L'arca olearia
C’è olio e olio. Non tutto è uguale
Prosegue il dibattito dopo il lancio del nostro Manifesto per il risorgimento dell’olio italiano. Il presidente di Olea prende nuovamente la parola per rispondere ai vari commenti al suo provocatorio articolo sui nomi degli oli di oliva
09 aprile 2011 | Ettore Franca
Sono fiero d’aver sollevato su “Teatro Naturale” il problema, facendo così chiarezza sulla definizione merceologica degli oli “da oliva”.
I commenti, e il dibattito che si è aperto, mi fanno sentire in un pur piccolo plotone di persone che prendono coscienza e che, forse, riusciranno a organizzare la propria voce non più donchisciottesca.
Ogni volta che, come ormai ex-docente della materia, dagli anni ’60 o quando come Olea, da vent’anni, intervengo ai corsi per assaggiatori o parlo ai consumatori o ai vari politici o funzionari del Ministero, ho sempre sostenuto la necessità di far quella chiarezza che appaghi le aspettative di quanti, con fatica o per passione, credono nell’olio e vorrebbero che al consumatore sia reso possibile scegliere l’olio consapevolmente senza dover ricorrere al vocabolario, al codice, ai regolamenti, alle direttive o fin’anco alle circolari.
Dal suo nascere Olea si è posta a disposizione dei produttori “seri e veri”. Li ha invitati a confrontarsi nei vari concorsi che ha organizzato a partire dal 1990 e ha cercato di far capire ai consumatori che c’è olio e olio e che l’olio non è tutto uguale.
Voce nel deserto dove soffia il vento della disinformazione che, alimentata dall’ignavia, induce alla resa di fronte al labirinto delle definizioni.
E’ vero, come ricorda Fausto Luchetti, che la metà dell’olio prodotto al mondo è scadente, ed è vero che il 50% (o il 75%) di quanto è sul mercato lascia a desiderare ma non credo sia compito di Olea, e di quanti ne condividono la filosofia, proteggerlo mentre, invece, mira a valorizzare il meglio.
Questo “meglio” non è l’olio “eccellente”, non è “extra”: dev’essere quello “normale”.
Ha solo bisogno di essere facilmente individuabile, differenziato da quanti, per un verso o per l’altro, “eccellenti” non sono.
Non è compito di chi ha perseguito e raggiunto il meglio preoccuparsi di difendere chi, per un verso o l’altro, anziché migliorarsi preferisce cavalcare classificazioni merceologiche troppo elastiche o definizioni cervellotiche tese solo a confondere il consumatore davanti a un prodotto reso misterioso.
Vorrei che l’olio al top della gamma, per antonomasia si chiami “olio d’oliva”. Magari gli si abbassi pure l’acidità libera a 0,5% anche per ridurre il fin troppo facile “nobilitare” l’“olio vergine di oliva” merceologico tagliandolo con l’extra e portare il miscela a 0,79%.
Gli altri oli, a partire dall’attuale “olio vergine”, ammesso che finisca in bottiglia come tale, debba dichiarare in chiaro la sua qualità inferiore (“olio d’oliva di seconda categoria”, per esempio) o, meglio lo si tolga proprio dal mercato dei “commestibili”.
Le miscele affermino ben chiaramente la loro vera natura: “miscela di olio rettificato e olio d’oliva”, “miscela di olio di sansa rettificato e olio d’oliva”.
Chi acquista, è libero nella sua scelta, ma ha il diritto di sapere, conoscere ed essere informato.
Chi produce le miscele è libero di farlo e metterle in vendita, ma ha l’obbligo di informare sul cosa propone senza nascondersi dietro giri di parole che, pur assecondate dalla legge, rasentano di turlupinare la “casalinga di Voghera” e, purtroppo, non solo.

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