L'arca olearia

Ecco il piano olivicolo nazionale. Quel che c’è e soprattutto quel che non c’è

Novità soprattutto per i frantoiani e probabilmente maggiore burocrazia per tutti visto che si incentiva il moltiplicarsi delle certificazioni. La vera sorpresa è però sulla promozione

12 settembre 2009 | Duccio Morozzo della Rocca

C’è grande attesa per la versione definitiva del Piano Olivicolo Nazionale.
Non tutto il lavoro in sede ministeriale è probabilmente concluso ma la linea è tracciata. Anzi, qualcosa in più visto che ci sia aspetta che il Piano possa essere esaminato presto dalla Conferenza Stato-Regioni. Saranno infatti proprio le Regioni a dover accollarsi i maggiori costi di questo progetto di rilancio dell'olivicoltura italiana.
Il comparto italiano è infatti rimasto immobile per decenni mentre il mondo ha continuato a girare cambiando luoghi, modi e aspetto: nuove olivicolture, nuovi modelli e nuove logiche di mercato si sono ormai radicati nel sistema olivicolo-oleario internazionale. Ora, dopo anni di iniziative costose e di scarso ritorno, tocca all’Italia presentare un piano unitario nazionale che sappia essere all’altezza dei nuovi scenari globali.
Lo sarà? Seguiteci e lo scoprirete.

I problemi, noti, dell’olivicoltura italiana
Nella bozza del documento ministeriale vengono messe in luce le criticità del nostro comparto olivicolo: una superficie media aziendale troppo ridotta -circa un ettaro-, l’elevata frammentazione e il 30% delle superfici olivetate in condizioni orografiche difficili.

Ed ecco dunque subito la prima novità: gran parte delle future risorse saranno destinate esclusivamente alle aziende olivicole più competitive, ovvero, con maggior possibilità di stare sul mercato per struttura aziendale e per numero di piante. Una scelta strategica che se da un lato vuole rafforzare il sistema olivicolo dall’altro rischia di mandare in frantumi il sistema dell’autoconsumo (66%), accentuando la progressiva fuga dagli oliveti e accelerando la metamorfosi del paesaggio italiano.

Produzione
Le risposte del nuovo piano ai problemi di redditività del settore olivicolo sono puntare sulle varietà, sul territorio, sulla “differenziazione dei prodotti quale espressione di una capacità di lavorazione unica al mondo”, sulle certificazioni e sulla scelta dei giusti mercati in grado di pagare il giusto prezzo. Tutto bene, non si può pensare di competere sul prezzo: ma quale è la novità? Probabilmente il mettere nero su bianco tutto ciò che già si fa in Italia ormai da diversi anni, anche se non sembra aver portato però a grandi risultati.
Potenziare DOP, IGP, BIO e, novità, l’Alta Qualità: controlli, norme e certificazioni. Ottimi intenzioni che poi in Italia riescono sempre a metà, portando ad enormi confusioni: carrozzoni su cui abbiamo già espresso diverse opinioni che rischiano di favorire più la politica che i produttori.

Per quanto riguarda i frantoi, vengono previsti aiuti atti a sostenere la modernizzazione e l’adeguamento degli impianti di trasformazione da un lato e dall’altro volti all’istallazione di una dotazione impiantistica in grado di attuare sistemi di certificazione. Risorse che saranno destinate al comparto, si legge nel documento, “nel rispetto della compatibilità degli aiuti di stato”.

Si incoraggia inoltre la “carta di identità dell’olio” rilasciata dal frantoio, con le caratteristiche fisico-chimiche nonché organolettiche dell’olio in uscita. A questo proposito, diventa piuttosto complicato delineare le caratteristiche di un prodotto che appena nato è più vicino ad un succo di frutta che ad un olio. Si rischia, oltretutto, di sconfinare sia nel campo dei panel che in quello dei laboratori professionali ottenendo infine giudizi superficiali sui prodotti che possono generare ancora maggiore confusione. Senza contare che in epoca di frangitura, anche il più bravo dei frantoiani potrebbe avere qualche difficoltà a compiere correttamente tutte queste operazioni.

Ma non basta. Il Ministero ritiene fattibile e non oneroso il rilascio, unitamente alla fattura di molitura, di una dichiarazione di origine della materia prima utilizzata, rilasciata e riscontrata dal frantoio. I frantoiani dovranno dunque rimboccarsi le maniche: non più “solo” trasformatori di prodotto ma anche panel, chimici, e controllori…

L’unione fa la forza
Lungo tutta la filiera, verranno premiati i progetti di aggregazione associativa, reti funzionali tra imprese, cooperative e consorzi, organizzazioni di produttori, ecc. “In tempi come quelli attuali di scarsa redditività e di esigue risorse finanziarie pubbliche –si legge nel documento- solamente aggregazioni e coordinamento di risorse possono sortire gli attesi benefici”.

Sacrosanto. Sicuramente unire le forze è la maniera migliore per risultati importanti in termini di massa critica di prodotto e capacità di contrattazione, a patto che si mettano da parte i diversi campanili.

“Ne discende –si legge nella parte conclusiva del paragrafo- che obiettivo prioritario del mondo produttivo agricolo sia quello di trovare una adeguata organizzazione: un processo che non può che essere guidato dalle attuali organizzazioni ed associazioni di rappresentanza chiamate prioritariamente ad un preventiva convergenza verso strutture più rappresentative”.

Forse non ho capito bene: se alla guida della rivoluzione nazionale ci sono sempre le stesse persone, e i progetti molto simili a quelli portati avanti fino ad ora, quale sarà il grande cambiamento?

C’è olio e olio
“Le politiche di differenziazione sono finalizzate ad attribuire al prodotto “olio” quelle caratteristiche di unicità, percepite dal consumatore il quale, per esse, è disponibile a pagare un prezzo più elevato”. Nel documento viene spiegato come le aziende più grandi –alias l’industria- abbiano una forte penetrazione nella GDO. “Le loro strategie –si legge- sono orientate per lo più verso un prodotto standard, sì di qualità ma non ricco di elementi aggiuntivi…” Invece: “Le numerose, piccole e spesso piccolissime imprese costituiscono l’altra faccia degli operatori attivi sul mercato: esse offrono un prodotto che definiscono di qualità e di alta qualità”.

Le piccole e piccolissime… cioè, quelle che vedranno chiudere i rubinetti perché non competitive, saranno valorizzate perché ricche di “elementi aggiuntivi”, non meglio specificati, ma che possiamo immaginare essere dop, bio e certificazioni varie. Gli stessi valori aggiunti di cui si fregiano anche le grandi marche, tutto sommato.

Ci si attenderebbe dunque una distinzione chiara tra “le due facce di una stessa medaglia”: l’olio dell’industria e quello artigianale. Una soluzione per spiegare in maniera semplice ed immediata al consumatore perché una bottiglia di olio costa molto di più di un’altra.

Ma ecco gli interventi con cui il Ministero pensa di riportare ordine:
a) etichettatura e possibilità di indicare “l’origine italiana” del prodotto;
b) rafforzamento dei sistemi produttivi di qualità, certificati e garantiti;
c) l’offerta di una gamma ampia, idonea a soddisfare l’estrema segmentazione della domanda dei consumatori, soprattutto frequentatori della Grande Distribuzione.

Ora, la domanda è la seguente: se una bottiglia confezionata dall’industria può vantare in etichetta le stesse diciture di una bottiglia confezionata da un artigiano dell’olio ma a prezzi decisamente più convenienti, verso quale dei due prodotti si orienterà la scelta del comune consumatore?

Per fortuna, ai piccoli produttori di oli di alta qualità è rimasto l’export. Vediamo come il nuovo Piano Olivicolo intende supportare la penetrazione commerciale delle nostre aziende all’estero.

Promozione e comunicazione
Ecco uno dei punti più interessanti. Mentre fino ad oggi le politiche nazionali sono state centrate sulla promozione del prodotto olio mettendo in luce gli aspetti salutistici, organolettici e nutrizionali, con il nuovo piano si vuole spostare la comunicazione verso un altro obiettivo. Giovanni Di Genova, dirigente del Dipartimento delle Politiche di Sviluppo Economico e Rurale, ha spiegato chiaramente il cambiamento di rotta: “non più il concetto che l’olio fa bene, ma dobbiamo insegnare al consumatore a leggere l’etichetta per metterlo in condizione di capire il valore di un olio”. Tornando a ciò di cui si parlava sopra, una DOP confezionata dai grandi marchi cosa avrà di differente per il consumatore,se non il prezzo, rispetto a una DOP artigianale?

Un altro aspetto curioso: i fondi stanziati per la comunicazione e la promozione dell’olio da olive italiane saranno interamente rivolti all’attività svolta sul nostro territorio visto che “il principale mercato di riferimento per il consumo è quello nazionale che costituisce il riferimento territoriale elettivo”. Di più. “eventuali azioni sui mercati di paesi comunitari e paesi terzi sono realizzate con risorse diverse da quelle del piano olivicolo.”. Una scelta forse eccessivamente autarchica nell’era del mercato globale. Forse sarebbe stato utile diversificare programmando, per esempio, incursioni commerciali nei nuovi paesi consumatori di olio da olive. Come già da anni fanno con successo i nostri cugini spagnoli, probabilmente più lungimiranti di noi.

Ricerca e sviluppo
Saranno infine stanziati fondi per rendere più competitiva la filiera.

Nel campo della tutela del prodotto è stato programmato uno specifico progetto volto a definire metodologie analitiche idonee ad “affiancare la rintracciabilità documentale nella certificazione dell’origine delle produzioni di olio vergine di oliva ottenuto da cultivar italiane mediante l’utilizzo di tecniche innovative e tradizionali”.
Questo avverrà da un lato mediante la caratterizzazione di oli a denominazione di origine provenienti dall’ intero territorio nazionale mediante determinazione della frazione volatile e polifenolica ed analisi multisotopica.
Dall’altro, mediante la validazione di metodiche di rilevazione di oli di oliva deodorati in miscela con oli vergini.

Conclusioni
Tutto sommato, dalla bozza del nuovo Piano Olivicolo, a parte alcuni punti già assodati e pienamente condivisibili, non sembrano esserci grandi novità né grandi strategie.
Molto spazio ai controlli, alle certificazioni, molto alle associazioni di categoria, alle aggregazioni.
Poco invece alle soluzioni per sbloccare il mercato, all’internazionalizzazione delle nostre realtà, alla differenziazione tra due prodotti entrambi validi ma diversi per qualità intrinseca come quello industriale e quello artigianale.

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