono arrivare a farlo da soli: come in molti casi, bisogna armare i consumatori della possibilità di mettere in discussione ciò che viene propinato dall’industria, per almeno arginarne le conseguenze. È questa più o meno la conclusione alla lettura del nuovo rapporto OMS riferito alle malattie non trasmissibili (MNT), secondo il quale è notevole l’impatto che i grandi settori industriali hanno sulla salute umana nella regione europea dell’OMS. Le malattie non trasmissibili sono infatti responsabili del 90% dei decessi e dell’85% degli anni vissuti con disabilità. Due terzi dei decessi prima dei 70 anni sono causati da quattro principali MNT: malattie cardiovascolari (51,4%), cancro (46,4%), malattie respiratorie croniche e diabete. Sono quattro i prodotti commerciali (alcol, tabacco, alimenti e bevande trasformati, combustibili fossili) - senza tralasciare le pratiche commerciali quali esposizione ad agenti cancerogeni legati all’attività lavorativa, agli asmogeni e agli infortuni - che causano 2,7 milioni di decessi all’anno, ovvero 7.400 decessi al giorno a causa di prodotti e pratiche dannose guidate dall’industria, pari a quasi un quarto (24,5%) di tutti i decessi in media nella regione WHO Europe (ossia l’ufficio OMS per l’Europa, uno dei 6 regionali OMS nel mondo e che serve i 53 Paesi che costituiscono la regione europea OMS), una regione in ritardo nella riduzione del rischio di mortalità prematura di un terzo entro il 2025 rispetto al 2010.
Quasi due terzi (61,3%) dei decessi causati dalle MNT possono essere attribuiti direttamente a fattori di rischio; quelli comportamentali - consumo di alcol e tabacco, dieta non sana e attività fisica insufficiente – oltre a essere prevenibili, apportano fattori di rischio metabolici come obesità, ipertensione, glicemia e colesterolo alti. Ancora, l’esposizione all’inquinamento atmosferico provoca malattie respiratorie e cardiache e preoccupa particolarmente quando a subirla sono i bambini, con il cervello e i polmoni in crescita. Anche le temperature non ottimali e i rischi professionali contribuiscono al carico delle MNT. Numeri peraltro sottostimati: ad esempio, l’OMS stima in 8,8% i decessi totali attribuibili all’alcol, un dato più che doppio rispetto alle stime del Global Burden of Disease. Altro effetto sono le disuguaglianze sanitarie: è acclarato che le popolazioni socialmente ed economicamente vulnerabili, dal basso livello di istruzione, sono a maggior rischio di morte e disabilità a causa del consumo di questi prodotti.
Il rapporto analizza come i cosiddetti determinanti commerciali della salute quali sistemi e pratiche influiscono su salute ed equità umana e planetaria. Possono essere entità private ma anche imprese statali coinvolte (si pensi alle sigarette o al settore bancario o minerario); comprendono produttori, rivenditori e terzi come associazioni di categoria, studi legali, società di pubbliche relazioni ecc. ma anche ricercatori, think tank, società professionali mediche, organizzazioni di pazienti e altri gruppi finanziati per promuovere interessi commerciali in modo palese o occulto. L’esempio più noto sono le multinazionali, disponendo di risorse da impiegare in attività di lobbying o di elusione fiscale nonché legali quando tali pratiche diventano più immorali o vietate.
Il lavoro, la catena di fornitura e le pratiche finanziarie attraverso gli sforzi volti a ridurre i costi e massimizzare i profitti apportano danni diretti - incidenti evitabili sul posto di lavoro, scarichi illegali di sostanze pericolose, deforestazione e conseguenti cambiamento climatico, perdita di biodiversità, infezioni; schiavitù modernaprecariato; minore sindacalizzazione; stagnazione delle retribuzioni dei lavoratori medi ma non di quelle dei dirigenti – e indiretti attraverso elusione ed evasione fiscale: il 40% di tutti i profitti multinazionali realizzati all’estero finiscano nei paradisi fiscali, riducendo significativamente le risorse pubbliche. Amazon non ha pagato imposte in Europa nel 2020, nonostante un reddito di vendita di 44 miliardi di euro, mentre British American Tobacco e Imperial Brands non hanno pagato quasi alcuna imposta sulle società per un periodo di 10 anni nel Regno Unito, dove hanno sede.
Le pratiche politiche sono rilevanti e influiscono indirettamente sulla salute e sull’equità, abbassando gli standard normativi e consentendo di fatto tutte le altre pratiche (si veda il Better Regulation UE). Fondamentale ma scarsamente regolamentata è la gestione della reputazione. Spesso le imprese finanziano attività filantropiche che i governi considerano benevole e dalle quali, a causa delle tendenze all’elusione fiscale commerciale, spesso dipendono sempre più. L’evidenza però indica che la responsabilità sociale d’impresa (CSR) è vista come un modo per modellare risultati politici contro l’interesse pubblico: esempio il pinkwashing, in cui ci si associa ad enti di beneficenza contro il cancro al seno e nel contempo si promuovono (soprattutto l’industria dell’alcol) prodotti associati a un aumentato rischio di tumore mammario e/o si compromette la comprensione dei fattori di rischio modificabili (il British Medical Journal ha citato materiali per bambini in età scolare prodotti dall’organizzazione benefica Talk About Trust, che riceve finanziamenti indiretti dall’industria dell’alcol).
Inoltre, gli attori promuovono costantemente l’idea che il problema siano le scelte irresponsabili altrui e che gli individui debbano essere al centro degli interventi e non il proprio business. Questo, ovviamente, perché gli interventi a livello individuale, implicando una modifica dei comportamenti, spesso anche di dipendenza, sono meno efficaci degli interventi politici a livello di popolazione, e quindi hanno meno probabilità di riuscita. Si arriva al paradosso quando i prodotti dannosi, in nuove varianti, vengono infine presentati come soluzioni ai problemi creati dagli stessi produttori, che si tratti di materiale educativo (dimostrato come molto fuorviante) o di nuovi prodotti commerciali (ad esempio “a basso contenuto di grassi” o “a basso contenuto di zuccheri” o altre alternative “a basso rischio”).
L’industria farmaceutica e quella dei dispositivi medici hanno sviluppato strategie di marketing molto specifiche, spesso rivolte a popolazioni che già sperimentano disuguaglianze sanitarie e tassi più elevati di MNT. Mediante l’associazione con esperienze e stili di vita desiderabili, le industrie incorporano questi prodotti nella nostra vita quotidiana, normalizzandone il consumo: l’industria del tabacco ha utilizzato immagini delle First Nations (popolazioni indigene canadesi) nelle pubblicità, le ha selettivamente puntate nelle campagne di marketing e ne ha sponsorizzato alcune fondazioni. Ugualmente, i bambini sono un target per l’industria del tabacco, delle sigarette elettroniche, dell’alcol e degli alimenti: nel 1978 la prima riconosceva che la base del business era (sarebbe meglio dire “è tuttora”) lo studente delle superiori. E con Internet e i social media, nessuno è indenne dal marketing digitale, grazie a tecnologie avanzate come il targeting algoritmico, la messaggistica personalizzata, l’analisi di ampi dati comportamentali e demografici; l’impatto è amplificato da raccomandazioni dei pari e approvazioni degli influencer. I bambini sono obiettivo da raggiungere attraverso i kidfluencer; gli adolescenti sono presi di mira dalle aziende alimentari per la loro maggiore capacità di spesa: ad esempio, in pandemia l’acquisto e la consegna online degli alcolici insieme a “divertenti attività di isolamento”. L’industria però nega sostenendo che l’autoregolamentazione è sufficiente; gli individui dovrebbero assumersi la responsabilità del proprio comportamento e dei propri figli; le restrizioni al marketing causano la perdita di posti di lavoro.
A dimostrazione che però “uniti si vince”, un caso di studio è il processo nel Regno Unito a contrasto dell’obesità che ha portato nel 2021, dopo 20 anni, a restrizioni nel marketing alimentare, tra cui il divieto di commercializzare alimenti e bevande ad alto contenuto di grassi, sale e/o zucchero tra le 5:30 e le 21:00 in televisione e il divieto di commercializzarli online a pagamento. Mediante la collaborazione con il mondo accademico su temi quali l’inefficacia delle restrizioni già esistenti alla pubblicità in tv (guidate dall’industria) e relazioni efficaci con le principali agenzie governative, in particolare con il Department of Health and Social Care, le ONG e le organizzazioni della società civile sono riuscite a minare l’industria, anche grazie a campagne di sensibilizzazione come ad esempio Fuel us, Don’t Fool Us di Bite Back 2030 che ha rivelato la dipendenza dei produttori alimentari da cibi e bevande non salutari per ottenere profitti. Come risultato, si è arrivati all’Health and Care Act nel 2022, anche se l’attuazione è stata ritardata a ottobre 2025.
La concentrazione di questi mercati, soprattutto oligopolistica, pone il controllo di interi settori nelle mani di un numero limitato di potenti attori commerciali. Oggi dieci grandi aziende globali, il cui headquarter è in soli cinque Paesi (Brasile, Cina, UE, Giappone e Stati Uniti), giocano un ruolo determinante riguardo a produzione, trasporto e commercio di carne. Aziende come JBS S.A. (Brasile), WH Group (Cina), Crown (Danimarca), Tyson (Stati Uniti), Cargill (Stati Uniti) mediante fusioni e acquisizioni hanno aumentato il potere di mercato in Europa e ottenuto il controllo dell’intera catena di approvvigionamento, imponendo prezzi bassi ai produttori e costringendo gli allevatori a vendere al di sotto dei costi di produzione. Oltre a ostacolare la riduzione del consumo di carne, gli allevatori devono quindi allevare un gran numero di animali per continuare a soddisfare le loro richieste e spesso dipendono dai sussidi pubblici (quelli UE per almeno il 50% del loro reddito). Esistono numerose prove dell’influenza del commercio e del consumo di carne sulle MNT legate alla dieta, come il cancro del colon-retto, il diabete e le malattie coronariche. Senza considerare che il consumo e il commercio di carne e altri alimenti di origine animale sono responsabili del 14,5% di tutte le emissioni di gas serra ed esiste un chiaro legame tra il cambiamento climatico e le MNT tra cui ictus, malattie cardiache e asma.
Il potere di mercato spesso si traduce anche in potere politico. Un esempio è il riuscito sforzo di lobbying relativo alla strategia Farm to Fork, oltre due terzi della quale non verranno attuati prima dell’insediamento di una nuova Commissione europea nel novembre 2024. Questo perché la legislazione è stata vittima, da parte di gruppi di pressione industriali (multinazionali della carne, petrolchimiche o farmaceutiche), di un’intensa attività di lobbying contro i componenti chiave della strategia oltre che dell’abuso della scienza e della distorsione della copertura mediatica. Ad esempio, la lobby della carne, tra cui Clitravi e l’European Livestock Voice, hanno commissionato studi che attaccano Farm to Fork, tanto che sono stati ritardati o indeboliti riferimenti espliciti ai rischi per la salute associati all’agricoltura intensiva, i requisiti per aumentare la trasparenza attraverso l’etichettatura dei prodotti e la possibilità per gli Stati membri di imporre tasse più elevate sui prodotti non sostenibili. La proposta di vietare il finanziamento della promozione della carne rossa non solo è stata ritardata ma addirittura bloccata (l’UE ha investito milioni in campagne per promuovere la carne bovina, tra cui 4,5 milioni di euro per “Proud of EU beef” a sostegno di Provacuno in Spagna e APAQ-W in Belgio). Le grandi aziende nel business si sono mosse contro la ricerca di fonti proteiche alternative, bloccandole e il 97% delle spese per l’innovazione è così andato ai produttori di carne anziché a chi si occupa di carne vegetale o coltivata, e quasi tutti questi fondi sono stati destinati al miglioramento della produzione di carne.
Oltre all’attività vera e propria di lobbying, esistono le attività politiche aziendali per prevenire, modellare, aggirare o indebolire le politiche pubbliche in modo da favorire gli interessi aziendali. Un esempio di tali “strategie non di mercato” è lo sfruttamento dei pazienti e delle loro famiglie: eclatante il caso del Soliris, un farmaco dell’azienda statunitense Alexion per la rarissima sindrome emolitico-uremica atipica. Nel 2013, il Capacity Remuneration Mechanism belga (incentivi finanziari) sconsigliò di coprire i costi del Soliris a causa dell’incerto valore aggiunto e l’elevato prezzo di 400.000 euro all’anno a paziente, similmente all’agenzia canadese Health Technology Assessment. Il Ministero della Salute belga era disponibile a rimborsare il farmaco ma non al prezzo proposto. Ecco che compaiono un bambino di 7 anni e i suoi genitori a chiedere il rimborso, infine ottenuto grazie alla pressione mediatica. Si scoprì poi che era tutto orchestrato da Alexion mentre la famiglia non ne era a conoscenza poiché contattata da un’associazione di genitori manipolata da una società di lobbying privata pagata da big pharma. Obiettivo era togliere al Governo il potere di negoziare prezzi equi per conto dei pazienti. Il prezzo rimborsato era estremamente alto e l’accordo firmato non consentiva modifiche.
Ancora, iniziative con forte risonanza come prezioso capitale reputazionale, come McDonald’s che combatte la fame infantile nei giorni delle partite del Regno Unito di Coppa del Mondo se si ordina tramite app, incoraggiando la fedeltà verso un fast food che trae vantaggio da maggiore personalizzazione, visibilità del marchio e associazione con organizzazioni di beneficenza e eventi sportivi. Per non parlare del potenziale accesso diretto ai consumatori tramite i loro telefoni cellulari, incorporando ulteriormente l’azienda nella vita dei clienti. Ancora, pochi sanno che neonati e bambini sono particolarmente vulnerabili nelle situazioni di emergenza: l’allattamento al seno li protegge poiché il latte materno è un alimento nutriente e affidabile che previene le infezioni. Il CMF, un sostituto del latte materno o “latte in formula” (commercial milk formula), riduce la propensione all’allattamento al seno, aumentando così il rischio di malattie e morte. Ecco perché in situazioni di emergenza sono vietate sia la donazione che l’accettazione di alimenti per lattanti eppure l’industria dei CMF continua a donare, con alcune aziende che pubblicizzano questa pratica esibendola come CSR quando invece cercano mercati futuri.
Un esempio di coalizione e di dialogo politico è l’imposta estone sulle bevande zuccherate. La prospettiva di tale tassa in Estonia è iniziata nel 2013; l’ultimo tentativo nel febbraio 2024 è stato guidato dal Ministero degli Affari sociali anziché delle Finanze, quindi con forte attenzione al coinvolgimento degli attori sanitari e mediante un’oculata strategia per evitare influenze dell’industria che si è servita di campagne contro la tassa, sondaggi, la scrittura di articoli contrari ecc. Alla tavola rotonda, i posti erano preassegnati in una disposizione alternata, impedendo interruzioni eccessive e conversazioni di gruppo. A ciascuna organizzazione è stato concesso un tempo limitato; i sostenitori del progetto di legge hanno formato coalizioni tra partner sanitari come dentisti, infermieri e medici, garantendo argomenti diversi su più fronti uniti; solo le organizzazioni ombrello hanno potuto presentare argomentazioni, garantendo una piattaforma equa ma limitata.
Si deve quindi stare attenti e non bersi tutto quello che propina l’industria, o soggetti che potrebbero essere connessi ad essa. Ormai si conoscono i prodotti il cui consumo, o consumo eccessivo, fa male alla salute. Tenere quindi gli occhi aperti, così come la bocca ma non per mangiarli o berli, bensì per informare gli altri.
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