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PIERO PITTARO: "HO TANTO LOTTATO PER CREARE LA PROFESSIONE DELL'ENOLOGO, MA ORA IMITARE I FRANCESI HA POCO SENSO"

E' il fondatore di Assoenologi, ma anche il presidente ad onorem dell'associazione mondiale che ne rappresenta la categoria. Con lui abbiamo parlato di vitigni autoctoni, uso e abuso di lieviti, additivi e legno, e altro ancora. "Spesso - ammette - si assaggiano vini che alleggeriscono i portafogli senza giustificare il valore dei soldi spesi"

20 dicembre 2003 | Alberto Grimelli

Nato nel 1934 nella provincia di Pordenone. Diplomatosi enotecnico nel 1956, dal 1975 ha assunto cariche di primo piano nell'Associazione Enotecnici Italiani per arrivare alla presidenza dell'Assoenologi nel 1987 e fino al 1996. Presidente effettivo dell'Unione Internazionale degli Enologi fino al 1999 ora lo è ad honorem.
Dal 1994 è Presidente dell'Istituto Sperimentale per l'Enologia di Asti.
Collabora con numerose testate giornalistiche e dirige la trasmissione televisiva del Friuli Venezia Giulia "Regione Verde" a carattere agricolo.
È titolare dell'azienda Vigneti Piero Pittaro di Codroipo(UD) con 81 ettari vitati e uno splendido Museo del vino su una superficie di oltre 1000 mq.



Ritiene che vi siano doti naturali per diventare enologo?
Assolutamente no, la professione di enologo è come un’altra. Una persona può amare maggiormente il settore agricolo piuttosto che quello industriale o commerciale. Per diventare enologo serve una buona scuola, per quanto riguarda l’assaggio e la valutazione di un vino si tratta di dedizione, di studio. Non servono predisposizioni particolari.

Rispetto all’attuale ordinamento universitario, quali sono le materie o gli argomenti che vorrebbe fossero trattati?
Io mi sono impegnato molto, fin quando sono stato nella stanza dei bottoni, per portare l’insegnamento dell’enologia a livello universitario, tuttavia attualmente è un corso di laurea triennale. Amplierei il percorso, facendo diventare specialistica anche la laurea in enologia, quindi quinquennale, insegnando anche tutte quelle materie che completano il percorso di studi, legislazione e aspetti nutrizionali sono indispensabili al giorno d’oggi. Non solo, succhi di frutta, birra, distillazione vengono ignorati, come se un giovane che entrasse nel mondo del vino non se ne dovesse più staccare vita natural durante. Se parliamo di flessibilità dobbiamo volgere lo sguardo in Francia, dove il percorso universitario crea un professionista che si può occupare tanto di vino quanto di tutti gli altri prodotti fermentati. In Italia non abbiamo nulla di simile, scienze e tecnologie alimentari è troppo generico. Abbiamo bisogno di maggiore specializzazione.

L’enologo è la figura simbolo del mondo vinicolo, un professionista anche a tutela del consumatore?
Ho lottato per due anni sedendomi fuori dal parlamento e dalle stanze delle commissioni per creare la professione di enologo, stufi di vedermi hanno istituito in breve tempo, con apposita legge, il titolo di Enologo. È toccato poi agli enologi discutere di autodisciplina. Sono stato anch’io contestato quando sostenevo che l’enologo deve essere responsabile, al pari del datore di lavoro, oltre che della qualità anche della igienicità e genuinità del prodotto. Il tecnico è stato catechizzato per non usare assolutamente prodotti che facciano arricchire il datore di lavoro ma che siano nocivi per la salute. Quindi l’enologo non deve accettare compromessi con il datore di lavoro quando ne va della salute pubblica. Durante i miei dieci anni di presidenza di Assoenologi mi sono battuto a sangue su questo fronte, anche grazie ai tempi, allo scandalo metanolo, oggi possiamo affermare che beviamo vini migliori sia dal punto di vista qualitativo, ma anche, non meno importante, dal punto di vista igienico e della genuinità.

Se in enologia abbiamo imparato molto dai francesi, perché anche importare il loro modo di coltivare la vite, le loro tecniche agronomiche?
In Italia ci siamo considerati sempre un gradino sotto ai cugini d’oltralpe, di serie B, quasi un senso di sottomissione perché ci hanno insegnato l’enologia. Tuttavia va ricordato che i francesi facevano vino duecento anni fa, noi abbiamo cominciato trent’anni fa, salvo qualche rara eccezione. Fino agli anni ’60 avevamo solo quattro qualità di vino: bianco, rosso, buono e cattivo. Ricordo quando i contadini alle sette del mattino, un tempo, avevano già buttato giù un fiasco non perché alcolisti ma perché era nutrimento Con la nascita delle Doc prima e di professionisti preparati poi il mondo vitivinicolo italiano è enormemente cresciuto. Di pari passo con il passaggio da alimento a bene voluttuario si sono dovuti adattare anche i vigneti, meno uva ad ettaro ma soprattutto meno uva a ceppo, quindi si è capito che servivano più piante per ettaro. Copiare i francesi però ha poco senso, loro hanno condizioni climatiche e podologiche molto diverse, inoltre stanno anche rivedendo certe scelte negli investimenti colturali, forse 8000-10000 ceppi per ettaro sono troppi, come pure possono esserci problemi sanitari con i grappoli troppo vicini a terra, specie negli ambienti pianeggianti italiani dove la bruma al mattino arriva a cinquanta centimetri di altezza.

Vitigni autoctoni: moda o vera riscoperta?
Cominciamo con un breve escursus storico. Fino al 1870, prima della fillossera, in Friuli si contavano 150-200 vitigni che andavano nello stesso tino per andare a fare un unico vino bianco o rosso. Queste ampelopatie hanno decimato il germoplasma autoctono, in molti casi non si è trattato di una grande perdita, non si sono persi spesso vitigni di grande qualità, ma alcuni possono dare ottimi prodotti, per esempio Refosco, Tocai, Verduzzo danno eccellenti risultati. Credo che per tipicizzare davvero una zona sia necessario riscoprire questi vitigni. Tuttavia dal coltivarli a farli conoscere in giro per il mondo la strada è lunga, e altrettanto importante dello studio e del miglioramento genetico è la promozione e la divulgazione. Possono servire decenni per far conoscere e apprezzare davvero un vitigno autoctono.
Non credo che si possa ribaltare l’enologia contemporanea dall’oggi al domani. La diffusione dei metodi di vinificazione ed affinamento utilizzati oggi servono a produrre vini dal gusto internazionale, buoni per tutti i consumatori del mondo, senza tipicizzazione, col territorio di provenienza in ombra. Arriviamo a produrre Chardonnay piemontesi, friulani, toscani, sudafricani o australiani che si assomigliano talmente tanto, con sfumature qualitative minime, che è praticamente impossibile riconoscerne l’origine. Il mercato ha finora premiato la qualità in valore assoluto, cioeè svincolata dalle zone d'origine. Ora il consumatore vuole conoscere la provenienza del prodotto, ossia la provenienza geografica. Questo è un bene, una grande strada: qualità e origine.

Rispetto ai vitigni autoctoni quale atteggiamento o accortezze consiglia a un enologo nel suo lavoro di cantina?
Il vino si fa nel vigneto. L’enologo che normalmente è un topo di cantina deve interessarsi molto di più rispetto a oggi del lavoro in campo. I pregi e la tipicità si ottengono nel vigneto. Anche il più bravo enologo riesce a trasferire la qualità potenziale dell’uva nel vino forse al 50%, quindi saranno necessari molti altri anni di ricerca per progredire. Certamente la tecnologia a disposizione aiuta moltissimo. Estrazione soffice e freddo sono strumenti importanti nelle mani dell’enologo. Difficile dare consigli, fare un vino è come fare un mosaico, tutte le tesserine devono andare al loro posto, il segreto sta nel non fermarsi mai all’opera prima, ma di anno in anno apportare piccoli miglioramenti, cambiando quelle tesserine che stonano.

Uso o abuso di lieviti ed additivi?
Gli additivi ormai sono ridotti ai minimi termini, con la tecnologia oggi a disposizione gli interventi chimici sono drasticamente diminuiti. Quello che rimane ancora è la solforosa che serve per guidare, secondo i nostri fini, la massa di flora batterica presente nel mosto. Tuttavia le dosi si sono abbassate anche del 90% rispetto al passato.
Il lievito è sicuramente un’arma importante perché in fermentazione un vino ha circa duecento milioni di cellule per millilitro, dobbiamo quindi far prevalere il ceppo maggiormente utile ai nostri scopi. Credo nei lieviti e in un loro saggio utilizzo, tuttavia non ho fiducia in chi fa i lieviti, nei produttori, che dovrebbero effettivamente propagare e commercializzare i ceppi che i vitivinicoltori vogliono, dando garanzie. Non sono per niente sicuro che nella scatola o busta vi siano quei fermenti che la ditta dichiara. È incomprensibile trovare in commercio un kilogrammo dello stesso ceppo di lieviti a 20 e 200 euro quando produrlo dovrebbe costare la stessa cifra, va a finire che compri quello più costoso senza reali garanzie e possibilità di controllo.

Uso o abuso del legno in enologia?
Eccezion fatta per alcune aziende tradizionali che producono vino affinato in barrique, sono tutti dilettanti nell’uso della barrique. L’idea comune è di buttare il vino in legno, fargli passare alcuni mesi e poi commercializzarlo come prodotto affinato. Ha poco senso vantarsi di fare solo due passaggi in barrique e poi ottenere vini che sanno di legno, che non sono i vini affinati. Il legno, che sia anche il rovere migliore, non si deve mai percepire in un vino. I francesi, nelle loro cantine, hanno legni di diverse età e continuano ad utilizzarli anche “vecchi”, non perché vogliono risparmiare, ma perché ogni barrique fornisce il proprio contributo, poi sta alla bravura dell’enologo eseguire un cupage equilibrato.

Prezzi dei vini, davvero una bottiglia può valere centinaia di euro?
Un vino può anche costare molti euro per la rarità e la preziosità, ma la qualità deve essere nettamente e immediatamente percepibile. Deve passare una frazione di secondo dal momento in cui viene degustato al momento in cui gli occhi si illuminano, in cui emerge tutta la pienezza e la qualità del vino. La fregatura sta nel fatto che spesso si assaggiano prodotti che alleggeriscono ben bene il portafoglio ma che non valgono i soldi spesi, che non hanno impatto emotivo, ma in cui dietro c’è solo immagine e marketing.

Quale libro consiglierebbe di leggere e tenere custodito nella propria biblioteca a un enologo?
Difficile, sono affezionato a tutti i miei 2500 volumi che trattano di vino e vigna. Certo un punto di riferimento importante per ogni enologo è il Trattato di enologia di Ribererau-Gayon e Peynaud.

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