L'arca olearia

OLIVE OIL INDUSTRY? NO! PRIMA DI PROPORRE MODELLI AD ALTA INTENSIFICAZIONE COLTURALE, OCCORRE AVERE VARIETA’ ADATTE E STUDI CHE INDIVIDUINO TERRITORI VOCATI. ALTRIMENTI E’ SOLO UNA SCOMMESSA

Anche Claudio Cantini, noto ed apprezzato ricercatore del Cnr nonché responsabile dell’Azienda Santa Paolina di Follonica, entra prepotentemente nel dibattito con una posizione ben chiara ed esaustiva, senza rinunciare alla polemica: “Basta sindromi da complotto. Chi ha criticato e critica il monocono, e mi ascrivo tra questi da sempre, non lo fa per partito preso, e non lo fa per tutte le situazioni agronomiche”

08 settembre 2007 | Claudio Cantini

Vorrei portare un contributo al dibattito sulle nuove tecniche di coltivazione dell’olivo “OLIVE INDUSTRY PRO E CONTRO” che ha visto recenti interventi da parte del Prof. Fontanazza e del Dott. Pannelli (TN27) e già avviato da precedenti articoli di Alberto Grimelli (TN23) e Francesca Gonnelli (TN11).
Vorrei riassumere, per mia chiarezza e per quella dei lettori, quanto riportato negli articoli citati: è stato proposto recentemente, a partire dalla Spagna, un nuovo modello olivicolo basato su una elevata intensità colturale (elevato sesto di impianto, fertirrigazione, meccanizzazione di raccolta con macchine scavallatrici) che ha preso campo nei paesi di nuova produzione oleicola quali Australia, USA, Sudafrica, Argentina, Cile, ma stenta ad attecchire in Italia .
Il prof. Loreti, presso l’Accademia dei Georgofili, ha fatto una disamina di questa nuova tipologia olivicola esponendo dati tecnici e scientifici e Grimelli ha riportato su TN come alcune ricerche mettano in dubbio la validità di questo tipo di impianti per difficoltà nella gestione e incerta produttività. Si sono stabilite infine, per semplificare, due diverse correnti di opinione: una riassumibile come “contro”, validamente esposta dal Pannelli, che ha come argomenti la specificità dell’olivicoltura nazionale; l’esigenza di mantenere la tipicità della produzione oleicola associata alla sostenibilità, mediante l’adozione di tecniche collaudate di produzione, sintesi di varietà, ambiente e tradizioni culturali. Obiettivo di questa olivicoltura la produzione di oli peculiari da posizionare sul mercato a gamma elevata di prezzo. La posizione “pro” è stata invece riassunta dal Fontanazza con argomentazioni molto forti e convincenti: è un errore criticare negativamente e spesso gratuitamente i sistemi avanzati di coltivazione dell’olivo perché l’olivicoltura tradizionale italiana manifesta dei limiti di coltivazione e di marketing, le tradizioni condizionano troppo il nostro sistema produttivo, tenacemente legato a vecchi sistemi. Occorre pensare in modo nuovo l’olivicoltura da vedere come filiera industriale dove ogni passo è stabilito a partire dal giusto posizionamento del prodotto sul mercato. Mettere in dubbio che un sistema di coltivazione basato su alta densità, meccanizzazione di potatura e raccolta possa rappresentare una opportunità di contenere i costi senza compromettere quantità, costanza e qualità del prodotto vuol dire negare la validità, non utopica, dell’innovazione tecnologica. Il Fontanazza termina il suo interessante scritto con una nota: le sue affermazioni sono rivolte non a fare polemica ma chiarezza per il bene dell’olivicoltura italiana che necessita di un reale rinnovamento.

Personalmente invece un po’ di polemica vorrei farla e per questo ho deciso di scrivere su TN che è in realtà uno dei pochi “non luoghi” dove sia possibile farlo perché nei convegni, per abitudine, convenienza e quieto vivere si tende sempre ad evitare polemiche, ampiamente invece portate avanti durante le pause caffè ed in assenza di platea. Vorrei iniziare prima di tutto dalla questione del PRO e CONTRO in se stessa: è normale che su di un argomento ci possano essere delle opinioni contrastanti, nel nostro Paese però capita spesso che si tenda a prendere partito più in base al sentimento che al raziocinio. E’ assurdo come anche nel caso in questione l’argomento serio, tecnico, di una nuovo modello produttivo venga preso a pretesto per richieste di schieramento. La domanda più frequente che mi è stata fatta in qualità di tecnico olivicolo ed esperto di potatura è “ma lei è contrario o favorevole agli impianti fitti alla spagnola?”. La domanda che segue immediatamente dopo è invece: “ma secondo lei quali sono le varietà italiane che possono essere utilizzate?”, questo perché lavoro, ormai da anni, al mantenimento di una collezione di germoplasma olivicolo. Quando si prova ad argomentare scientificamente citando notizie storiche, dati, esperienze personali, magari sollevando qualche legittimo dubbio ben supportato, si viene immediatamente etichettati come “contrari al modello” e quindi in conseguenza, di pensiero “antiquato” e “sfavorevole al rinnovamento”. Il discorso finisce poi inevitabilmente sul perché da noi non si faccia sperimentazione su questo argomento concludendo poi inesorabilmente con l’affermazione che come paese siamo rimasti indietro e che tutti gli “altri” ormai ci hanno sorpassato.

Che nel mondo olivicolo stia accadendo qualcosa di importante, con l’avvento di questo nuovo modello intensivo e con quello che più ampiamente è stato definito olive industry è vero. Il difficile è capire a mio avviso quanto di questo modello conforti la legittima aspirazione all’innovazione di ogni operatore del settore e quanto invece l’interesse economico privato di chi su questo modello basa la propria fortuna, sfruttando magari proprio l’esigenza di cambiamento quando non direttamente la fiducia da parte di imprenditori senza storia nel settore e senza alcuna conoscenza di olivicoltura. A questo deve essere poi aggiunta l’importanza dell’azione trascinante delle onde innovative o mode, che contagiano proprio i più intraprendenti e ancora la tendenza, questa sì tutta italiana, di saltare sul treno in corsa, salvo poi scendere rapidamente al rallentamento lasciando il resto dei viaggiatori verso il loro ignoto destino.

Sia il Dott. Pannelli che il Prof. Fontanazza hanno ampiamente riportato notizie storiche frammiste ad esperienze personali e vorrei farlo anch’io visto dato che ho la sensazione di vedere quanto già vissuto dal settore olivicolo dopo la metà degli anni ’80. Brevemente per lettori: in seguito alla grave gelata che colpì le regioni centrali italiane nel 1985, si pensò da più parti che poteva essere colta l’occasione per un rinnovo della olivicoltura. I vecchi oliveti potevano essere spiantati e nuovi oliveti, razionali, moderni, con nuove varietà, meccanizzabili nella raccolta, potevano essere finalmente messi in condizione di dare velocemente frutto al fine di abbassare i costi di produzione e svecchiare l’intero settore. Una regione quale quella Toscana abbracciò quasi pienamente questa idea moderna e spinse politicamente dando alcuni incentivi alle aziende che intendessero seguirla, alcune province quali quelle di Siena giunsero a distribuire piante gratuitamente agli olivicoltori purché rispettassero le nuove direttive tecniche. La grande innovazione era il monocono. Fa bene il Prof. Fontanazza, dall’alto della sua storia e della posizione da lui raggiunta nell’ambito della ricerca italiana, a dire che in alternativa all’innovazione tecnologica da lui presentata ci sono state soltanto proposte di modifica delle forme tradizionali per adattarle agli agevolatori o agli scuotitori. Sbaglia invece profondamente secondo me, quando vuole esprimere un giudizio sulle innovazioni da lui proposte: questo dovrebbero fornirlo i dati della storia. E’ vero che il monocono ha degli aspetti positivi ma ne ha anche molteplici negativi, come accade con gran parte delle cose con cui abbiamo a che fare. Questo è il motivo per cui a distanza di tanti anni dalla presentazione del modello molti oliveti a monocono rimangono sì in essere ma molti altri sono stati trasformati, diradati o spiantati. E questo è il motivo per cui il monocono non attira certo più di tanto la olive industry, che di fatto cerca per la sua espressione nuove forme e soprattutto nuove piante, intese come varietà. Mi dispiace per il Prof. Fontanazza ma dire che il monocono ha fallito perché “è venuta a mancare la corretta applicazione della tecnica di allevamento e potatura per carenza di assistenza tecnica o per una certa malafede…..volutamente intenzionata a dimostrare l’incompatibilità della forma di allevamento con l’olivo”, mostra una sindrome da complotto sinceramente sconcertante. Chi ha criticato e critica il monocono e mi ascrivo tra questi da sempre, non lo fa per partito preso e non lo fa per tutte le situazioni agronomiche. Ci possono essere casi in cui questa forma, considerati tutti i pro ed i contro, può essere certamente presa in considerazione ed adottata. La critica viene mossa in seguito ad osservazioni ben precise, sulla base di dati ed esperienza personale. E poi mi scusi ancora il Prof. Fontanazza, ma sfruttare la basitonia per far crescere gli olivi a monocono in modo naturale è una cosa che riesce davvero solo a lui, a tutti gli altri comuni mortali tirar su un monocono, con la quasi totalità delle varietà, richiede interventi di potatura e fatti bene. Inoltre quanta esperienza è stata maturata utilizzando le spalle degli imprenditori più veloci a seguire le indicazioni tecniche? Si pensi al famoso sesto dinamico, ad esempio, fortemente propagandato nei primi anni del lancio della “nuova olivicoltura” e poi abbandonato. Ma chi lo aveva adottato quanto ha speso? Ed ancora al sesto di impianto con distanze sulla fila di 3 metri, adottato dal Garda alla Puglia, in asciutto ed in irriguo e soltanto successivamente allargato in funzione della crescita della pianta. Eppure, anche allora, chi esponeva critiche veniva accusato di non essere al passo con i tempi. La polemica però non vuole essere diretta contro il monocono, non era questa la mia intenzione; volevo invece utilizzare la storia di questo modello olivicolo per spiegare il ricorso storico ed inquadrare il mio pensiero contro quel misto di ammirazione e sudditanza mostrato da una parte dell’ambiente olivicolo italiano verso il modello spagnolo.

Veniamo quindi all’Olive Industry oggetto del dibattito iniziato da TN. Voglio subito sgombrare ogni dubbio: anche a me piacerebbe avere a disposizione e poter indicare agli imprenditori un modello olivicolo in cui i costi di produzione sono fortemente contenuti attraverso la meccanizzazione di raccolta e potatura senza compromettere quantità, costanza e qualità del prodotto attraverso la scelta di varietà idonee e magari con pieno rispetto dell’ambiente. Per ora però questo mio desiderio non può essere esaudito, e meno che mai dal nuovo modello proposto. Non voglio ripetere gli argomenti, ben documentati da cifre, di Pannelli, con cui concordo pienamente, ma dare alcune ulteriori informazioni ai lettori portando nuovi punti alla loro attenzione, alcune colti “dietro le quinte” durante il mio lavoro di tecnico olivicolo nel mondo e che voglio riassumere in tre punti.
- Presupposti economici: negli ultimi anni le società che si occupano di investimenti in ambito agroalimentare hanno commissionato ad esperti di marketing studi di settore dai quali si evidenzia come la richiesta delle sostanze grasse vegetali sia in crescita nel mondo. L’olio di oliva rientra tra quelle con maggiore potenziale di crescita in quanto associa a buone caratteristiche chimiche ottime proprietà nutrizionali che lo rendono in grado di aprire mercati anche in Paesi dove non veniva tradizionalmente utilizzato.
- Proposizione del modello: come accade per alcune grandi industrie del settore agricolo che producono sia i semi di una pianta resistente all’erbicida che l’erbicida stesso, il modello si inquadra in un progetto di filiera. Esistono delle società estere che vendono un “pacchetto” composto da cloni di olivo selezionati, pochi, già descritti nei precedenti numeri di TN. Esse forniscono le piante, assistenza tecnica per la realizzazione degli oliveti e a richiesta anche impianti “chiavi in mano”. Fanno questo in tutto il mondo, con forte spirito imprenditoriale ed ottima organizzazione anche se non hanno avuto negli anni la crescita che avevano ipotizzato al momento della loro costituzione. Il tutto rientra in un sistema “paese” quello spagnolo, che è il primo produttore al mondo di olio e che intende diventarlo anche nel settore commerciale dove invece prevaleva una volta l’Italia, questo anche mediante l’acquisizione di grossi gruppi industriali quali ad esempio la “Carapelli”.
- Utilizzatori: sono in genere società create ad hoc come accaduto ad esempio in Australia così come anche imprenditori privati, non sempre già attivi in agricoltura o solo in questo settore e quasi mai in olivicoltura. Possiedono grande liquidità fornita dagli investitori o proveniente da altre entrate e sulla base degli stessi studi di settore decidono di investire sulla produzione oleicola sfruttando proprietà di grande estensione già in loro possesso oppure acquisite in aree a basso costo, preferibilmente in paesi con piani di sostegno (Marocco) contrassegnate da presenza di acqua e manodopera a costi contenuti (Argentina, Cile). Possono essere in grado di sfruttare particolari canali commerciali o un diverso periodo produttivo (Australia). Hanno in genere scarsa conoscenza del settore oleicolo per cui si appoggiano direttamente ad imprese di consulenza per la parte agronomica, scegliendo il sistema in questo momento ritenuto più moderno ed innovativo, con massima meccanizzazione della raccolta. Talvolta per abbassare il rischio più modelli olivicoli sono introdotti nella stessa unità produttiva. Vendono il prodotto sul mercato internazionale mediante accordi diretti con società di grande distribuzione organizzata (GDO) od industrie olearie.

A mio avviso, sulla base di queste informazioni anche se sommarie e personali, dal punto di vista economico il rilancio dell’olivicoltura italiana su un modello identico non è proponibile in Italia per difficoltà oggettive: frammentazione della proprietà, mancanza di superfici adeguate o reperibili a basso costo, maggiori costi che verrebbero comunque richiesti per la produzione di un olio standardizzato la cui commercializzazione sarebbe legata ad industrie in grado di calmierare il prezzo proprio grazie all’offerta, in crescita, dell’olio proveniente da altri Paesi. Non tenendo conto dell’eventuale aumento del valore fondiario, quale imprenditore italiano oggi se la sentirebbe poi di investire molto denaro liquido in una impresa in cui, gli utili, se arrivano, giungono a distanza di anni? Quali tra questi gli imprenditori agricoli puri? Si deve tenere conto che nei piani finanziari di una grande società pronta ad investire nel nuovo modello in un paese africano sono stati utilizzati per lo studio di fattibilità prezzi di remunerazione dell’olio oscillanti tra 2,8 e 3 Euro al Kg. E quanto dovrebbe essere invece investito nel marketing da parte di un singolo imprenditore nel caso di ricerca di accordi diretti con la GDO?

Dal punto di vista tecnico invece voglio soltanto rifarmi agli articoli precedenti ed alle notizie oggettive private dal personalismo: al momento le informazioni scientifiche indicano come il modello presenti molte difficoltà e necessiti di adeguata sperimentazione in areali diversi, soprattutto per capire l’effettiva produttività e durata della pianta. Aggiungo che ogni ambiente ha la sua storia e quindi dal punto di vista economico la validazione del modello è ancora più complicata, viste le differenze in reperibilità di personale, capacità tecnica, mercato del prodotto. Naturalmente è l’imprenditore che si assume il rischio e che può decidere quando valga la pena tentare la sorte senza attendere il lento tempo necessario per avere maggiore sicurezze. Vorrei soltanto sottolineare in questo caso l’esigenza di una profonda valutazione economica del modello in funzione dell’azienda e vorrei suggerire una maggiore attenzione verso la proposta di utilizzazione, attualmente in atto da parte di diversi imprenditori e liberi professionisti, di varietà del patrimonio autoctono utilizzabili nel modello intensivo. Gran parte delle varietà italiane sono già state introdotte in molti impianti realizzati a sesti di 6x3 metri negli anni ’80. Della maggior parte si hanno indicazioni riguardo l’andamento produttivo e vegetativo ed alcuni impianti sono ancora in essere. Si cerchi di fare tesoro di quelle che sono le indicazioni del passato, se il “Maurino” o la “Coratina, da alcuni suggerite come idonee per impianti intensivi, avevano difficoltà a rimanere a quelle distanze mantenendo dimensioni ridotte, come può essere possibile utilizzarle a sesti inferiori? Nella storia tentativi di utilizzare olivi a sesti ridotti sono molteplici, nel 1985 ad esempio il Prof. Fiorino, dell’Università di Firenze, mise in campo presso l’azienda Santa Paolina di Follonica piante delle varietà “Frantoio”, “Pendolino”, “Carolea”, “Nocellara” alle distanze di metri 2,5 x 2 e 2,5 x 1 con esiti disastrosi fin dai primi anni. Anche l’adozione di portinnesti nanizzanti, altro cavallo di battaglia rispolverato dal passato, è meglio che faccia i conti con gli avi: ogni varietà di olivo si comporta in modo diverso quando messa su di un portinnesto e se questo è poco vigoroso la pianta innestata tende ad affrancarsi. Alcune varietà esistenti possiedono comunque una minore capacità vegetativa, non voglio nominarle per non avviare una corsa allo loro ricerca e se coltivate in asciutto tendono a rimanere di limitata dimensione per un certo numero di anni ma la loro produttività, in caso di tentativo di coltivazione a sesti ridotti, tende ad essere bassa ed alternante e quindi a mio avviso un tentativo di utilizzazione in modo non tradizionale richiederebbe una adeguata sperimentazione soprattutto dal punto di vista economico.

Non ci resta quindi che soccombere ancorati al nostro passato davanti all’incalzare delle epoche future ed ai nuovi paesi emergenti? Senz’altro le ricette suggerite dal Fontanazza sono le più sensate: non fermare la ricerca, selezionare nuove varietà. Nel frattempo però sarebbe meglio fare il punto sui modelli olivicoli utilizzabili nel contesto italiano, con le nostre varietà e con tutti i macchinari a disposizione. E provare, seriamente, con criterio a lavorare per la messa a punto e la validazione di ciascuno di essi, come sta facendo ad esempio la Regione Toscana con il progetto MATEO. Anche con spirito nuovo, perché no. Basti pensare che oggi si cerca di limitare la crescita della pianta per il modello spagnolo alle dimensioni idonee per far passare la macchina scuotitrice. Ma in Australia, paese sempre raffrontato al nostro, hanno dapprima realizzato gli impianti per le macchine esistenti ed al momento in cui le piante sono cresciute troppo hanno provveduto a far costruire appositamente una macchina più grande. L’olivicoltura italiana manifesta davvero dei limiti ma non è nient’altro che uno spaccato del nostro Paese: frammentazione, disorganizzazione, scarsa o nulla propensione agli investimenti, sia da parte pubblica che da parte privata, scarsa fiducia nelle istituzioni.