L'arca olearia
Comparto dell’olio, lo scenario è questo
Quando si è sul mercato, occorre assumere atteggiamenti coerenti. Troppi gli errori commessi. Il rischio è che il consumatore opti per il meno costoso olio di seme. Le imprese? Nel migliore dei casi definiscono la missione aziendale, ma non considerano la proiezione futura del comparto. Molti ragionano sull’immediato, confidando nell’arte di improvvisare
10 dicembre 2011 | Massimo Occhinegro
In questa mia nota si affrontano le complessità del mercato oleario, ma è giusto, prima di affrontarle, procedere con una doverosa premessa, necessaria per comprendere lo stato della realtà in cui siamo ci troviamo ad agire.
Quando si opera in un qualsiasi settore, ogni impresa più o meno orientata ai mercati internazionali, deve necessariamente occuparsi, oltre che di definire le politiche nonché le strategie da attuare nel breve e medio termine, anche di tracciare dei veri e propri scenari competitivi futuri.
Tali scenari, che rappresentano la proiezione futura del settore e del collocamento dell’impresa negli stessi, con le sue inevitabili implicazioni, sono indispensabili per poter garantire nel lungo termine, quello che si definisce, il “goingconcern” dell’impresa o in altre parole, la continuità aziendale.
Molto spesso, e anzi troppo spesso, le imprese nel migliore dei casi definiscono la missione aziendale , ma non contemplano tra le esigenze principali, di prevedere la proiezione futura del comparto in cui operano, pur essendo di fondamentale importanza. Così, improvvisamente può accadere, che a fronte di eventi inaspettati, ma che forse sarebbero stati prevedibili con un minimo sforzo, siano costrette a uscire completamente di scena.
Le ragioni possono essere diverse, si va: ad esempio, dalla modifica di una legislazione tanto in Italia quanto all’estero; e ancora, dal venir meno di certi fattori che ne hanno, fino ad allora decretato il successo, finanche alla mancata pianificazione di un ricambio generazionale, gestito senza un corretto spirito critico, ma piuttosto guidato da fattori affettivi.
Molti imprenditori ragionano sull’immediato e perciò ritengono di poter affrontare le nuove situazioni, createsi per l’effetto di un ambiente e di un mondo in continua evoluzione, alla bisogna, confidando nelle proprie capacità d’improvvisazione. La loro inettitudine alla pianificazione si autoalimenta, grazie all’innato conservatorismo e al cessato entusiasmo degli albori.
In molti di loro sussiste la convinzione, derivante dalla “tradizione” del loro comportamento passato, che poiché il loro modo di gestire, senza aver apportato alcuna modifica, ha funzionato in precedenza, possa essere replicato all’infinito.
Il loro modello gestionale di riferimento è quindi immodificabile anche perché ogni singola variazione comporterebbe noia e fastidi da un lato, e imprevisti dall’altro.
Purtroppo però la realtà è ben diversa. Sono sotto gli occhi di tutti, esperti e meno esperti, i cambiamenti epocali a cui in questi ultimi anni siamo stati e siamo tuttora sottoposti, e ai quali non possiamo sottrarci. Tutto ciò dovrebbe indurre a riflettere bene su ogni azione, su ogni decisione da prendere, che se non presa con coscienza, non può che comportare gravi ed irreparabili conseguenze.
Com’è possibile dunque non pensare che sia sempre più necessario ed anzi direi , indispensabile, acquisire una mentalità più strategica e per certi versi, lungimirante?
Le fasi dei cicli economici di regresso e recessione di questi ultimi anni, a partire da quella successiva al 2001, con l’abbattimento delle torri gemelle a New York, per poi andare al 2008 fino ad oggi, ci avrebbero dovuto insegnare che non è più concepibile improvvisare, che non è più possibile dormire sugli allori, ed ancora che è cogente procedere con le riforme strutturali da attuare in molti comparti economici, compreso quello agricolo , soprattutto in Italia. E’ in gioco la nostra sicurezza economico-sociale, è in discussione il futuro dei nostri figli e non mi pare che queste siano questioni di poco conto.
E’ di questi giorni la notizia riportata da Confagricoltura, che sulla base dei dati Unioncamere a disposizione, il numero di aziende agricole uscite dal comparto è stato di 13.600 ditte precedentemente iscritte alle Camere di Commercio.
Possiamo continuare a giocare, a prenderci in giro, solo per il nostro egoismo o per quello di pochi altri? Possiamo continuare ad “avere la puzza sotto il naso”, e a ritenerci inviolabili e intoccabili, mentre il mondo cambia, eccome cambia?
Leggerezza, camaleonticità, irrazionalità, sono questi i termini che più si adattano a tanti politici italiani, che pur di accontentare il loro elettorato, non hanno compiuto le scelte fondamentali quando dovevano essere attuate, rimandandole al dopo e ancora al dopo. Conclusione: oggi ci troviamo sull’orlo di una crisi di nervi, brancoliamo nel buio, seduti sull’ottovolante delle Borse europee e mondiali, non sapendo se dopo ci aspetta una discesa o una salita; l’incertezza regna sovrana.
Siamo dunque arrivati ad un punto tale che è stato necessario introdurre un governo tecnocratico, unico esempio al mondo, pur di intraprendere la strada della ripresa economica. Purtroppo però nel breve tutti i provvedimenti tenderanno necessariamente a penalizzare ulteriormente i cittadini e le imprese che già operavano in condizioni proibitive, il che significa ancora, meno sviluppo.
IL SETTORE OLEARIO
Tale premessa era necessaria per introdurre una questione importante che mi sta particolarmente a cuore, giacché ormai da due decenni vi opero: il problema del settore oleario.
Ho volutamente introdotto il concetto semplicistico di scenario per darne poi applicazione, qui di seguito al settore dell’olio di oliva.
Nella pratica gli scenari sono sempre più di uno, da quello più probabile a quello meno probabile; Inoltre la loro complessità deriva essenzialmente dai mercati presi come riferimento. Se infatti occorre costruire uno scenario globale, si renderanno necessarie moltissime informazioni e questo spesso non è possibile.
Ma andiamo nel concreto, cercando di tracciare uno scenario per il settore olio di oliva così come ad esempio lo vorrebbero alcune organizzazioni, che tanto in passato quanto ora e forse di più, continuano a commettere errori gravi che rischiano, proprio perché qualificabili a mio modesto avviso come incoscienti, di peggiorare la crisi economica del Paese, ovviamente per il lato agricolo, ma indirettamente per il lato posto più a valle della filiera.
Tali organizzazioni sono state sempre presenti nel tempo, di qualunque fosse il colore politico del governo, non hanno mai avuto scossoni, non sono stati mai oggetto di inchieste; al contrario hanno avuto la capacità di modificare la loro condizione, ossia da soggetti potenzialmente controllabili, sono diventati controllanti e in aggiunta continuano a essere destinatari in qualità di soggetti attuatori, di fondi ministeriali e europei, per investimenti in attività promozionali all’estero, pur non avendo alcuna esperienza di commercializzazione internazionale, né “numeri” di successo da poter vantare. Hanno la capacità di sbagliare clamorosamente “comunicati stampa” , gli stessi vengono ripresi dai media , con un copia incolla, tipico dell’era attuale, partecipano in qualità di “esperti” in trasmissioni televisive e il tutto senza che nessuno dica niente. Non ammettono il contraddittorio, boicottano chi ha l’ardire di pensarla diversamente da loro. Se qualcuno prova a scrivere sui loro siti, esprimendo in maniera garbata il dissenso, non replicano, fanno finta di niente, né pubblicano altri comunicati correttivi, l’ “errata” per loro forse esiste, il “corrige” mai.
Proclamano accordi con la grande distribuzione come eventi clamorosi e risolutivi per il settore dell’olio di oliva, creano società su società, probabilmente per distribuire posti di lavoro, ma alla fine non riescono a collocare una bottiglia di “made in Italy” presso i consumatori, grazie a questi favolosi accordi. Insomma li potremmo definire con una parola: “improduttivi”. Ministeri o non sappiamo chi, commissionano loro le ricerche più disparate, da svolgere anche in campi in cui loro dovrebbero definirsi “ignoranti”, anche perché fuori dal loro “core business”. I loro presidenti hanno stipendi, spesso a sei zeri , e non parliamo di lire, pur “governando” un popolo di persone notoriamente non abbienti, ma nessuno si scandalizza, anche in un periodo di attacco alla casta. Sono stati formidabili strateghi nel sapersi costruire un’immagine da “Sancta Sanctorum”, sono molto capaci nell’utilizzo dei media, senza esserne proprietari, al confronto Berlusconi è un dilettante; così oggi sono fondamentalmente, degli “untouchable”.
Ecco chi dovrebbe dunque “esorcizzare”la crisi dell’agricoltura, ahinoi, il rischio concreto è che si vada ancora più in basso, “usquead inferos”.
Immaginiamoci quindi il futuro del settore, cercato e voluto dalle suddette organizzazioni, in questo modo:
L’Italia produce mediamente 300.000 tonnellate di olio di oliva, ipotizziamo dunque che tutta la produzione nazionale venga venduta, grazie al loro supporto, al prezzo di 10 euro al kg, direttamente dai tanti produttori agricoli; in realtà già questo assunto presuppone che tutta la produzione italiana sia di qualità , il che non è, inoltre presuppone un prezzo impraticabile per tali volumi nella vendita.
E’ calzante una considerazione: il centro studi dell’Università Cattolica ha sostenuto che nei prossimi anni dai 13 ai 14 milioni di nuclei familiari disporranno di un reddito mensile sopra la soglia della povertà, di circa 1.500 euro. Ciò significa, in buona sostanza, che più di un terzo della popolazione italiana dovrà necessariamente cambiare il proprio stile di vita e quindi non potrà permettersi di spendere grosse cifre anche per mangiare (includendo l’olio di oliva). Quindi in un futuro non troppo lontano, sarà impensabile poter proporre una bottiglia da un litro di olio extra vergine di oliva al prezzo di 10 euro. D’altra parte anche oggi la quota di mercato degli oli italiani di pregio è inferiore all’1% del totale dei consumi.
Comunque il fatturato del comparto, in questa eventualità, sarebbe pari a 3 miliardi di Euro.
Nello stesso modo immaginiamoci che anche la produzione spagnola sia venduta come solo ed esclusivo prodotto confezionato, dagli spagnoli stessi. Si parlerebbe quindi di una produzione media di 1.200.000 tonnellate; la “politica” spagnola è proprio questa, non vendere lo sfuso e collocare tutto il prodotto confezionato, d’altronde tutti sanno che sono state le imprese spagnole ad acquisire i primi marchi italiani (Sasso, Carapelli, Bertolli).
Anche la Grecia con la sua produzione di altre 300.000 tonnellate farebbe la stessa cosa.
Lo stesso dicasi per gli altri produttori non appartenenti all’Unione Europea e cioè Tunisia, Marocco, Siria ecc. Sono noti i notevoli investimenti nel comparto a sostegno della propria produzione negli ultimi anni.
In questo scenario il risultato sarebbe il seguente:
La scomparsa di tutte le aziende confezionatrici di olio di oliva con relativi fatturati e relativi fatturati “garantiti” a tutte le imprese che lavorano per tali società (si pensi alle aziende produttrici di cartoni, di etichette, di bottiglie, alle aziende di trasporto, ecc.) quindi l’indotto. Il dato quantitativo complessivo che verrebbe sottratto al Sistema Italia, è incalcolabile; è facile dire che sarebbe impressionante e devastante per il forte impatto economico e sociale che avrebbe.
Infatti, poiché l’Italia consuma circa 700.000 tonnellate di olio di oliva mentre ne esporta oltre 350.000 , quindi un totale 1.050.000 di tonnellate, l’agricoltura italiana potrebbe fornirne soltanto 300.000 quindi ci sarebbe, da un lato la completa perdita dell’export (350.000 tonnellate) (nell’ipotesi in cui, per semplicità, tutto l’olio italiano venisse venduto in Italia) e dall’altro un acquisto dall’estero di prodotto confezionato pari alla differenza, questa volta commercializzato direttamente da imprese estere o da imprese italiane transfughe.
Per la verità con i numeri del centro studi della Cattolica, sopra menzionati, è altamente probabile che il consumatore appartenente al terzo della popolazione indigente, possa ritornare ad acquistare il meno costoso olio di semi, il che si tradurrebbe in un calo ulteriore del fatturato del comparto olio di oliva italiano.
In uno scenario “apocalittico” come quello testé descritto, il Paese Italia che non affrontasse seriamente il problema agricolo con dei radicali cambiamenti strutturali, che non facesse chiarezza sulla reale situazione produttiva italiana, ossia assolutamente deficitaria, e che non criticasse aspramente il comportamento dissennato di talune organizzazioni sindacali del comparto e del macro-comparto, poste a tutela del “Made in Italy” , cercando nel contempo di buttare le basi per un’azione complessiva comune, sarebbe un Paese (agricolo) condannato a uscire di scena, senza se e senza ma.

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Accedi o RegistratiAndrea Landini
31 dicembre 2011 ore 13:51Gent.mo Sig Occhinegro
Anzitutto la ringrazio per l’opportunità che mi da di esprimere il punto di vista del produttore in una discussione tanto complicata come quella che coinvolge il mercato dell’olio a livello mondiale.
Con tutta la buona volontà che posso metterci e comprendendo le argomentazioni che adduce in risposta al mio commento, devo dire che le sue considerazioni non mi convincono affatto, anzitutto quando dice che il successo del made in Italy non è dovuto dal made in Italy, ma alla capacità della nostra agro-industria di comprare il prodotto, soprattutto da fuori, per poi confezionarlo e rivenderlo mi sembra una affermazione piuttosto bizzarra, o meglio mi sembra una affermazione degna di chi del made in Italy non può fregargliene di meno, di chi vede l’ Italia solo come una piattaforma per il commercio internazionale che ha il pregio assoluto di nobilitare qualunque prodotto, alimentare o no, abbia la fortuna di transitarci. Il tutto però a scapito di chi in quel territorio deve produrre e che si vede inondare il mercato di olio proveniente da fuori, ad un prezzo molto basso, e che spesso tra l’altro diventa “ magicamente” italiano quando tocca le bottiglie italiane.
Non ho mai detto, e non lo penso, che tutto quello che si importa in Italia è olio di scarsa qualità, ma so, perché lo produco, che fare olio di qualità costa, perché la qualità esige costi maggiori lungo tutta la filiera produttiva, e, al netto dei risparmi dovuti alle economie di scala, questo costa anche negli altri paesi, da ciò se ne deduce che, anche da fuori, gli oli buoni costano, mentre quelli a prezzi stracciati sono pessimi. E siccome purtroppo da noi gli oli che si vendono nei supermercati hanno dei prezzi stracciati il sillogismo che ne viene fuori è immediato.
Quando lei dice che la nostra produzione non è in grado di soddisfare la richiesta, le rispondo che sarà sempre così finché la agroindustria con la “nostra” produzione vorrà soddisfare anche quella quota di mercato che pretende di avere l’olio a 3 euro al litro e che lo vuole anche italiano o ancor meglio toscano, sarà bene cominciare a far capire ai consumatori che è impossibile che un olio toscano possa costare meno di 8-10 euro a bottiglia, del resto se hanno capito che una bottiglia di vero Brunello di Montalcino non può costare meno di 15-20 euro, pur essendoci vini che costano 2 euro a bottiglia, non vedo perché non dovrebbero capire che una vera bottiglia di olio toscano non può costare meno di 10 euro, anche se si trovano oli a 2 euro al litro.
Concordo con lei quando dice che occorrerebbe una strategia congiunta di tutte le organizzazioni , Unaprol, Coldiretti, Federolio, Assitol, Unasco , CNO, AIFO, ecc. unitamente ai Ministeri dell’agricoltura e delle attività produttive ma questa si potrà fare, a mio avviso, solo quando sarà ben chiara la distinzione fra l’olio prodotto in Italia e quello solo confezionato in Italia, e da quello che vedo l’ agroindustria non ha nessuna voglia di fare chiarezza in questo senso.
Infine mi permetta un commento anche sull’articolo di “Repubblica” da lei citato, credo che lei sopravvaluti un po’ la Coldiretti se pensa che tale organizzazione si possa permettere il lusso di dettare gli articoli anche ad un giornale come “Repubblica”, non sarà piuttosto che le cose denunciate in quell’articolo sono vere, tanto più che è in corso anche una indagine della agenzia delle Dogane del Corpo forestale e della Guardia di finanza, e che quindi il giornale abbia correttamente denunciato l’ennesima frode ai danni dei consumatori e dei produttori Italiani ?
Augurando a lei, alla redazione, a tutti i lettori di Teatro Naturale, e soprattutto ai produttori di olio italiani un buon 2012 porgo cordiali Saluti
Andrea Landini
Produttore di olio in Carmignano
massimo occhinegro
27 dicembre 2011 ore 20:31Gent.mo Sig. Landini, la ringrazio per aver commentato il mio articolo.
Cercherò di fornirle alcune risposte.
La mia analisi tiene conto della globalizzazione; è un'analisi macroeconomica e quindi per ovvie ragioni, non può tenere conto delle ragioni dei singoli territori che ben si conoscono. La sua regione, ad esempio, produce mediamente il 3% della produzione nazionale e talvolta, da quel che mi risulta, acquista olive da altre regioni, Puglia compresa, per sopperire alla mancanza di prodotto, per far fronte alla domanda. I produttori pugliesi d’altronde lo fanno ben volentieri potendo contare su un guadagno maggiore.
Il mio riferimento alla carenza di pianificazione ed alla gestione improvvisata, non era riferita ai produttori bensì alla categoria che lei, dal tenore della lettera non apprezza , quale quella dei "confezionatori".
Se il Made in Italy si è affermato nel mondo, è bene ricordarlo, è grazie all'agro-industria, ossia ai vari Bertolli, Sasso, Carapelli, oggi in mano spagnola, che non hanno mai posseduto, come giustamente lei sostiene, nessun olivo. Le stesse Coldiretti-Unaprol, quando proclamano periodicamente il successo del made in Italy, fanno intendere di riferirsi a quello del 100% Italiano, ma sanno benissimo che in realtà il Made in Italy conosciuto nel mondo, è quello che viene acquistato dai Paesi produttori, Italia compresa, ma che viene confezionato in Italia ed esportato. Non è vero che tutto l’olio approvvigionato dall’estero sia , come scrive lei di “infima qualità” , è sufficiente prendere dei campioni ed assaggiarli per verificarlo.
Se si facesse comunque esclusivo riferimento al prodotto proveniente da sole olive italiane, il successo dell'Italia sarebbe molto magro, al contrario, si parlerebbe di insuccesso.
L'Italia non è isolata dal mondo e quando si vende nei mercati internazionali dobbiamo necessariamente confrontarci con concorrenti dei Paesi produttori, tra cui Spagna,Grecia, Tunisia, Turchia, Siria, Marocco, ecc.
I “maneggioni” dell’olio, così come lei li definisce, comprano l’olio dai frantoiani o dalle aziende agricole italiane ed estere e sono bravi nell’effettuare i tagli delle diverse tipologie di oli , necessari per distinguersi dal resto del mondo. In buona sostanza si è semplicemente fatto di necessità, virtù.
Quando lei fa riferimento alla legge della domanda e dell’offerta ed alle sue reminiscenze delle elementari, si basa solo ed esclusivamente sull’offerta italiana ma non considera che l’offerta globale è maggiore della domanda aggregata, come ad esempio si prevede quest’anno.
Il prezzo si forma in un contesto macroeconomico e non microeconomico. Naturalmente alcune produzioni di pregio meritano un prezzo alto e per questo vanno valorizzate ed affermate. Ma non è denigrando o condannando il lavoro onesto di tanti “confezionatori” che si può vincere la sfida globale dell’olio. A maggior ragione in un contesto di crisi economica, occorre proteggere in qualche modo i forti punti di debolezza di un sistema produttivo (la carenza di prodotto) e portare avanti i punti di forza che sono , la presenza di oli di eccellenza in molti territori italiani da un lato, e la capacità di essere gli unici a realizzare dei blend con oli di differente origine , dall’altra.
Infatti la Spagna vende solo olio spagnolo, la Grecia vende solo prodotto greco, il Marocco vende solo prodotto marocchino e così via.
Non dimentichiamoci che ad esempio nel settore della pasta, dove l’Italia è leader, gran parte della materia prima per produrla è di origine estera ed in particolare canadese.
Occorre quindi tracciare una strategia complessiva che miri a proteggere il Sistema Italia dall’attacco della concorrenza estera ma anche, purtroppo dagli attacchi che arrivano dall’interno.
Se non ho citato direttamente la Coldiretti ed anche l’Unaprol, che spesso agiscono congiuntamente era perché era piuttosto evidente il riferimento a fatti che sono sotto gli occhi di tutti, non a caso lei lo ha compreso subito. Ad esempio , proprio recentemente la Coldiretti attraverso un giornalista di “La Repubblica” ha fatto un’inchiesta dove , tra le tante altre cose che meriterebbero un’attenzione particolare, ha scritto che l’olio tunisino costerebbe 0,20 Euro al litro e quello spagnolo 0,50 Euro al litro, ..rivenduto poi dai confezionatori italiani a 5 volte quegli importi. E’ sufficiente vedere i riferimenti ai prezzi rilevati sui mercati internazionali per rendersi conto che questa non è informazione ma assoluta “disinformazione”. Qui di seguito un estratto e successivamente un link sul sito dell’Unaprol dove sono elencati i prezzi degli oli italiani, spagnoli, greci e tunisini. E’ evidente l’assoluta nefandezza di ciò che scrivono.
Se si scende a Sud fino a Malaga e si sale a Nord fino a Madrid si possono vedere 400 chilometri di uliveto ininterrotto. Coltivazioni intensive. Un chilo d’olio — ottima qualità — costa 50 centesimi. Gli importatori italiani lo rivendono a cinque volte tanto. Ora andiamo in Tunisia. Stiamo parlando del primo produttore di olio d’oliva di tutta l’Africa, e del secondo paese del mondo per superficie coltivata. Per produrre un chilo di olio qui bastano 10 centesimi. In Italia, a seconda dei frantoi (seimila), ci vogliono 4-5 euro. (7 al Centro-Nord, 3.53 in Puglia, 3.64 in Calabria).
Sul mercato africano all’importatore l’olio costa dai 20 ai 23 centesimi.
http://www.unaprol.it/bollettino/News%20Mercati%20sett%2050%2011.pdf
Il problema è che chi non segue queste cose ci casca pure. Da un punto di vista di sistema Italia occorre proteggere le categorie deboli dei produttori che devono guadagnare il giusto, sarebbe un disastro se gli olivicoltori abbandonassero la produzione ma nello stesso tempo occorre proteggere anche l’agro-industria che realizza maggiormente il valore aggiunto del Paese. L’azione congiunta di tutte le organizzazioni , Unaprol, Coldiretti, Federolio, Assitol, Unasco , CNO, AIFO, ecc. unitamente ai Ministeri dell’agricoltura e delle attività produttive, sarebbe auspicabile considerando che la Spagna, prima concorrente italiana , agendo congiuntamente sta riuscendo nell’intento di scavalcare l’Italia nelle vendite nei mercati internazionali ed a monopolizzare il “gusto” del suo olio prevalentemente prodotto. In mancanza di un’adeguata informazione e formazione del consumatore sul buon olio extra vergine di oliva che trova il limite nel reddito medio pro capite, la “massaia” nonostante tutte le indicazioni di origine , continuerà ad acquistare l’olio da volantino. Per poter fare questo occorre da parte di tutti un grande sforzo di comprensione della realtà produttiva italiana anche per decidere interventi strutturali soprattutto nelle aree più produttive del Paese quali Puglia e Calabria, oltre che campagne divulgative del Sistema Italia all’estero, e campagne di informazione di massa sul buon olio extra vergine di oliva, sull’olio di oliva e sull’olio di sansa di oliva. Un lavoro di squadra che oggi purtroppo manca per ragioni meramente personalistiche e propagandistichee che ci pone in una posizione molto rischiosa nella competizione mondiale.
Cordiali saluti,
Massimo Occhinegro
Andrea Landini
24 dicembre 2011 ore 15:55Sono più di 15 anni ormai che mi occupo, nella mia azienda, di produzione di olio extravergine di oliva in Toscana, più precisamente nella toscana centrale, nel mio caso a Carmignano, là dove per intendersi un olivo secolare produce 20-30 kg di olive (negli anni buoni), dove a intervalli di 15-20 anni arriva una gelata che fa seccare gran parte delle piante, dove le olivete sono tutte in collina ( a volte ancora con i terrazzamenti ) e quindi la meccanizzazione, se non impossibile, risulta comunque molto difficile, dove però si ottiene un olio di qualità eccezionale, dove la mosca è una rarità che ci costringe a fare trattamenti solo ogni tre o quattro anni, dove le olive sono raccolte solo ed esclusivamente a mano e vengono portate al frantoio al massimo ogni 48 ore, dove i parametri chimici per l’extravergine ( acidità < 0,8) sono così lontani che da noi un olio con acidità di 0,3 è già visto con sospetto, dove però, e qui è il vero problema, il prezzo è fermo da 10 anni, ed è, si badi ben,e un prezzo di 10-11 euro al litro; prezzo che da noi non permette di coprire le spese di produzione, e che quindi spiega il perché, se fate un giro per le nostre campagne, vedrete sempre di più gli oliveti abbandonati, con buona pace del paesaggio toscano famoso in tutto il mondo.
Ecco in questo contesto tutto mi aspettavo tranne che il signor Occhinegro mi spiegasse che a causa mia, del mio egoismo e del fatto che mi ostino a chiedere per il mio olio un prezzo remunerativo sto mettendo in difficoltà quelle dame di carità che sono le aziende confezionatrici e di conseguenza anche i produttori di bottiglie cartoni etc.
A parte il fatto che anche io, e come me migliaia di piccoli produttori, per strano che possa sembrare confeziono il mio olio e quindi compro bottiglie cartoni tappi etc. tra l’altro ad un prezzo sicuramente diverso dai confezionatori , in ogni caso mi permetto di fare osservare al redattore dell’articolo che la chiusura di centinaia di migliaia di aziende agricole produttrici di olio avrebbe un impatto economico sociale e anche territoriale sicuramente peggiore di quello che lui paventa per la chiusura di qualche centinaio di confezionatori.
Siamo in un paese dove e qui riporto fedelmente l’articolo di Occhinegro “ l’Italia consuma circa 700.000 tonnellate di olio di oliva mentre ne esporta oltre 350.000 , quindi un totale 1.050.000 di tonnellate, l’agricoltura italiana potrebbe fornirne soltanto 300.000” quindi un paese dove la domanda è tre volte maggiore dell’offerta, già dalle elementari mi hanno spiegato che quando la domanda è maggiore dell’offerta il prezzo sale, l’olio è l’unico settore che fa eccezione, questo perché i confezionatori italiani (o meglio con la sede in Italia) si approvvigionano di olio di scarsa qualità in tutto il bacino mediterraneo a prezzi infimi che poi reimmettono nel mercato facendolo passare, legalmente o no, per italiano, a prezzi impossibili per i produttori italiani
In ogni caso, Occhinegro ci illumina ancora, la colpa di tutto è come sempre della Coldiretti ( non ha avuto neppure il coraggio di nominarla) che vuole promuovere il prodotto made in Italy mettendo i bastoni fra le ruote ai maneggioni dell’olio, che vendono praticamente il 100% dell’olio italiano senza possedere neppure un olivo.
Cordiali Saluti
Andrea Landini
FRANCESCA PIANTONI
12 dicembre 2011 ore 11:46Finalmente un'analisi seria.
Complimenti !!!!
massimo occhinegro
31 dicembre 2011 ore 19:52Gent.mo Sig. Landini, cosa vuole che le dica. Le auguro che nel 2012 abbia la possibilità di fare uno stage in un'azienda olearia cd dell'agroindustria. Può darsi che solo così potrà toccare con mano cosa significa "competizione globale" e come le stesse operano , pur non negando che possano esserci pecore nere , presenti peraltro anche tra i produttori, oggi come in passato all'epoca dei lauti aiuti europei. Se lei giudica attendibile un intervistato che sostiene che l' olio tunisino costi 20 centesimi o che il vergine ha un'acidità di 0,20, buon per lei. Buon anno 2012.