Fuori dal coro
L’olivicoltura portoghese vista con gli occhi di un piccolo produttore
Joao Rosado, ci racconta l’olivicoltura del paese, che sta vivendo un periodo di incertezza tra impianti superintensivi sempre meno remunerativi e piccoli produttori che diventano esempio di una olivicoltura possibile per il futuro
25 gennaio 2019 | Marco Antonucci
“Sono un piccolo produttore e sono felice di questo”. Joao Rosado mi accoglie nella sua tenuta con queste parole e un grande sorriso che racconta tutta la sua gioia di essere un olivicoltore. Sono in Portogallo, a Sao Bento do Mato (conosciuta anche come Azaruja), cittadina silenziosa famosa per il sughero, una decina di chilometri a nord di Evora, capoluogo dell’Alentejo.
Monte Da Oliveira Velha il nome dell’azienda: piccola, curata, una graziosa costruzione rurale finemente ristrutturata al centro dell’oliveto, piante che hanno dagli 80 ai 2000 anni (un paio sono state oggetto di analisi per la corretta datazione), la maggior parte Galega, cultivar tipica della zona. Tutto intorno terreni abbandonati o ricoperti da impianti superintensivi di Arbequina e Picual. “Molti coltivatori intorno a me hanno rimosso le piante vecchie e hanno messo a dimora siepi di olivo a filari, migliaia per ogni ettaro: grosse società portoghesi e spagnole che si occupano della posa delle piante, forniscono assistenza e materiali chimici e garantiscono l’acquisto del raccolto ad ottobre. Difficile non cedere alla tentazione. E’ accaduto quello che da anni succede con i polli in batteria: l’allevatore fornisce il capannone e un po’ di mano d’opera a fronte di un ricavo minimo, mentre l’azienda fornisce pulcini, medicine e mangime; l’olivicoltore ci mette il terreno, l’acqua, un po’ di cura delle piante/siepi e una volta ultimata la raccolta, che spesso avviene con scavallatrici, gli viene riconosciuto un minimo compenso che non è un reddito, ma semplicemente un importo di poco superiore a quello della sopravvivenza”. In poche parole, ci dice tristemente, questo è il quadro dell’olivicoltura nel centro del Portogallo. “L’80% dei giovani migra sulle coste per lavorare con il turismo o nei settori terziari dato che la campagna – se non in pochi casi – non dà più reddito, perché se è vero che oggi si fanno grandi numeri è purtroppo anche vero che il margine di guadagno si è ridotto quasi al nulla”. Effettivamente, nelle centinaia di chilometri percorsi in automobile, il paesaggio, visto da semplice osservatore quale sono, rispecchia le parole di Joao. “I miei nonni stavano seguendo la stessa strada anni fa: avevano iniziato con le piante più vecchie ma le enormi radici si erano ancorate a grossi massi sotterranei impedendone l’estirpazione. Una sorta di segno del destino perché una decina di anni fa ho iniziato a studiare per rimettere in funzione la piantagione, ormai abbandonata come molte qui intorno, ho eseguito potature di riforma, riequilibrato i nutrienti nel terreno ed ho iniziato a produrre olio. Poi ho preso in gestione un oliveto abbandonato poco distante da qui e da quest’anno la mia produzione inizia a darmi un minimo di reddito, anche se non ci potrei campare. Ma le difficoltà per noi piccoli produttori sono tante e si amplificano sempre di più: vendiamo il nostro olio ad un prezzo 5/10 volte superiore alla media del luogo (si trova prodotto certificato extravergine a € 2,00 al chilo), lo commerciamo in bottiglia e non sfuso, non abbiamo la possibilità di lasciarlo in punti vendita dedicati perché non ci sono… E poi il problema della logistica. Faccio solo un esempio: esistono solo frantoi giganteschi che non possono lavorare le nostre piccole partite che giornalmente raccogliamo e trasformiamo per avere la massima qualità e quindi dobbiamo percorrere centinaia di chilometri solo per trovare un frantoio adatto a noi… La mia è un’azienda a conduzione familiare e sono fortunato perché durante la raccolta ci sono 6/7 persone che a contratto ci aiutano ottenendo così un quantitativo giornaliero minimo, ma produttori più piccoli vengono bloccati da questi enormi frantoi che puntano solo alla grande quantità”. Perché a fronte di tutto ciò – chiedo - si sente un piccolo produttore felice? “Dopo l’incontro di quest’estate con gli altri produttori di olio ho scoperto che chi ha seguito l’idea dell’affiliazione alle grosse società si trova stretto in una morsa da cui non riesce più ad uscire. Personale da pagare, impoverimento del terreno, prezzi imposti dalla società – non sono pochi i casi di colleghi costretti a vendere l’olio a € 1,30 al chilo per non chiudere. Noi piccoli produttori che possiamo pensare alla qualità (intesa non come acidità e perossidi ma come amaro, piccante, profumo, gusto, tipicità), che possiamo vendere a chi vogliamo, soprattutto all’estero, che possiamo ospitare scolaresche e sederci in mezzo a piante antiche… Noi ci siamo accorti di essere felici perché il nostro lavoro, dopo anni di derisione, sta diventando un modello da imitare. E possiamo far sopravvivere un’agricoltura che rispetta i luoghi, le tradizioni e al tempo stesso può dare in prospettiva un reddito significativo”. Ci sediamo al tavolo della piccola costruzione in mezzo all’oliveto. Guardo la bottiglia: Amor è Cego. Mai nome più evocativo per esprimere la passione e l’amore per un prodotto e una terra: l’etichetta raffigura un volto stilizzato bendato ed ha vinto già diversi premi per il packaging. L’olio ha un profumo mediamente intenso e verde, che ricorda la foglia dell’olivo, con note fresche di salvia e rosmarino; in bocca l’amaro e il piccante sono gradevolmente presenti, persistenti, disciolti in un corpo piacevolmente fluido, che al termine dell’assaggio lascia la bocca pulita, avvolta in un sapore di erbe aromatiche. Un olio piacevole, armonico, onestamente complesso, che ben rappresenta le piante e il territorio da cui proviene.
“Ho voluto raccontare la mia storia” conclude Joao ”perché è comune a molti piccoli produttori portoghesi. Ci credo, ci crediamo. E lavoreremo in questa direzione perché la nostra idea di olivicoltura possa diventare un esempio per il futuro”.
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