Articoli 18/10/2003

GIACOMO MACARIO: MARKETING E BIOTECNOLOGIE, TEMI PORTANTI PER UNA AGRICOLTURA CHE VUOLE CRESCERE

Il marketing - spiega uno tra i più grandi esperti del ramo - non serve per abbindolare il consumatore, è uno strumento utile che ha però dei costi. Sulle biotecnologie ci si muove ancora con molta attenzione e sospetto, sarà il pubblico a decidere


Giacomo Macario ha 68 anni. Ha occupato posizioni di crescente responsabilità fino alla Direzione Generale in aziende italiane e multinazionali, per approdare poi alla consulenza, nel 1972, gestendo importanti progetti presso i maggiori gruppi presenti in Italia e presso Regioni, Comuni ed Enti Pubblici.
Fra il 1985 ed il 1988 è stato partner di una delle maggiori società internazionali di consulenza e, successivamente, si è dedicato alla creazione e sviluppo di proprie imprese nel settore della consulenza e dei servizi tecnologicamente avanzati.
Giacomo Macario ha operato internazionalmente nell’organizzazione aziendale e nel marketing in Europa e negli Stati Uniti d’America.
E’ membro di numerose associazioni manageriali e di studio, sia Italiane che Europee e degli USA; ha ricoperto la carica di Board Member del European Marketing Council.
Giacomo Macario è esperto della Commissione Europea DGXIII per il programma Innovazione, ed esperto per la Valutazione dei progetti del 5° e 6° Programma Quadro; è partner fondatore del Gruppo Europeo di Interesse Economico “GEIEexpertABI” operante nelle Agro-Bio-Industries.



L’agricoltura è un settore tradizionalmente ancorato a consuetudini e schemi di ragionamento d’altri tempi. Quanto questo atteggiamento mentale contrasta con il mondo economico moderno sempre più votato alla dinamica e al cambiamento?
Per rispondere alla sua domanda occorre fare alcune precisazioni derivate dai dati del censimento Istat (2000). Le aziende agricole censite (zootecniche e forestali) erano nel duemila circa 2 milioni 600 mila, con superficie totale di 20 milioni di ettari, di cui 13 milioni di SAU (superficie agricola utilizzata). Delle 2.600.000 aziende ben l’88% erano da considerare piccole (inferiori a 10 ettari) ed il 2% erano grandi (superiori a 50 ettari); il 10% erano quelle medie.
Esistono quindi due mondi distinti: un’agricoltura industriale ed un’agricoltura ancorata a sistemi pressoché tradizionali per struttura produttiva e per capacità distributive. Sono due mondi distinti per tecniche di management avanzate e per modi di operare sul mercato. L’evoluzione della struttura produttiva è dipendente dalle dimensioni aziendali e l’evoluzione delle capacità distributive dipende, anch’essa, dal volume di vendita.
Nel settore agricolo le imprese medio piccole finora hanno subito, secondo me, pochi stimoli per sapersi modificare in continuazione, come il mercato richiederebbe. Si tratta di un atteggiamento mentale presente nell’88% delle aziende italiane, con una superficie pari al 24% dei 2 milioni e 600 mila totali. Cosa fare per migliorare questa situazione è un discorso che merita di essere indagato a parte.

Quanto marketing, strumenti di comunicazione e mezzi tecnologici sono sfruttati dall’azienda agricola? Quali vantaggi si possono trarre dalla piena utilizzazione di queste risorse?
Marketing, strumenti di comunicazione e mezzi tecnologici hanno un comune denominatore: il costo e le aziende piccole, che numericamente sono appunto l’88% di quelle totali, non possono affrontare costi e problemi di marketing in maniera autonoma. Ci sono esempi eloquenti in Italia di associativismo e cooperativismo che dimostrano come anche le aziende piccole possono superare questi vincoli, ma sono ancora certamente non sufficienti a mettere questo 88% in condizioni dichiaratamente di mercato. La maggior parte di queste aziende sono ancora oggi nelle mani di intermediari, che regolarmente tagliano il profitto dell’impresa agricola. Questo è il vero problema!

Alle aziende che non possono avvalersi della consulenza di esperti di marketing, quali piccoli suggerimenti e trucchi può consigliare per un approccio professionale al mercato?
Anche a quest’interrogativo non si può rispondere senza aver prima analizzato l’universo produttivo agricolo italiano, costituito da moltissime varietà: seminativi (cereali, legumi, patate, bietole, piante industriali, ortive, fiori e piante ornamentali, ecc.), coltivazioni legnose ( vini, olivo, agrumi. frutteto, vivai), prati permanenti. I suggerimenti devono essere forzatamente diversificati e per ciascuno di essi occorrerebbe fare una trattazione distinta, che richiederebbe molto spazio. Cercherò quindi di dare indicazioni generali.
Inizierò quindi con il precisare che, in questo caso, come per tutti i prodotti industriali, l’approccio al mercato è diverso a seconda del diverso target di vendita (tipo di cliente), cioè azienda che trasforma o vende il prodotto oppure consumatore finale, individuo che utilizza in proprio quanto acquistato. Quando il cliente è il consumatore finale cioè colui che consuma direttamente il prodotto (es. alimentazione) , l’approccio di vendita viene contraddistinto da tecniche di marketing denominate “business to consumer” ; quando la vendita invece è diretta a chi trasforma il prodotto agricolo (semilavorato) per poi immetterlo sul mercato del consumatore finale, l’approccio di vendita si caratterizza con tecniche di marketing denominate “business to business” .
Nei due casi occorrono strumenti diversi; in un caso (business to business) si devono usare strumenti di “push”, cioè che siano in grado di spingere il prodotto verso le industrie trasformatrici, con strumenti incentrati a massimizzare la qualità dei prodotti e dei servizi connessi, tali da consolidare il rapporto con dette aziende trasformatrici. Nell’altro caso (business to consumer) si devono massimizzare gli sforzi di comunicazione verso il consumatore, (informazione sul prodotto e pubblicità sul consumatore finale), che permettono di operare con azioni di “pull” , cioè raccolta dei consumi sulla base di azioni di pubblicità e promozione, possibili solo con significativi investimenti, che l’azienda piccola non può permettersi.
Questi concetti sono molto chiari negli esperti di marketing di associazioni o cooperative di distribuzione e nelle grandi e medie aziende produttrici (es. mele, vini, olii, formaggi, ecc.); potrebbero trovare impiego anche presso piccoli imprenditori agricoli? Sicuramente si, quando questi sono aiutati dalle strutture (Istituzioni) regionali e locali che danno voce alle caratteristiche dei prodotti tipici d’area. Quanti comuni hanno intrapreso la via della “tipicizzazione del prodotto” locale ed hanno dato voce ad essi attraverso manifestazioni (feste e fiere, ecc. ) locali?
Quali trucchi per un approccio professionale al mercato? Alle piccole si può solo dare il suggerimento di associarsi fra di loro per creare una base consistente di volume di vendita e di caratterizzazione del prodotto, tale da poter essere presenti sul mercato con una struttura minima di marketing (per studiare le politiche di prodotto e le politiche distributive), che permetta loro di mettere sul mercato un significativo volume di vendita ed un marchio (ad esempio una “De.Co”, cioè una “Denominazione Comunale”) che si caratterizzi per tipicità e/o per interesse turistico.

Tra le frasi celebri dell’inventore del marketing spicca “vale più un grammo di passione di un chilogrammo di marketing”. Condivide questa affermazione?
Confesso la mia ignoranza; non conoscevo prima questa affermazione, ma risponderei che secondo me, essendo il marketing il complesso di attività aziendali che regolano il sistema atto a portare il prodotto dal cancello dell’ azienda produttrice al consumatore finale, mi sembra comprensibile quanto sia indispensabile molta passione e creatività in chi deve studiare il flusso del prodotto lungo il sistema produttivo/distributivo (filiera), per invogliare il consumatore finale al suo utilizzo, ma altrettanto mi sembra anche indispensabile che il chilogrammo di marketing debba contenere tutti gli “ingredienti (cioè tecniche specialistiche)” utili a far prevalere il prodotto di un’azienda/associazione di produttori sull’altra. Trattandosi di tecniche specialistiche, non vedo come sia sufficiente solo la passione e credo che occorra molto più di un chilogrammo di esperienze per portare qualsiasi prodotto, in modo profittevole, sul mercato.

Il marketing viene spesso considerato il mezzo con cui abbindolare il consumatore e portarlo ad acquistare ciò di cui non ha realmente necessità. Etica a morale possono far parte della vita professionale di un uomo di marketing?
Mi verrebbe da rispondere in modo molto sintetico e sbrigativo: la mia esperienza dice che “ le bugie hanno le gambe corte” anche nel marketing e quindi, chi cercasse di abbindolare il cliente, si troverebbe dopo poco tempo in “braghe di tela”. Il marketing non può essere utilizzato per abbindolare il consumatore! Si ritorcerebbe, prima o dopo, contro a chi lo utilizzasse in maniera non corretta. Possiamo contare decine di casi dimostrativi di questo concetto, ma tralasciamo questo tipo di spiegazione; passiamo soprattutto a prendere in considerazione quali sono gli elementi del marketing mix (insieme di elementi base che si studiano nel marketing) da affrontare con studi ed esperienza. Essi sono: il prodotto, il prezzo, la piazza, la promozione ed i servizi offerti oltre il prodotto. Come si può capire l’unico strumento che il professionista di marketing ha a disposizione per “abbindolare il consumatore” è la promozione (pubblicità e comunicazione – compreso il packaging), che con affermazioni non veritiere può imbrogliare o confondere . Se di etica e morale volessimo parlare si dovrebbe disquisire su questi argomenti, ma mi sembra fuori luogo. Preferirei definire i concetti del marketing mix, per fare chiarezza su cosa si intende per marketing e dimostrare che l’approccio professionale al mercato non è fatto di piccoli suggerimenti o trucchi, ma è costituito da tecniche sperimentate ed a volte anche costose, di studio, che il piccolo o medio-piccolo imprenditore non può affrontare da solo.
Circa “il prodotto” normalmente si pensa che esso sia il frutto di capacità produttive legate esclusivamente alle capacità imprenditoriali dei singoli individui; non è solo questo il requisito che rende vincente un prodotto sul mercato. Lo sviluppo del prodotto deve essere il risultato di ricerche, risultato ben diverso dal “disegno/studio isolato”, ma che deve recepire gli essenziali legami fra i bisogni del consumatore e le capacità del produttore di soddisfarli.
Il secondo elemento del marketing mix è “il prezzo”. Molti sono gli agricoltori che lo subiscono e non possono che accontentarsi. Sicuramente la qualità del prodotto (come sopra descritto) motiva l’azione di scelta da parte di chi gioca il ruolo di intermediario/confezionatore, nel processo di consegna sul punto di vendita, e non tutti gli agricoltori sono mentalizzati, capaci ed in condizione di massimizzare il prezzo di vendita. E’ certamente un fatto di cultura e formazione (cultura imprenditoriale e capacità di cambiamento), ma non sono ancora poche le strutture che li mettano in condizione di “pensare costantemente al miglioramento del prodotto” ed alla diversificazione delle strategie di mercato e pochissime Istituzioni si sono interessate di questo problema che, secondo me, è il più importante della nostra agricoltura. Solo ultimamente (2001) si è visto un certo cambiamento di interesse al piccolo, con il passaggio del potere agricolo ai Comuni, ma non ho ancora percepito che questo cambiamento legislativo, dopo due anni, si trasformi in un interesse reale a sostenere la “De.Co.-Denominazione Comunale” con azioni di marketing coordinate dai Comuni . L’impressione che ne sto ricavando è quella che ci si fermi ad attribuire la Denominazione Comunale ai singoli prodotti/produttori, mentre invece è importante che la De.Co venga supportata da adeguati studi di mercato per capire la sua collocazione e da azioni di comunicazione e nuove strategie di vendita per massimizzare il profitto (qualità/prezzo). Quanti comuni si stanno attrezzando per dare questo tipo di assistenza alla aziende che ottengono la De.Co.?
Il terzo elemento del marketing mix è “la piazza/mercato”. Vendere senza avere sufficienti informazioni sulla piazza nella quale proporre i propri prodotti è un errore da non fare. Le sole informazioni che molti agricoltori, anche medi, non solo piccoli, utilizzano per vendere, sono quelle che raccolgono attraverso i loro soliti canali distributivi, senza preoccuparsi di fare ulteriori ricerche di mercato. I Comuni che si apprestano a rilasciare le De.Co. non affronteranno il problema nel modo corretto se non supporteranno le aziende medio-piccole con azioni di individuazione dei canali di vendita e di promozione delle caratteristiche tipiche dei prodotti locali.
Per “promozione” si intende tutto ciò che serve a far memorizzare al consumatore l’esistenza di un prodotto, quindi: la comunicazione/pubblicità, l’offerta temporanea e l’incentivazione, il marketing diretto sul consumatore finale, la fidelizzazione del cliente e la familiarizzazione nell’impiego del prodotto, la valorizzazione della qualità ed attaccamento alla marca. Di questi argomenti è inutile che ci soffermiamo a discutere perché essi sono quelli meglio conosciuti da tutti.
Il quinto elemento del marketing mix è “l’insieme di tutti i servizi aggiunti” che un produttore riesce a fornire al cliente in aggiunta al prodotto, in normali condizioni di concorrenza. Questo elemento non viene quasi mai preso in considerazione da chi non ha esperienza di marketing, mentre invece molte volte fa la differenza per potersi distinguere, come azienda e come prodotto e fidelizzare il cliente stesso. E’ da tenere a mente che gli aspetti che normalmente vengono mentalizzati e riferiti con maggiore frequenza, quando si danno/chiedono referenze, sono appunto i servizi aggiunti offerti. L’incremento di immagine aziendale, derivante da questi servizi aggiunti, è notevole, ma poche sono le aziende agricole che pongono la dovuta attenzione.
Tutto quanto sopra descritto non mi sembra proprio serva ad abbindolare il consumatore!

Le ricerche di mercato indicano un maggior interesse del consumatore verso prodotti tipici, di alta qualità e costosi, tuttavia si riduce sempre più la quantità di denaro destinata all’acquisto di alimenti. Sono dati apparentemente contrastanti, quale spiegazione può fornirci?
Vorrei fare alcune premesse. Come esperto di marketing sono coinvolto da alcuni anni da parte della Commissione Europea (DG XIII) fin dal 4° Programma quadro, per studi sulla diffusione delle conoscenze e delle tecniche di qualità e sicurezza, presso le PMI, nel campo agro-bio-indutriale e per promuovere il modello di consumo tradizionale “dieta mediterranea”. Attività diversificate di promozione per una politica nutrizionale e la valorizzazione dei consumi di qualità ed eco-compatibili, vengono svolte oramai su larga scala da regioni, province, comuni, Aziende USL, scuole, università, associazioni di categoria e gruppi organizzati. Si opera oramai a livello nazionale per indurre il consumatore ad un uso appropriato degli alimenti ed evitare l’impiego di prodotti che siano fuori da una nutrizione controllata e tanto più, danneggino la salute. Tutti messaggi questi che hanno condizionato il comportamento del consumatore. Lo stesso Istituto Nazionale della Nutrizione ha rivisto le “linee guida per una sana alimentazione italiana”.
I dati Istat confermano una riduzione della spesa media mensile delle famiglie in Italia di beni alimentari ( a prezzi costanti) fra il 1986 e 2000 da 401 € a 354€ . In diversi studi e convegni è stato messo in evidenza ripetutamente che i consumi alimentari in Italia sembrano aver raggiunto il livello di saturazione fin dai primi anni ’90. In situazioni di questo tipo (saturazione quantitativa e regime alimentare stabilizzato), uno degli aspetti che condiziona il mercato è che “la scelta del prodotto alimentare da parte del consumatore assume rilevanza soggettiva in funzione del desiderio di personalizzazione, sia sotto il profilo sensoriale gustativo, che come bisogno di ritorno-riavvicinamento ai valori del mondo rurale (prodotti tipici, ma anche modalità, canali e luoghi di acquisto-vendita diretta in azienda, agriturismo. “ (Le nuove tendenze dei consumi alimentari – a cura di Berni P. e Bergalli D.)
Questi sono dati solo apparentemente contrastanti, che costituiscono una considerevole base di approccio per nuove strategie di prodotto e di mercato che le Istituzioni regionali e comunali locali devono affrontare con azioni di comunicazione/sostegno della tipicizzazione del prodotto ( denominazione di origine controllata e garantita; indicazione geografica tipica; denominazione comunale; ecc.). Non si tratta, a mio parere, di erosione di denaro destinato all’acquisto degli alimenti, ma di spostamento di quote di mercato a beneficio di prodotti di nicchia, in grado di favorire la profittabilità delle aziende minori.
A questo proposito e con riferimento, in particolare, ai prodotti costituenti la dieta mediterranea, mi torna difficile capire perché nessuna istituzione pubblica italiana (governo, regione o provincia) abbia finora sentito il bisogno di sostenere le attività di promozione della dieta mediterranea, con azioni presso la Commissione Europea e presso il pubblico italiano ed internazionale, visto che la Commissione Europea stessa, fin dal quarto programma quadro, ha dichiarato il suo interesse a studi di certificazione degli aspetti salutistici della dieta mediterranea. Inoltre un progetto per creare una “Mediterranean Food Valley”, che realizzi una banca dati dei prodotti e delle caratteristiche qualitative e di sicurezza (comprese caratteristiche salutistiche) di questi, porterebbe indubbi vantaggi a tutti i prodotti agro-alimentari dell’area, catalizzando ulteriormente l’interesse del pubblico, non solo verso i prodotti della dieta mediterranea, ma verso tutte le produzioni caratteristiche di quest’area.

Le biotecnologie, il genere di argomento che trova, o accorati sostenitori o tenaci detrattori. Qual è la sua posizione?
Sulle biotecnologie la mia posizione è molto chiara anche perché ho avuto modo di effettuare studi sulla sua percezione da parte delle aziende alimentari italiane, proprio per conto della Commissione Europea. Non ho trovato PMI che si avventurino nell’area delle biotecnologie senza garanzie ed adeguata sicurezza sui prodotti (rilevazione effettuata su un campione significativo di aziende emiliane nel 1998). La mia sensazione, basata più sull’osservazione dei progetti presentati in Commissione Europea da gruppi certamente legati alle multinazionali, che dalla conoscenza specifica dei punti di forza/punti di debolezza dei prodotti biotecnologici, è che ci si muova in Europa con molta attenzione e sospetto, anche se lo sforzo delle multinazionali è grandissimo in senso opposto. Sarà il pubblico che deciderà; specie se sarà lasciata al consumatore la possibilità di scelta attraverso una chiara legislazione di trasparenza della comunicazione qualitativa (etichetta), per garantire il consumatore sull’uso di prodotti geneticamente modificati (Ogm).

L’orientamento dell’Unione Europea sulle biotecnologie non è chiaro. Una delle maggiori preoccupazioni è che in mancanza di regole le grandi multinazionali possano regnare indisturbate creando pericolosi monopoli. Quanto l’Unione Europea vive l’urgenza di dettare norme precise?
Non sono certamente in grado di dare risposte diverse da quelle che Lei sta ipotizzando e che sono sulle pagine di tutti i giornali. In questo momento particolare in cui i giochi sono anche più ampi di quelli che sembrerebbero (relazioni fra stati europei, fra questi e gli Stati Uniti) con un complesso di fattori politico-economici in gioco, che travalicano il pur grande problema delle sole biotecnologie in generale e degli Ogm in particolare, non è certamente facile prevedere ciò che sarà il futuro. Posso solo confermare quanto già detto prima: le grandi multinazionali europee e quelle americane sono certamente attive per fare i loro giochi, con una precisazione: i paesi nordici europei sono schierati a fianco di queste, non dovendo difendere tradizioni alimentari e qualità e molti tecnici/studiosi, anche italiani, formano un team notevole di sostenitori degli Ogm, ma il nostro Ministero sta giocando, secondo me, bene per difendere le caratteristiche tipiche dei prodotti italiani.

di Alberto Grimelli