L'arca olearia 10/03/2007

GLI OLIVETI SUPERINTENSIVI SONO UN NUOVO MODELLO DI OLIVICOLTURA. TIPICAMENTE INDUSTRIALE, DOVE SI PERDONO I CONNOTATI DI TIPICITA’ E DI SOSTENIBILITA’

L’olivicoltura superintensiva è un sistema colturale innovativo potenzialmente capace di portare alla drastica riduzione dei costi di produzione, soprattutto grazie all’abbattimento di quelli di raccolta. L’argomento suscita reazioni contrastanti, così come lo sono i dati scientifici. Al momento non vi sono certezze. Ecco i pro e i contro del modello superintensivo


Si tratta di un nuovo modello di olivicoltura, oggi diffuso soprattutto in Spagna, col quale la raccolta delle olive viene effettuata dalle stesse macchine che sono utilizzate ormai da molti anni per la vendemmia meccanica della vite ad uva da vino.
Gli oliveti superintensivi (>1000 piante/ha) sono stati studiati ed elaborati dai Vivai Agromillora Catalana in collaborazione con l’Institut de recerca y tecnologia agroalimentaries della Catalogna.
Tale nuovo modello è promosso e sostenuto da tale grande realtà vivaistica, con sedi in tutto il mondo, che intende consolidarsi come il principale fornitore di olivi nel mondo.
Attualmente la ricerca scientifica, tanto italiana quanto internazionale, ha prodotto scarsi risultati. La bibliografia è quindi modesta, tale da non poter considerare tale sistema colturale come collaudato.
E’ inoltre necessario considerare che sono attualmente molto pochi gli oliveti superintensivi che abbiamo superato i dieci anni di età, risultando quindi assai difficoltosa qualsiasi analisi economica o agronomico colturale per impianti che abbiano raggiunto tale soglia critica.

Gli impianti superintensivi sono nati in Spagna nel 1993 e negli ultimi 12 anni ha trovato diffusione nel mondo su una superficie complessiva di 30.000 ettari, metà dei quali in Spagna, metà in America, Australia e Africa. Ogni anno, si calcola che la superficie mondiale dedicata a quel modello di olivicoltura aumenti di circa 3.500 ettari.
In Italia gli impianti superintensivi sono ancora relativamente pochi, concentrati soprattutto in Puglia ma si stanno rapidamente diffondendo grazie ad azioni di comunicazione e di marketing assai aggressive e capillarmente diffuse sul territorio.
Uno dei più recenti eventi è stato a Siena nel seminario organizzato dal Consorzio Agrario per approfondire il tema delle nuove tecniche olivicole e valutarne le prospettive di applicazione sul territorio senese. Il tema è stato affrontato a partire dall’esperienza spagnola grazie al contributo della Società Agromillora Catalana.
“L’olivicoltura superintensiva – ha spiegato Jordi Mateu della Agromillora Catalana – prevede l’impianto di 1500/2000 piante per ettaro, con una resa di 90/100 quintali di olive a ettaro all’anno, con bassi costi di produzione e un prodotto di ottima qualità. Certo – sottolinea ancora Mateu – l’agricoltore che intenda convertirsi a questo tipo di coltura dovrà fare i conti con un investimento iniziale superiore di 3-4 volte rispetto a quello richiesto dal metodo tradizionale, ma le cultivar adatte all’olivicoltura superintensiva sono già produttive al terzo anno e il quinto sono in piena produzione. La meccanizzazione, poi, abbatte notevolmente i costi di raccolta, che è rapida e consente di giungere al frantoio in tempi molto ristretti, a tutto vantaggio della qualità dell’olio. Non sono molte le cultivar che si adattano a queste densità di impianto: la spagnola Arbequina, la più adatta al microclima toscano, la spagnola Arbosana, perfetta per il Sud, e la Koroneiki, di origine greca ma non adatta alle nostre latitudini perché poco resistente al freddo.”

Impianto
I sesti d’impianto utilizzati in Spagna sono:
Catalogna: 4m x 1,5m = 1600 piante/ha
Andalusia: 3,75m x 1,35m = 2000 piante/ha
Allo stato attuale, in mancanza di riscontri riguardo all’adattabilità di cultivar italiane, possono essere utilizzate le spagnole Arbequina e Arbosana e la greca Koreneiki. A seguito dell’interesse dimostrato da tale modello colturale diverse Università e Centri di ricerca italiani hanno impiantato campi sperimentali con varietà italiane tradizionali (Coratina, Frantoio, Leccino…) o con nuovi cloni (Fs17, Giulia, Urano…).
Disponibilità di varietà con portamento compatto, ramificazione abbondante e uniforme, bassa vigoria e accrescimento contenuto, rapida entrata in produzione (2-3 anno) sono infatti i requisiti fondamentali, e unanimemente riconosciuti, perché tale sistema colturale possa fornire i risultati auspicati e/o attesi.
Considerando l’alta intensificazione colturale è inoltre necessario prevedere un impianto d’irrigazione e un approvvigionamento idrico stabile e continuo per tutto il periodo primaverile-estivo.
Il costo d’impianto è stimabile in 10-12 mila euro ad ettaro.

Gestione agronomica e cure colturali
La potatura viene eseguita in parte in maniera manuale e in parte in maniera meccanica. In particolare l’orientamento dei rami produttivi, l’eliminazione di quelli eccessivamente vigorosi o che tendono a estendersi oltre il metro dall’asse centrale avviene manualmente, mediante seghetti pneumatici o elettrici. Delle barre falcianti si occuperanno quindi di contenere in altezza la pianta e di eliminare la fronda troppo vicina a terra. In base all’esperienza dei tecnici Agromillora l’altezza ideale della pianta non dovrebbe superare i 2,5 metri.
L’irrigazione diventa requisito indispensabile per una buona produttività delle piante. I volumi irrigui normalmente sono nell’ordine dei 2000-2500 metri cubi a ettari all’anno.
La concimazione avviene mediante fertirrigazione (5-6 interventi/anno).
Vengono inoltre effettuate varie concimazioni fogliari unitamente a trattamenti antidacici e contro le malattie crittogamiche (5-6 interventi annui in tutto).
La raccolta avviene in continuo mediante una macchina scavallatrice (di solito una vendemmiatrice modificata – tipo New Holland Braud – costo d’acquisto 150.000 euro) ad una velocità di 1,2 Km/ora (2 ore/ha nelle migliori condizioni operative). L’efficienza di raccolta à prossima al 90%, considerando il giusto grado di maturazione dei frutti e una resistenza al distacco inferiore ai 600 grammi. Ovviamente l’efficienza della raccolta e la sua stessa economicità dipendono dalla lunghezza dei filari, dal numero di manovre da effettuare, dall’orografia del terreno, dai tempi di spostamento della macchina da un appezzamento all’altro.
Gli interventi di potatura, piuttosto sbrigativi, e lo stesso passaggio della macchina scavallatrice possono provocare escoriazioni sulla pianta. Tali ferite possono essere via d’infezione per molte malattie fungine e batteriche. Ovvio quindi che alla difesa fitosanitaria va dedicata un’attenzione particolare e il numero degli interventi potrebbe non essere compatibile con i metodi di produzione integrati, quasi impossibile invece fare biologico.
Il suolo viene generalmente lasciato inerbito tra le file mentre è necessario eseguire dei diserbi a cadenza regolare, di solito a base di glifosate, sulla fila.
Nelle migliori condizioni, senza fattori limitanti, i costi di produzione complessivi stimati da Agromillora sono intorno a 1,5-2 euro per chilogrammo d’olio.

Resa in olio e qualità del prodotto
La resa in olio degli impianti superintensivi è mediamente più bassa (3-4 punti) rispetto a quella di impianti tradizionali o intensivi Pastore t al, 2006). Tale differenza è soprattutto imputabile alla quantità d’acqua presente nel frutto che può arrivare fino al 60% del peso fresco. Non è escluso che tale tenore in acqua possa provocare anche qualche problema in fase di estrazione, formando, a seguito della frangitura, emulsioni acqua-olio che possono provocare perdite di resa.
L’olio ottenuto ha bassa acidità e presenta caratteristiche chimiche e organolettiche tali da classificarlo come extra vergine di discreta qualità. I flavour, di solito, non sono particolarmente accentuati e il contenuto in polifenoli, per via delle frequenti e abbondanti irrigazioni, può essere anche inferiore ai 100 mg/kg, contro i 250-300 mg/kg che caratterizzano molti degli oli italiani.

Elementi favorevoli alla diffusione del sistema colturale superintensivo
I costi di produzione estremamente bassi sono la principale ragione della nascita e dell’attuale successo commerciale di tale modello, che si propone come olivicoltura industriale, utile a ottenere oli extra vergini d’oliva estremamente competitivi sul mercato internazionale.
La durata economica dell’oliveto dovrebbe attestarsi sui 15 anni, dopo i quali l’oliveto andrebbe estirpato e quindi reimpiantato. La durata relativamente breve dell’oliveto produrrebbe maggiori introiti per i vivaisti i quali potrebbero dedicarsi più attivamente a attività di selezione clonale e varietale per trovare cultivar sempre più adatte al sistema e alle richieste del mercato.

Elementi sfavorevoli alla diffusione del sistema colturale superintensivo
Pesa su tale modello l’incertezza in primis sui conti economici nel medio lungo termine, ovvero a partire dal 7-8 anno, età nella quale posso insorgere problemi di tipo agronomico-gestionale.
Le piante, infatti, non potendo crescere in altezza tendono a svilupparsi orizzontalmente costringendo a pesanti interventi di potatura che consentano la riduzione del volume della chioma e l’eliminazione di quelle brachette di grosso diametro (superiore 3 cm) che possano danneggiare la macchina scavallatrice. In assenza di importanti interventi di potatura, che possono avere un’alta incidenza sui costi di produzione complessivi, si assiste, come evidenziato da una ricerca spagnola (Pastor ed al, 2006) a una drastica diminuzione della produttività, dovuta essenzialmente all’elevato grado di ombreggiamento tra le piante. Anche a fronte di un incremento della produttività ad ettaro del 20-30% rispetto a un impianto intensivo, gli impianti superintensivi mostrano però una diminuzione della resa in olio di 3-4 punti con conseguente riduzione del gap produttivo tra i due modelli di impianto.
I primi dati sulle varietà italiane indicano una scarsa adattabilità di alcune di queste (come la Frantoio e la Biancolilla, probabilmente anche la Coratina) a tale modello colturale. L’utilizzo di varietà estere naturalmente escluderebbe l’olivicoltore dalla possibilità di ottenere qualsiasi denominazione d’origine per il suo prodotto.
Gli elevati input di agrofarmaci e erbicidi necessari alla normale gestione agronomica del sistema superintensivo, oltre che gli importanti volumi irrigui necessari, fanno ritenere che tale modello abbia un considerevole impatto ambientale che non lo rende adatto a tutte le aree oliandole italiane e incompatibile con le norme dell’agricoltura biologica.

di Alberto Grimelli