L'arca olearia 02/04/2011

Basta confusione sui nomi. E se ritornassimo all’olio di oliva?

Basta confusione sui nomi. E se ritornassimo all’olio di oliva?

A partire dal “Manifesto per il risorgimento dell’olio italiano”, che propone il nome di "succo di oliva", interviene il presidente di Olea: mettiamoci nei panni della famosa casalinga di Voghera, costretta a cercare l’olio extra vergine di oliva, quando vorrebbe invece leggere il semplice appellativo “olio d’oliva”


Mi piace risalire la storia merceologica di questa benedetta “spremuta” di olive bistrattata da mezzo secolo a partire da quando, i cultori del diritto, le hanno appioppato cervellotiche denominazioni col gusto di complicare le cose semplici.
Alla prima legge, la 136/1908, bastò distinguere gli “oli di oliva” dagli “oli miscelati”, con quelli di sansa, ovviamente.

Poi venne il Rdl 15 ottobre 1925 e alla gente era sufficiente chiedere l’“olio”, tout court.   Non c’era bisogno di specificare “di oliva”;   l’olio era quello “d’oliva” per antonomasia.

Era vietato il commercio di oli deodorati, raffinati o disacidati e, per contrastare i furbi già attivi nelle miscele, quello “da sansa” doveva essere “sesamato” obbligando chi lo “fabbricava” ad informare sia il Podestà del Comune che il Ministero.

La legge prevedeva una classificazione semplice che, basata soprattutto sulla acidità, distingueva gli oli “mangiabili” da quelli “non mangiabili”.   I primi potevano essere “extra”, se con meno dell’1%, “finissimi”, fino a 1.5%, “fini”, se inferiore a 3%, “correnti” o “mangiabiletti”, fino a 4% o 5%.   Oltre c’erano quelli “non mangiabili”, gli oli “lampanti”.

Nel 1936, anno XIV, subentra il Rdl 27 settembre che cambia mangiabili in commestibili e distingue questi in “sopraffino vergine di oliva”, senza manipolazioni e con l’acidità fino a 1,2%, se l’acidità fosse sotto il 2,50% ecco l’olio fino di oliva, ma lo stesso nome vale per la miscela fra il “sopraffino” con l’“olio di oliva rettificato A”.

Semplicemente olio di oliva erano invece sia quello con acidità inferiore a 5,0% sia la miscela fra l’“olio fino” con “olio di oliva rettificato B”.
I due rettificati, A e B, erano ricavati l’uno da oli lampanti, i secondo dalla sansa, entrambi resi commestibili con manipolazioni chimiche.

“Non commestibili” erano gli oli lampanti che, pur ottenuti dalle olive, presentavano odori disgustosi come rancido, putrido, muffa, fumo, ecc. e/o una acidità superiore al 5% e, altrettanto lo erano gli oli lavati, ottenuti col lavaggio delle sanse e gli oli estratti con solventi.

Quella legge resterà in vigore fino al 1960 quando la 1407 farà appello all’impiego di aggettivi laudativi a partire dalla riesumazione di extra che, etimologicamente, e alla faccia della realtà, significa “fuori dal normale” quasi a dire che si tratta di una eccezione.

Nascono così “extra vergine di oliva”, “sopraffino vergine di oliva”, “fino vergine di oliva”, vergine di oliva” , in funzione della acidità rispettivamente inferiori a 1, 1.5, 3, 4, fino al “vergine lampante” oltre 4%.   I termini della nuova classificazione italiana si diffondono in Europa e altrove diventando patrimonio dell’umanità olivicola pur restando lontana da chi, storicamente consumatore, continua a chiamare “olio d’oliva” quello evocato dall’immaginario di ciascuno.

Le modificazioni successive - eliminazione del “sopraffino vergine” e del “fino vergine”, compreso il passaggio per il “corrente vergine di oliva” - ancora oggi, mezzo secolo dopo la legge 1407, non hanno intaccato la dicitura “olio di oliva” rimasta istintivamente impresse non solo nel consumatore ma anche in molti divulgatori, giornalisti, chefs.   Basta incappare in un qualunque canale televisivo dove c’è sempre qualcuno che ravana nei tegami per sentir parlare di “olio d’oliva” riferendosi, si suppone, all’“extra vergine”.

Mettiamoci nei panni della famosa “casalinga di Voghera” costretta cercare le etichette con una dicitura-treno, olio-extra-vergine-di-oliva, o doverla usarla per chiedere l’olio per casa quando senza tanti orpelli laudativi e fuorvianti basterebbe che, per legge, si chiamsse “olio d’oliva”.

E’ troppo difficile ricorerre a indicazioni semplici?   
O sono troppo semplici?
A cosa serve costringere i produttori ad illustrare, in una specie di romanzo, che l’extravergine è un “olio di qualità superiore ottenuto direttamente dalle olive e unicamente mediante procedimenti meccanici”, che l’“olio vergine di oliva” è “ottenuto direttamente dalle olive e unicamente mediante procedimenti meccanici” – quindi solo dal confronto diretto fra le due narrazioni esplicative si scopre che in questo manca la “qualità superiore”; infine la legge vuole che l’“olio di oliva”, sia descritto come “contenente esclusivamente oli d’oliva che hanno subito un processo di raffinazione e oli ottenuti direttamente dalle olive” dove, furbescamente, non si dice che i richiamati “oli d’oliva” erano quelli lampanti e si chiama processo di raffinazione quella che invece è una rettificazione.

Ho sempre avuto un sogno.   
Chiamare “olio d’oliva” l’attuale extra e dare agli altri definizioni vicine alla realtà e alla portata dei consumatori “normali” che non desiderano i distinguo tanto amati dai legulei.  
Chiamare “olio d’oliva di seconda categoria” l’attuale “vergine” (ammesso che sia in circolazione), e concludere la rassegna merceologica con le “miscela di oli rettificati e oli da oliva” e “miscela di olio di sansa rettificato e oli da oliva”.

Troppo difficile? C’è qualche olivicoltore – di quelli che si spaccano la schiena – che pensate obietti? O sono quelli che sull’olio costruiscono il loro business sulla pelle di consumatori non usi a decrittare i codicilli?

Un’ultima cosa.   
C’è già troppa confusione; per favore, non ne aggiungiamo altra.
Dalle olive si ottiene olio, ma la legge gli ha trovato otto nomi diversi, più le Dop e Igp.
Non attacchiamone altri a quelli che già girano: dal lapalissiano “olio di frantoio” (e da dove se no?), all’“olio del contadino”, a quello “di prima spremitura”, alla “spremuta d’olive”, al “made in Italy”, ai marchi “… di alta qualità”, “Q”, “OC”, e altri di fantasia chiari solo a chi li ha elaborati.

Siamo sicuri che chiamarlo “succo d’oliva” corrisponda a quanto i consumatori vogliono e che questo “succo d’oliva” sia proprio l’“olio d’oliva” del loro immaginario?

di Ettore Franca

Commenta la notizia

Per commentare gli articoli è necessaria la registrazione.
Se ancora non l'hai fatto puoi registrati cliccando qui oppure accedi al tuo account cliccando qui

Commenti 7

Adriano Balduccio
Adriano Balduccio
05 aprile 2011 ore 14:40

Non è colpa dei controllori!
Gli strumenti messi a disposizione ai controllori sono poco taglienti. A malapena si riescono a scoprire truffe grossolane.
Il problema non sono i controllori, il problema è la normativa! I controllori NON sono in grado di controllare perchè la normativa non gli mette a disposizione strumenti adatti.
Il panel... Quando è stato introdotto come parametro legale? 20 anni fa? E cosa è riuscito a fare? Faccio una stima: 9 su 10 bottiglie di extra vergine non possiedono i requisiti legali per quanto riguarda l’aspetto sensoriale previsti per la categoria extra vergine.
La normativa dice che un olio - anche lievemente - difettato non può essere denominato extra vergine. Contrariamente ai parametrei chimici le pretese organolettiche della legge nei confronti dell’extra vergine sono estremamente severe e - aggiungerei - non corrispondenti all’attuale potenziale tecnologico e qualitativo del comparto!
Immettendo sul mercato il suo olio il produttore dichiara sull’etichetta che l’olio corrisponde alla normativa. Il controllo di questa dichiarazione è obbligo degli enti di controllo tramite analisi chimico e sensoriale.
Il laboratorio chimico non troverà mai niente di strano se non si tratta di una truffa fatta con i piedi. Questo vale per tutti i laboratori in tutto il mondo. 1° perché i metodi analitici sono ripetibili e 2° perché i parametri chimici legali sono piuttosto permissivi.
Con il panel la cosa si fa più difficile. Perché con il panel si può essere anche sfortunati. Ci sono dei panel molto severi che bocciano anche oli con lievissimi difetti, altri panel invece fanno passare anche oli decisamente puzzolenti.
Sì, il panel è un bellissimo sogno, ma non è realizzabile, ha fallito! Ormai credo soltanto più alla chimica: polifenoli, HPLC, naso elettronico, molecole marker per i difetti, ecc., ecc.
Perché la serietà di un’analisi sta nella ripetibilità del risultato. Ripetibilità dove e quando l’analisi viene effettuato. Il panel invece non è ripetibile. Il risultato cambia da panel a panel ed anche all’interno dello stesso. Il panel è solo un’idealistico tentativo di oggettivare il soggettivo.
Smettiamo di fidarci di questa stampella costruita in materiale scadente. Rendiamoci conto che non abbiamo niente, proprio niente, per proteggerci della concorrenza sleale che ci rende la vita difficile e che fa sparire ogni giorno olivicoltori ed olivete.
Meglio disperati che illusi.
www.balduccio.it

Stefano Bonamico
Stefano Bonamico
04 aprile 2011 ore 21:04

Concordo con le denominazione che hai detto ma non mi trovo assolutamente d'accordo con il tuo parere dei panel test. A mio avviso i panel attualmente sono utilizzati pochissimo e potrebbero diventare, ovviamente in abbinato alla valutazione analitica, uno strumento oggettivo per definire un olio. Basterebbe semplicemente applicarle la norme ed al massimo obbligare in etichetta il riferimento del panel che ha definito la denominazione merceologica, ma soprattutto basterebbero dei sani controlli!! Possimo masturbarci mentalmente fin che vogliamo per trovare la formula o denominazione ideale per definire un olio di eccellenza, ma se poi mancano i controlli saremo sempre al punto di partenza..

Un saluto
Stefano

Adriano Balduccio
Adriano Balduccio
03 aprile 2011 ore 23:17

Il problema di fondo è che le diverse categorie d’olio d’oliva vengono distinte e definite tramite più di due dozzine di parametri chimici... che purtroppo servono a poco. Oggi, solo un operatore molto improvvisato metterebbe sul mercato un prodotto con questi parametri fuori dalla norma. L’analisi chimica prevista dalla normativa non compromette quindi la commercializzazione di oli scadenti come extra vergine.
Consapevole di questo fatto il legislatore introdusse l’analisi sensoriale. Senza dubbio, per distinguere un olio con gravi oppure lievi difetti da un olio senza difetti, il naso umano è il miglior strumento analitico.
Ma proprio il fatto che il naso è umano (errare humanum est) ha causato il fallimento del panel! Il panel come strumento ed istituzione è definitivamente inaffidabile!
Dobbiamo essere realisti e renderci conto che NON esiste nessun metodo affidabile e ripetibile per stabilire la qualità organolettica e tanto meno l’eccellenza di un olio, quindi lampante, vergine o extra vergine. Chi non è convinto proceda pure con l’acquisto di un qualsiasi „extra vergine“ nel vicino supermerato.
L’esistenza legale delle due categorie vergine (chi l’ha mai visto?!) ed extra vergine si basa quindi su una idealistica illusione.
È compito dello stato garantire la comestibilità di un prodotto, stabilire quindi se si tratta di olio d’oliva o di olio da rettifica. Ma visto che gli enti competenti hanno dimostrato di non esserne in grado propongo di lasciare al mercato la valutazione qualitativa e quindi l’attribuzione del valore.
Voglio indietro il vero nome per il mio olio: olio d’oliva. Non pretendo ne extra ne vergine ne romanzi assolutamente inutili sull’etichetta!
Ovviamente non dovrebbero avere diritto alla denominazione olio d’oliva gli oli scadenti, quindi, per esempio, quando hanno un contenuto polifenolico atipicamente basso, diciamo inferiore a 200 mg/l.
Fausto Lucchetti chiede giustamente cosa sia da fare con il „50% (se non del 75%) della produzione mondiale di olio d'oliva che extra vergine non è?“. Facile! Diamogli semplicemente i nomi che meritano. Se sono comestibili: „olio d’oliva di seconda categoria“ come propone Ettore Franca. Se no, vanno rettificati e messi in commercio come olio rettificato d’oliva.
Certo, il mondo ha bisogno anche di oli a basso costo. Ma mi rifiuto di accettare che questi portino la stessa denominazione degli oli eccellenti.

Stefano Bonamico
Stefano Bonamico
03 aprile 2011 ore 10:03

Concordo sulla necessita di fare della chiarezza lo strumento per spiegare al consumatore cosa stia acquistando.
Non concordo sull'utilizzo del termine "spremuta" in quanto, come sapete tutti molto bene, a differenza di un agrume l'olio dalla drupa deve essere estratto!!!!!
Il consumatore ad oggi e volutamente disorientato da una miriade di definizioni che lo portano inevitabilmente allo sconforto. Un altro problema sta nel non poter indicare In etichetta il contenuto in polifenoli se non nascosto tra una cozzaglia di altri parametri.
Due termini bastano ed avanzano, uno per indicare un olio con dei requisiti fenolici ed organolettici minimi, ed una per definire gli oli super cioè con parametri analitici ed organolettici davvero elevati.

Un saluto
Stefano

saverio ferrara
saverio ferrara
02 aprile 2011 ore 18:24

credo anch'io che ormai molta gente (consumatori e ristoratori)è stanca e molto confusa nel vedere a differenza di 20 anni fa, una marea di olii tutti cosiddetti extra vergini di oliva che spaziano da € 2,00 a € 10 circa sugli scaffali degli ipermercati.
sono pienamente d'accordo e credo che molti come me, che fanno il mestiere dell'imbottigliamento in modo veramente serio e professionale, si stiano, anzi sicuramente si dirigeranno nel prossimo futuro,su questa strada.

1)olio extra vergine di oliva per indicare la qualità superiore dell'olio di oliva con le proprie caratteristiche

2)olio di oliva per il consumatore che vuole spendere meno ma in modo consapevole.

tutto il resto, sono chiacchiere che fanno bene solo ed esclusivamente a certa gente che ci sguazza nelle carte..............

Oro Verde sas di Ferrara S. & C.
Trani
www.oroverdesas.com


Fausto Luchetti
Fausto Luchetti
02 aprile 2011 ore 18:22

premesso che nel mio contributo sul cinquantenario della legge 1960 ho già avuto modo di concludere che l'ideale sarebbe poter disporre di una sola denominazione: olio d'oliva, spremuta di olive (come esistono in commercio spremute di altri frutti, agrumi in particolare), indicavo che per ciò fare, è necessario che tutti gli olivicoltori (quelli che si spaccano la schiena con il loro lavoro)producano delle olive sane, mature (poco!) al punto giusto,da cui produrre un olio d'oliva senza difetti,vera spremuta di olive. La realtà, purtroppo, è che ancora oggi più del 50% degli oli prodotti nel mondo è rappresentato da oli d'oliva lampanti, non idonei alla consumazione diretta. Dell'altro 50%, la metà circa è rappresentato da oli vergini commestibili ed il resto da oli extra vergini. Non ci si deve quindi sorprendere se il cosiddetto "extra vergine" sia ancora (purtroppo!)da considerarsi un prodotto "eccezionale" rispetto all'insieme degli oli d'oliva commercializzati sul mercato. La domanda che sorge spontanea (direbbe Lubrano...) cosa facciamo del 50% (se non del 75%) della produzione mondiale di olio d'oliva che "extra vergine non è?. La proliferazione (deprecabile) degli appellativi che inondano il mercato e confondono il povero consumatore altro non è che il riflesso della situazione della produzione che, causa i prodotti che arrivano sul mercato, spinge il legislatore e gli operatori, che non sono dei filantropi,ad escogitare le più diverse tipologie tendenti a valorizzare un prodotto scadente all'origine.

Adriano Balduccio
Adriano Balduccio
02 aprile 2011 ore 12:45

Strano, ho avuto l'identico sogno... Vorrei tanto poter denominare il nostro prodotto con il suo vero nome: Olio d'Oliva!
Balduccio Azienda Agricola
www.balduccio.it