L'arca olearia

La nuova frontiera per far reddito sarà l'olivicoltura da legno?

La qualità del legno ottenuto da piante danneggiate o tagliate a seguito di senescenza non è tale da soddisfare un mercato esigente. E' però possibile realizzare impianti specificatamente destinati alla produzione di legno, senza che ne risenta la produttività. Ecco le varietà migliori secondo le indagini preliminari

01 novembre 2013 | Claudio Cantini

L’olivo è importate per la produzione di frutto ma riveste anche un notevole ruolo ambientale. Esso occupa infatti molti suoli marginali dove altre colture arboree stentano a crescere o a fornire reddito. La pianta è quindi in grado di produrre massa legnosa in condizioni di bassi input ma la sua attitudine alla coltivazione indirizzata alla produzione di legno di qualità non è mai stata controllata. Il legno dell’olivo infatti è di solito prodotto da piante di cultivar da frutto, tagliate in seguito a senescenza o danneggiamento; la qualità risente di queste condizioni e manifesta spesso caratteristiche negative. Il patrimonio genetico dell’olivo è però notevole e le cultivar presentano caratteristiche vegetative e di crescita variabili, per molte varietà è inoltre possibile avere materiale clonale per la realizzazione di impianti con notevole omogeneità genetica.

L’IVALSA CNR con una propria ricerca, parzialmente finanziata dalla Regione Toscana, ha voluto verificare se alcune cultivar potessero essere utilizzate in impianti appositamente progettati e condotti per la produzione di legno. L’obiettivo è quello di ottimizzare l’impiantistica e la gestione controllando l’impatto ambientale, determinare modalità di crescita e accumulo di massa legnosa, verificare le caratteristiche del legno prodotto e la suscettibilità di applicazione su larga scala del modello studiato.

Nel Novembre del 2003 è stato realizzato un impianto, in asciutto, al sesto di 4 x 4 m utilizzando 20 diverse cultivar. Le piante sono state predisposte in vivaio con un asse centrale di circa 1,8 m privo di assi laterali concorrenti. Durante i primi due anni si è provveduto alla formazione del fusto mediante potature fino a creare un tronco libero di circa 2 m di altezza. La chioma è stata lasciata libera di crescere liberamente, senza individuare branche principali, in modo che la vegetazione assumesse una forma a “globo”. Si è proceduto poi alla gestione dell’impianto in modo da limitare gli input tecnici, concimazioni, trattamenti antiparassitari e lavorazioni del terreno. Sulle piante si è provveduto a rilevare con regolarità la crescita in altezza ed in volume della chioma; sviluppo e regolarità diametrale del fusto, attitudine alla cicatrizzazione delle ferite, suscettibilità all’allevamento (danneggiamenti dovuti alla gestione, mortalità, interazioni con i fenomeni ambientali). A dieci anni dall’impianto può essere tracciato un primo bilancio. La messa in opera dell’impianto non ha presentato particolari difficoltà; è emerso però subito un problema legato alla messa in opera di sostegni più idonei a supportare le piante durante i primi anni. Le chiome infatti sono cresciute molto rapidamente creando un “effetto vela” notevole durante le giornate ventose. Alcuni danni sono stati poi causati dal passaggio dei macchinari per la gestione del terreno, specialmente durante i primi 3 anni, causando ferite non ben rimarginate su alcuni tronchi di piante che continuano a vivere ma con la prospettiva di produrre fusti di conformazione non regolare o con dimensione inferiore alla media. Solo poche cultivar delle 20 sotto studio, Olivo di Casavecchia, Canino, San Francesco sono risultate adatte a questo tipo di allevamento in quanto caratterizzate da tronchi dritti, regolari, con buon accrescimento in diametro e buona capacità di cicatrizzazione.

 

 

 

Aspetto della corteccia dei tronchi appartenenti a cultivar che tendono a chiudere perfettamente le cicatrici della potatura (sinistra) o con evidenti difetti naturali comuni per la specie (destra)

 

 

 

 

 

 

Alla luce di quanto emerso fino a questo momento si può ipotizzare che il raggiungimento di una dimensione idonea per il taglio delle piante possa essere raggiunto nell’anno 2015 dopo dodici anni di accrescimento in campo. La produttività in frutto delle piante non sembra essere al momento impedita, ma soltanto leggermente ritardata, di circa un anno rispetto ad un oliveto specializzato per la produzione di olio. La raccolta però può essere effettuata soltanto con agevolatori o scuotitori della chioma perché l’aggancio al tronco potrebbe danneggiare la corteccia. Manca inoltre totalmente un mercato del prodotto legno che deve ancora essere correttamente testato nella qualità e nel tipo di utilizzazione e risulta quindi al momento impossibile eseguire qualsiasi calcolo economico del modello.

Prove preliminari eseguite da IVALSA su legno di olivo di cultivar diverse hanno però nel frattempo dimostrato, al contrario del passato, che le caratteristiche tecnologiche quali distorsione e restringimento possano essere totalmente differenti e che alcune varietà possano produrre legname perfettamente utilizzabile industrialmente. I risultati quindi al momento danno positive indicazione soltanto riguardo la fattibilità in generale, le varietà utilizzabili e la possibile utilizzazione del legno per lavorazioni di “alta gamma”. Questa informazione ha trovato recentemente interesse in alcuni paesi africani dove l’olivo è una delle poche specie in grado di crescere in particolari aree climatiche e la produzione di legno potrebbe essere di notevole interesse.

Bibliografia

BARONE E., MOTISI A., ZAPPIA R., DI MARCO L., 1995- Utilizzazione del legno di olivo nella piana di Gioia Tauro. Atti convegno su arboricoltura da legno e politiche comunitarie. Tempio Pausania, 22-23 Giugno 1993, pp. 241-250.

BERTI S., BRUNETTI M., MACCHIONI N., SPINELLI R., 2001 - Verifica della possibilità di utilizzo del legname di olivo toscano. In: Nuovi sistemi di coltivazione dell'olivo. Aspetti agronomici, economici e qualitativi. Atti ARSIA, pp.79-81.

CECCHINI G., 1952 – L’identificazione dei legnami. Hoepli, Milano, pp. 222-223.

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