Articoli 21/07/2012

Occorre un nuovo sistema di governance della terra: la proprietà collettiva

Occorre un nuovo sistema di governance della terra: la proprietà collettiva

I beni comuni non rappresentano una questione ideologica bensì, come dimostrano esperienze storiche, sono un diverso modello economico e relazionale


In questa fase di sempre maggiori cambiamenti radicali che ci portano a considerare le trasformazioni sempre più come espressione di processi di modifiche epocali sul piano economico, sociale e culturale, nessuno può permettersi di restare fermo.

L’agricoltura è anch’essa attraversata da una difficile ma interessante fase di ridefinizione nel suo rapporto con la società, il territorio, i cittadini, gli operatori agricoli.

Il recente decreto del Governo in merito alla possibilità di alienare patrimoni demaniali per esigenze di recuperare risorse finanziarie ha riaperto il dibattito nel nostro Paese in merito ai beni pubblici demaniali ed agli usi civici.

Su questo filone il convegno di INEA risulta tempestivo ed importante, perché ci offre l’opportunità di una riflessione che vada ben oltre un insieme di luoghi comuni da “pensiero unico agricolo”.

Infatti considero un punto di forza da difendere a tutti i costi quello del pluralismo agricolo per le differenti tipologie di imprese e del loro possesso nonché per le molteplici forme di imprenditore-operatore agricolo.

E’ questa ricchezza che costituisce una peculiarità italiana che non può essere dispersa, azzerata, o addirittura delegittimata per un’idea sbagliata e perdente di un modello pressoché unico di agricoltura industriale.

E’ ormai di diffusa condivisione il fatto che la biodiversità di cui dispone in modo ricco e diffuso l’agricoltura italiana sia frutto proprio del pluralismo agricolo e della diversificazione produttiva.

E’ quindi in un momento in cui è proprio l’innovazione culturale e sociale a rappresentare una possibile opportunità per uscire da questa opprimente e devastante crisi che il patrimonio storico, culturale, sociale ed economico delle esperienze diffuse delle proprietà collettive di questo Paese può costituire un modello di riferimento utile a rimettere in moto energie e risorse umane ed ambientali per processi economici e sociali radicati nel territorio, utili alla ripresa, per un diverso modello di sviluppo.

Da qui la nostra critica principale alle proposte del Governo di messa in vendita di questo patrimonio solo per “fare cassa”

La risoluzione del problema non sta nella maggiore privatizzazione del bene terra e delle risorse naturali, o in una concezione statalista ed assistenziale di gestione pubblica, bensì nell’elaborazione di nuove esperienze produttive, economiche e sociali fondate sulla concezione della proprietà collettiva “di terzo grado” (S. Rodotà).

I beni comuni possono essere una risorsa rilevante per le comunità ed i territori se le comunità interessate “definiscono e condividono” regole in grado di garantire la rigenerazione naturale e sociale del bene gestito.

Inoltre proprio in questa fase storica tra la morsa di un mercatismo selvaggio e le crescenti insoddisfazioni verso alcune esperienze di politiche pubbliche, cresce anche in Italia una domanda nuova di governance in grado di andare oltre la contrapposizione tra pubblico / privato.

Sia il mondo accademico che quello giuridico su questa materia hanno da tempo sviluppato un’ elaborazione sulle esperienze presenti in modo pressoché generalizzato nel nostro Paese dalle quali si rileva la necessità di rafforzare i termini della definizione del concetto di beni collettivi. In ciò si ritrovano le ragioni di una legge statale che stabilisca delle chiare norme sul fenomeno e le sue prospettive.

Da qui emerge infatti anche la necessità di ridare dignità riconoscendone l’ importanza, a quanto esiste in termini di comunanze e università agrarie, Domini, Consorterie, che non sono un “reperto storico” ma esperienze locali vive e vitali, come opportunità di un nuovo modello di sviluppo socio-economico fondato su una partecipazione responsabile delle collettività in modo diretto rafforzando la democrazia.

I valori su cui si fonda sono quelli della cooperazione, della sussidiarietà, della solidarietà, delle relazioni tra reti territoriali di prossimità, di un mercato locale.

La stessa legislazione, al di là dei linguaggi diversi, richiede una sua ulteriore ridefinizione che ne rafforzi il concetto e tuteli questo patrimonio dai pericoli di devastazioni speculative o cancellazione di diritti collettivi.

Infine, non possiamo fermarci alla sola questione della governance di questo patrimonio. Questione pur rilevantissima. Ma oggi è matura la domanda: è possibile pensare ad una ricostruzione reale di un patrimonio di terre pubbliche per l’agricoltura da destinare alle proprietà collettive? Penso di sì.

Il recupero di terre abbandonate o dei beni agricoli confiscati alla criminalità possono essere il nucleo iniziale di questo nuovo patrimonio collettivo.

I beni comuni non rappresentano una questione ideologica bensì, come lo dimostrano le esperienze storiche oggi esistenti, sono un diverso modello economico e relazionale delle comunità sociali a cui è possibile attingere utilmente in questa grave fase di crisi.

Ancora una volta dalla complessità e ricchezza culturale dell’agricoltura può venire un valido contributo teorico e pratico.

L’entità quantitativa di questi beni, ampia e presente pressoché in tutte le Regioni, confermataci anche dal recente censimento ISTAT (1.103.000 ettari gestiti da enti o dai Comuni), ci spinge a dire che sarebbero mature le condizioni per una Contrattazione Territoriale tra Comuni e collettività, in particolare tra giovani agricoltori, per un proficuo recupero ed impiego di queste risorse fuori dagli schemi pubblico/privato.

 

di Antonio Carbone

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