L'arca olearia
PROVE DI UN DIALOGO MANCATO. DI CHI E’ LA COLPA PER LA SCARSA REMUNERAZIONE IN OLIVICOLTURA?
E’ un terreno minato il comparto olio di oliva. Le aziende di marca sono le vere e uniche colpevoli dell'attuale decadenza? O vi sono altre responsabilità su cui si tace? La parola ai lettori che ci hanno scritto, con una analisi di Giovanni Belletti dell'Università di Firenze e le nostre considerazioni finali, oltre ogni appartenenza, alla ricerca di una vera e implacabile diagnosi
30 ottobre 2004 | Luigi Caricato
Produttori olivicoli e aziende di marca. Un accostamento difficile, certo, ma in futuro quanto mai inevitabile; anzi, così urgente e necessario da richiedere delle continue prove di dialogo tra le parti. Noi di âTeatro Naturaleâ abbiamo tentato di avviare tale ipotesi di conciliazione, e lo abbiamo fatto con un articolo, pubblicato il 18 settembre scorso, presentando una testimonianza-provocazione, scientemente vera, di Pompeo Farchioni della società per azioni Farchioni oli.
Ebbene, alla luce di quanto è emerso â e anche a fronte del difficilissimo contesto attuale dei mercati â non si può certo pensare di rifiutare il dialogo, occorre tentare in qualche modo di armonizzare il comparto, tranne che non lo si voglia invece affossare, in maniera definitiva, lasciando così via libera e incontrastata a concorrenti temibilissimi, e alquanto agguerriti, come Spagna e Grecia, senza nemmeno trascurare â intendiamoci â il ragguardevole peso degli altri Paesi extracomunitari produttori, i quali, quanto a idee e propositi, ne hanno di sicuro di ben più chiari, incisivi ed efficaci.
LA GOCCIA CHE HA FATTO TRABOCCARE IL VASO
Così dunque Pompeo Farchioni, nelle dichiarazioni riportate a suo tempo: âNoi lavoriamo con lâolio novello. Per essere presenti sul mercato in maniera tempestiva abbiamo cercato di fare un accordo con gli agricoltori italiani nel 2003. Servivano dai 15 ai 20 mila quintali di extra vergine e per la metà di tale quantitativo abbiamo cercato di fare dei contratti in cui si offriva dalle 7 alle 7.500 lire (dai 3 euro e 60 ai 3,90 circa, ndr), pagamento contanti con olio ritirato appena prodotto presso le loro aziende. Non è poco per un prodotto di massa. Eppure non è stato facile. Mi hanno costretto a comperare gran parte dellâolio dalla Spagna. Io, azienda italiana, ho dovuto acquistare un extra vergine Arbequina, di qualità , allo stesso prezzo che avevo proposto agli agricoltori italiani. Mi si spieghi perché io debba andare allâestero, quando lâolio potrei acquistarlo benissimo nel mio Paese.
Poi, sei mesi dopo, mi vengono a dire che non si comperano gli oli dei produttori italiani. Ma quando lo si deve comperare â dico io â un olio novello? Quando non è più tempo di proporlo come tale?
E â altro sale sulle ferite - è sempre Pompeo Farchioni a lanciare un messaggio chiaro e inequivocabile: âFinché lâolivicoltore italiano sarà prospero e vincente, noi lo saremo altrettanto. Nel momento in cui lâolivicoltura italiana arretrerà , anche noi, aziende di marca, non saremo più vincenti sui mercati.
Siamo strettamente legati al mondo agricolo, anche se gli olivicoltori non sempre lo comprendonoâ.
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LA VOCE DEI LETTORI, IN RISPOSTA
Alla nostra esplicita richiesta di replica alle dichiarazioni di Farchioni, in Redazione sono giunte diverse testimonianze, che qui presento in estrema sintesi.
Giuseppe Rosso è perentorio: pretendere di acquistare olio novello italiano ai prezzi di Farchioni è assurdo: âin Sicilia produrre olio extravergine da olive nostrane a me costa 5 euro (spese raccolta, più frantoio ), se ci metto le spese di coltivazione arriviamo a 7 euro, ed ancora non ho guadagnato nulla! Sotto questa cifra sono in perdita!â Tanti punti esclamativi e infine taglia corto: âNon ci prendiamo in giro!â dice.
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Giuseppe Del Console chiede come mai in un Paese dove il solo consumo è di gran lunga superiore alla produzione il prezzo alla produzione sia cosi basso. Poi aggiunge, polemico: nel momento in cui lâolivicoltore si organizza affacciandosi a suo rischio sul mercato, la lobby delle grandi marche usa le leggi per osteggiarne la crescitaâ. Seguono altre accuse, dure. Quindi aggiunge: cosa dire circa il cosiddetto âdeodoratoâ venduto come grande olio italiano?
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Marco Bettini ammette che almeno in centro Italia le cultivar che fanno qualità mal si adattano alla raccolta meccanica, e che comunque si parla di piante in gran parte non giovanissime; e a fare bene i calcoli, circa gli alti costi di produzione, i conti non tornano affatto.
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Massimo Occhinegro rileva infine il problema degli alti costi di produzione, che va risolto con forti investimenti sul fronte della meccanizzazione della raccolta e della concentrazione delle superfici, soprattutto nel confronto diretto con Spagna e Grecia.
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ALTRI RIFERIMENTI UTILI, APPARSI SU âTEATRO NATURALEâ
In un recente articolo si è fatto notare come effettivamente il mercato dellâolio di oliva stia oramai evidenziando una tendenza al ribasso, circa le quotazioni delle ultime settimane. Soprattutto per il segmento dellâextra vergine, mentre dei valori più o meno stabili riguardano il vergine e il lampante.
In Puglia e Calabria i produttori corrono a disfarsi delle ultime giacenze a prezzi stracciati. Lo dichiara senza mezzi termini in un altro nostro articolo il giornalista ed esperto della materia Antonio Ricci: âAlcuni pugliesi hanno detto di avere ancora le posture piene di olio; non riescono a venderlo neppure a due euro. Altri â aggiunge Ricci â ammettono di venderlo, a Bari, a un euro e ottanta centesimi!â Dichiarazioni tremende, che devono ben farci riflettere.
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Giovanna Miccolis, dellâIsmea, ammette che molti i produttori lamentano le scarse possibilità di collocare la merce. Non ha indugi nel confermare la realtà : âCome vuole la legge di mercatoâ, dice, âse sale lâofferta, mentre la domanda rimane stabile, deve calare il prezzoâ.
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Rimandare ad altri articoli apparsi nel corso dei nostri due anni di pubblicazioni è cosa ardua, si perderebbe il filo, ma una testimonianza molto eloquente circa il problema di cui stiamo trattando è apparsa a firma di Alberto Grimelli (âOlio extra vergine di oliva, ma quanto mi costi? Ecco unâapprofondita analisi delle voci di spesaâ), dove si comprende bene qual è la situazione del comparto in Italia. Gli alti costi di produzione rendono assai difficile essere competitivi. Molto eloquente il sommarietto a presentazione dellâarticolo: Sebbene esistano molte olivicolture, alle volte profondamente diverse fra loro, è possibile fornire alcune indicazioni sul costo di produzione della spremuta dâolive. A confronto anche diverse tecniche agronomiche e il loro impatto sul portafogli dellâimprenditore agricolo.
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LâANALISI DI GIOVANNI BELLETTI
In merito alla questione abbiamo ascoltato il parere di Giovanni Belletti, del Dipartimento di Scienze economiche dellâUniversità di Firenze, studioso particolarmente attento e sensibile alle dinamiche del comparto olio di oliva.
âCâè un problema di aspettative da parte dei produttori. A inizio campagna, è noto come anche a fronte delle previsioni di raccolta, gli olivicoltori abbiano aspettative di prezzo che tendono ad essere abbastanza significative e spesso sovrastimate. Per cui è evidente che il produttore medio si mostri piuttosto refrattario e anche scarsamente intenzionato a vendere. Preferisce infatti aspettare e verificare così lâevoluzione della campagna olearia, tenuto conto che normalmente i prezzi più alti si riescono a spuntare nei mesi di novembre e dicembre.
Câè poi un secondo problema, che consiste nella reale capacità di concentrazione dellâofferta. Su quantitativi significativi evidentemente occorre rivolgersi a soggetti o canali che siano in grado di disporre di volumi di prodotto di un certo rilievo. Qui emerge con evidenza il problema tuttora irrisolto dellâolivicoltura nazionale, ma anche di quella meridionale, che consiste nel non riuscire appunto a organizzare tale concentrazione. I soggetti che possono intervenire per trovare delle soluzioni a questo secondo problema sono il mondo cooperativo e quello delle associazioni di produttori.
âIl produttore oggi tende sempre più spesso a valorizzare il proprio prodotto. Di fronte a prezzi di mercato sul prodotto di massa scarsamente significativi, è chiaro che lâolivicoltore cerca di puntare a qualcosa che premi maggiormente i propri sforzi e gli investimenti laddove sia possibile. Lâesperienza toscana sotto questo profilo è stata molto decisiva, ma si lavora su quantitativi ridotti rispetto allâolivicoltura del Sud. Solo successivamente, in prossimità dellâestate, in Toscana ci si apriva allâindustria, la quale di fatto offriva prezzi molto contenuti anche in ragione della limitata produzione disponibile. Più tardi si è poi compreso che differenziando collettivamente il prodotto si potevano avere vantaggi ancora più sicuri.
âIl grande dilemma a cui il produttore cerca di dare una risposta resta ancora il seguente: è meglio vendere a inizio campagna a un prezzo molto alto e poi rimanere nellâincertezza sul prezzo e sulla possibilità stessa di vendere il restante quantitativo, oppure conviene invece accettare un prezzo che sia remunerativo per tutta la produzione?
Si può optare indistintamente per entrambe le soluzioni, purché vi sia però piena consapevolezza di ciò a cui si va incontro. La scelta non può avvenire a caso.
âLa soluzione, lâobiettivo a cui tendere credo sia la riduzione degli atteggiamenti speculativi delle due parti. Eâ necessario trovare strumenti comuni che facciano convergere lâinteresse di olivicoltori e aziende di marca verso un obiettivo comune. Ciò presuppone tuttavia un cambio di rotta. Il mondo olivicolo dovrà sforzarsi cercando di aggregare sempre di più il prodotto, abbandonando così quella posizione speculativa rispetto agli andamenti di campagna; da parte dellâindustria, invece, si tratta effettivamente di fare un investimento più a lungo termine, di concerto con gli organismi rappresentativi degli olivicoltori. Ci vuole però una coordinazione più stretta di quella attuale, non più episodica e saltuaria. Fermo restando che in questo caso si sta parlando di un prodotto di pregio ma destinato a un canale di massa. Questa credo sia lâunica soluzione. Anche perché è necessario risultare più competitivi rispetto ai competitori comunitari. Eâ ovvio che una programmazione a lungo termine non si possa fare, finché permarranno atteggiamenti speculativi o di arbitraggio, anche fra mercati di approvvigionamento diversiâ.
LE NOSTRE CONCLUSIONI
A fronte di quanto emerso, si può intanto concludere che la situazione in cui ci si ritrova è alquanto complessa e le responsabilità sono equamente distribuite. Non câè insomma attore della filiera che non abbia colpe di cui farsi carico, seppure gravino soprattutto a livello istituzionale le maggiori mancanze, sia chiaro. Dâaltra parte il non poter disporre a tuttâoggi di un Piano olivicolo nazionale lo si sta pagando a caro prezzo anno dopo anno. Le colpe delle Istituzioni sono però di riflesso anche le stesse che coinvolgono le associazioni di categoria, anzi, per essere più esatti: le unioni di queste associazioni. Questi organismi spesso si contraddistinguono per un certo innato immobilismo, a parte alcune eccezioni sâintende. In certi casi si assiste a uno spettacolo davvero indecoroso, con strutture anchilosate e poco efficienti perché troppo politicizzate. Lâassenza di ricambio ai vertici è un sintomo di un malessere tipico, a testimonianza di una scarsa rappresentatività che non fa certo onore al comparto. Queste anomalie alla fine si pagano. Si pagano soprattutto a distanza. La catena delle responsabilità non si fermano tuttavia qui, si estendono anche agli stessi produttori, i quali mai si sono interessati realmente alle sorti del comparto. Hanno pensato tutti al proprio orticello e si sono del tutto o quasi estraniati dalla politica olivicola che si è finora condotta a loro insaputa. Non hanno mai contestato nulla, mai sono scesi in piazza per propria scelta, mai si sono sganciati dal biberon fornito da Istituzioni e organizzazioni di categoria. Non hanno mai compreso che la formazione è un momento di crescita e insieme un passaggio fondamentale per la crescita e lâevoluzione del comparto. Fino ad oggi a crederci è stata solo un élite, una minoranza esigua che ha deciso di scendere in campo con mezzi di fortuna, mai godendo di appoggi esterni, spesso privati anche di finanziamenti. Soli dunque, a faticare, con le grandi difficoltà dei tempi attuali e con una burocrazia micidiale che uccide ogni buona intenzione e che nemmeno è mai stata, per espressa volontà di chi la impone, resa snella e comprensibile, fruibile in modo decente. Sono stati lasciati soli, i pochi che hanno voluto cavalcare la svolta. Soli con le proprie magre e instabili forze, senza il supporto della filiera e delle Istituzioni. Lâaddossare le colpe della situazione attuale alle cosiddette aziende di marca è un errore grave che ad alcuni fa forse comodo, ma di certo non giova a nulla. Occorre unità allâinterno della filiera, molta coesione e figure professionali altamente capaci, châè quanto manca. Occorre soprattutto depoliticizzare e desindacalizzare il mondo olivicolo, in modo da restituirlo ai diretti protagonisti della filiera. Solo con tali premesse si può in qualche modo affrontare il grave problema della scarsa remunerazione in olivicoltura. Ma non illudetevi, i tempi saranno lunghi. I risultati neppure certi, perché le colpe del passato non ci permetteranno certo di recuperare quanto è stato finora perduto e nemmeno quanto si perderà nei prossimi mesi, nei prossimi anni. La Spagna ci sovrasterà , in tutto. I primi segnali si possono cogliere già dalla notizia trapelata in questi giorni, circa le trattative per cedere la Olio Sasso a una società spagnola. Provate un poâ a immaginare cosa accadrà quando uno storico marchio italiano passerà sotto il controllo di un Paese concorrente così agguerrito e ben strutturato.
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