Articoli 09/04/2011

Il vino italiano oltre la crisi. Non mancano le opportunità di crescita

Fabio Piccoli e Denis Pantini sono gli autori di un libro, edito da Agra, in cui si indaga come sia effettivamente cambiato il mercato mondiale del vino con la crisi economica in atto


Il vino italiano ha resistito meglio degli altri player alla crisi sui mercati internazionali. Non solo ha sostanzialmente tenuto nel 2009, ma nel 2010 ha conquistato quote di mercato ai danni dei principali competitor. L’elevata segmentazione tipologica – e di prezzo – che contraddistingue il vino italiano ha permesso di assecondare le fluttuazioni di mercato imposte dalla crisi, rendendo così meno pesanti i colpi di una recessione che per certi vini – in primis quelli francesi – si sono tradotti in pesanti perdite nelle quote di mercato nei più importanti paesi importatori (come Stati Uniti e Regno Unito). Lo stesso però non è avvenuto in quei mercati in cui la crisi non si è fatta sentire, come Cina e Brasile, dove invece i vini francesi continuano a regnare leader incontrastati. Questo sta a significare che i modelli di internazionalizzazione seguiti dall’Italia mal si adattano a questi nuovi mercati di consumo. E tutto ciò non gioca a favore di un sistema produttivo che sconta forti ritardi dal punto di vista organizzativo e delle competenze di marketing e che si troverà, entro pochi decenni, a doversi confrontare con consumi nazionali di vino inferiori di circa un terzo rispetto a quelli attuali.

Nel panorama degli scambi agroalimentari il vino rappresenta uno dei prodotti più globalizzati, venduto ormai ai quattro angoli del mondo. Per la prima volta, in più di venti anni e a fronte di una crisi economica senza precedenti, nel 2009 il commercio internazionale di vino ha subito una battuta di arresto, facendo arretrare i volumi scambiati di quasi il 4%. Le reazioni degli esportatori a tale recessione sono state differenti. C’è chi, come l’Australia o il Cile, che pur di mantenere a tutti i costi le quote di mercato ha deciso di “svendere” o chi, come la Francia, che al contrario ha cercato di tener duro mantenendo i prezzi medi, ma si è vista ridurre la domanda da parte dei distributori.

Gli effetti di tali strategie hanno condotto, nel complesso, a una ripresa degli scambi mondiali nel 2010: i volumi di vino commercializzati sono arrivati al record storico dei 92 milioni di ettolitri, ma il recupero non è stato indolore ed ha cambiato, in molti mercati, le posizioni di forza relativa tra gli esportatori. In questa “rivoluzione”, la posizione dell’Italia ne è uscita rafforzata. Pur subendo, al pari degli altri competitor, una riduzione nei prezzi medi dei propri vini esportati, l’Italia è riuscita ad aumentare la quota di mercato – in valore - nel Regno Unito (arrivando al 15% delle importazioni di vino del paese e soffiando il secondo posto all’Australia), negli Stati Uniti (arrivando vicino al 30% e strappando la leadership alla Francia), in Germania (consolidando il primo posto con una quota di poco inferiore al 36%), in Canada (20%), in Svizzera (33%) e in Russia (26%).

Dove invece non si riesce a sfondare è il mercato cinese. Qui la quota dei vini italiani è in continua diminuzione dal 2006: sebbene le nostre esportazioni crescano di anno in anno, gli altri competitor riescono a fare meglio. In questo grande mercato così distante, l’organizzazione rappresenta un fattore competitivo fondamentale: non è un caso che la Francia, presente in maniera strutturata a partire dal 1980 con una joint venture franco-cinese nel settore degli spirits, pesi oggi sull’import totale di vino della Cina per quasi la metà.

Per cogliere le opportunità di crescita derivanti dai nuovi mercati di consumo del vino, alle imprese italiane non solo occorrono nuovi modelli di internazionalizzazione, ma soprattutto risorse umane competenti. Una per tutte, l’export manager.

Senza export manager preparati e un “presidio” costante del mercato appare quanto mai improbabile poter cogliere le potenzialità commerciali attuali e soprattutto future di un mercato come quello cinese, dove oggi “solamente” 36 milioni di persone sono consumatori di vino importato (di questi circa un terzo consuma vino una volta a settimana) ma diventeranno il doppio entro il 2020.

O anche degli stessi Stati Uniti, un mercato di consumo dove oggi siamo leader, ma in continua evoluzione dove si affermano mode, nuove modalità di consumo e canali di informazione innovativi che pesano sulle scelte di acquisto nel giro di pochi mesi e dove le strategie di commercializzazione differiscono da Stato a Stato.

Sebbene il futuro del vino italiano non passi solamente da questi mercati, è evidente che l’estero finirà per assumere sempre più un peso specifico e strategico maggiore per la continuità del sistema vitivinicolo italiano, per lo meno a parità di quelle che sono le attuali dimensioni produttive.

Anche se non bisogna dimenticare le opportunità che possono ancora essere colte dalle imprese sul mercato nazionale (ad esempio, attraverso lo sviluppo della vendita diretta e a tale proposito viene spontaneo chiedersi come sia possibile che un territorio come la Napa Valley in California dove oltre al vino non vi è nulla, nel 2010 sia riuscito a battere il record di presenze con quasi sei milioni di visitatori che hanno consentito alle aziende vinicole di superare la quota del 60% di fatturato realizzato con la vendita diretta?), le tendenze in atto a carattere strutturale dipingono un quadro di consumi di vino in inesorabile diminuzione.

D’altronde non potrebbe essere diversamente, considerando che oggi più di un quarto dei quantitativi di vino consumati in Italia dipende da consumatori con un’età superiore ai 65 anni. Si tratta di quella fascia della popolazione al cui interno figura la percentuale maggiore di bevitori abituali di vino, coloro cioè che accompagnano giornalmente tale bevanda ai pasti. Una generazione la cui scomparsa, alla luce delle differenti abitudini di consumo, non sarà rimpiazzata da quelle successive nel contributo agli acquisti totali di vino e che, unitamente alla maggior composizione multiculturale della popolazione italiana, rischia di far diminuire i consumi del 30% nel giro dei prossimi vent’anni.

 

di C. S.