L'arca olearia

ERA PROPRIO NECESSARIO IMPORRE IL DIVIETO DI VENDITA DI OLIO SFUSO AL DETTAGLIO? LA QUESTIONE DA CUI PARTIRE E’ LA SEGUENTE: DOVE VUOLE ANDARE IL PRODUTTORE? A COSA VUOLE PUNTARE IN VISTA DEL FUTURO?

Un lettore della provincia di Ancona, operatore del settore, ci ha scritto proponendo una raccolta di firme che coinvolga produttori e consumatori. Per una battaglia contro la legge comunitaria. Ma è davvero possibile un’operazione simile? Ovvero: ha senso restare nell’ottica di un prodotto da continuare a vendere allo stato sfuso? Il dibattito è aperto

20 gennaio 2007 | Luigi Caricato

I tempi cambiano, si sa, e così le abitudini. Alcune volte i mutamenti sono spontanei, altre volte sollecitati e imposti dal legislatore. E’ il caso della vendita dell’olio sfuso.
In Italia, come d’altra parte in tutti i Paesi produttori, era una consuetudine più che consolidata quella di porre in vendita l’olio ricavato dalle proprie olive, fresco di frangitura, così come sgorga dal separatore, senza nemmeno filtrarlo. In purezza, senza neanche pensare di selezionare il prodotto, senza neppure separarlo per cultivar, e in certi casi senza far distinzione di qualità, tanto – si pensa – per genuino è genuino.

Questo è accaduto per tanto tempo, da sempre, come tradizione comanda.
Ora però non è più possibile, perché il regolamento comunitario 1019/2002, del 13 giugno 2002, quello che legifera sulla commercializzazione degli oli di oliva, non lascia più spazio a dubbi, dettando invece regole piuttosto severe, imponendo tra l’altro l’obbligo di vendita al consumatore finale in recipienti da 5 litri, sigillati ed etichettati.

I regolamenti comunitari, sia chiaro, spesso e volentieri meritano di essere vituperati, perché in molti casi si rivelano strutturalmente deboli e pretestuosi, penalizzanti il comparto e a esclusivo vantaggio di una burocrazia che non può arrecare nulla di buono, ma solo un carico di costi e disagi a danno degli operatori, con, oltretutto, scarsi o nulli vantaggi nei confronti dei consumatori.

Si pensi per esempio alla comica storiella delle bilance elettroniche, che ha solo arricchito le aziende del ramo; o alla recente moda del rivelatore di temperatura per misurare il “ freddo”. Baggianate. Pure baggianate che diventano però legge, fino al limite del ridicolo, soprattutto quando è lo stesso legislatore che entra in una profonda crisi di ignoranza, permettendo di apporre la dicitura di “prima spremitura a freddo” – badate bene: prima spremitura - quando invece lo sanno perfino i bambini dell’asilo, che non ha più senso distinguere tra prime, seconde e terze spremiture, vista l’avanzata della tecnologia estrattiva.

Comunque, a parte la lunga serie di critiche – sempre benvenute – da riservare al legislatore comunitario (e nondimeno a quello nazionale), la questione del divieto di vendere l’olio allo stato sfuso non è tuttavia – al di là delle contrazioni di mercato – una scelta azzardata, quanto, semmai, una strada necessaria e inevitabile.

La società infatti si evolve e non si può pensare di fare “cultura di prodotto” spacciando olio allo stato sfuso e in contenitori di fortuna, spesso igienicamente in condizioni poco rassicuranti.

E’ vero che negli anni Ottanta, per esempio, una quota maggioritaria del mercato nazionale si avvaleva ancora dell’olio sfuso, ma ora i tempi sono cambiati e occorre perciò adeguarsi.
Accettare il cambiamento è un passo doveroso. E’ un segno di crescita culturale, soprattutto.

Si pensi alla campagna di sensibilizzazione che noi di “Teatro Naturale” abbiamo lanciato a difesa della qualità dell’olio nei ristoranti, facendo in modo di far abbandonare le vetuste e terribili ampolle.
Che senso ha, dunque, insistere nell’educare i ristoratori a un impiego corretto dell’olio, per poi lasciarsi andare vendendo il proprio olio extra vergine di oliva allo stato sfuso?

Appare forse credibile l’ipotesi di favorire un turismo dell’olio proponendo, lungo le cosiddette strade del gusto, il prodotto allo stato sfuso?
Sarebbe davvero curioso immaginare un turista amante del buon cibo ritornare a casa con le tanichette in plastica piene d’olio, o, ben più volenterosi, con i bidoncini in acciaio inox. Suvvia.

“Olio sfuso verso olio imbottigliato: norme inutili e dannose” è con tale titolo che un lettore della provincia di Ancona, titolare di un oleificio, ha voluto esprimere la propria opinione, invitando i produttori, e in primis i consumatori, a una raccolta di firme (per la lettera integrale clicca qui: link esterno), ma, appunto, sia detto con molta franchezza: ha senso una simile campagna a favore dell’olio sfuso?

Si tratta di punti di vista seri, da prendere in considerazione con il massimo rispetto. Sì, perché chi lavora ha sempre buone ragioni per avanzare i propri dubbi, per recriminare qualcosa. Non soltanto è legittimo il punto di vista di chi sta direttamente sul campo a fronteggiare la realtà, ma ha intrinsecamente più valore. Però noi dobbiamo anche riflettere sulla questione al di là delle contingenze, al di là delle pur comprensibili ragioni che si adducono a difesa del proprio punto di vista. Dobbiamo insomma ragionare per cercare di capire quale sia la strada giusta da percorrere, per il proprio bene, ma anche per il bene, in questo caso, dell’olio di oliva e del comparto tutto.

Non si può liquidare il problema con facili battute. Che l’incidenza del mercato dello sfuso sia molto importante lo si desume del resto da diversi rilievi dell’Ismea, non ultimo il quaderno di filiera dedicato proprio all’argomento (Il mercato dell’olio di oliva sfuso in Italia, maggio 2003), ma anche i vari segnali di protesta sono il chiaro sintomo di un malessere più volte denunciato. Si pensi alla Liguria, che si è opposta in modo netto rispetto ad altre regioni, ricorrendo al Tar e mai rinunciando alla battaglia.

Si capisce che il passaggio dallo sfuso all’imbottigliato può lasciare impreparati. Occorre ammetterlo.
Sicuramente tale passaggio ha determinato - inevitabilmente - un incremento dei costi.
Già, però fa parte della realtà delle cose anche adeguarsi ai passaggi epocali.

Fino a ieri gli oli di semi avevano, dalla loro, la forza di penetrare i mercati proprio attraverso la facile reperibilità sullo scaffale.
Solo di recente – e grazie al cielo – i produttori riescono a ricavare quel giusto valore aggiunto, presentandosi con la propria bottiglia, con il proprio marchio aziendale.
Non ha senso, inoltre, lamentarsi dell’invadenza delle aziende di marca quando poi non si manifesta il coraggio di osare, presentandosi sullo scaffale dei punti vendita in modo autorevole, con una bottiglia (la propria, o quella di un consorzio tra produttori) che restituisca dignità a un prodotto superbo come l’olio extra vergine di oliva.

Oggi, per fortuna, molte aziende agricole si confrontano con il mondo esterno, al di là della vetusta logica dello sfuso. E hanno ottenuto i primi, pur difficili, riconoscimenti, e con essi i primi guadagni, aprendosi con successo al mercato, anche quello più appagante dell'export.

Si pensi per intanto alla Spagna, un tempo ritenuta molto indietro rispetto all’Italia.
Oggi, invece, dopo averci per molti anni imitato – invidiandoci giorno via giorno – la Spagna è pronta a sottrarci importanti spazi di mercato, come già è avvenuto acquisendo alcuni nostri prestigiosi marchi storici.

Si osservino tra l’altro le bottiglie di olio spagnolo.
Si noterà il grande salto che hanno compiuto in un volgere di appena pochi anni.
Si rifletta attentamente, dunque.
La questione di fondo alla fine è chiara: non ci sono scusanti.
C’è solo da chiedersi cosa si voglia effettivamente ottenere in vista del futuro.
Chiedersi se abbia senso banalizzare un prodotto simbolo come l’olio extra vergine di oliva, riponendolo in contenitori anonimi dalla pulizia (e dalla genuinità, è anche il caso di dire talvolta) non sempre così certa.

Dunque, per concludere: o l’olio che si ricava dalle olive lo si considera un alimento importante, o, per contro, si rinuncia al futuro pensando di curare quel quasi milione e mezzo di ex fruitori dell’olio sfuso che fino a tre-quattro anni fa hanno rappresentato l’unico orizzonte per i produttori, a parte ovviamente la vendita in massa dell’invenduto a prezzi stracciati.

Rispetto al passato, tuttavia, c’è oggi un regolamento che non si può modificare.
Che fare allora: tornare indietro? Rinunciare alla qualificazione culturale del prodotto cui in tanti hanno contribuito a elevarlo nel tempo ad alimento di pregio? Oppure agitarsi per una battaglia improduttiva, anacronistica e velleitaria?


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