Mondo 14/02/2009

Stati Uniti, nuova frontiera dell’olivicoltura mondiale

Qualche anno fa fu l’Australia, più recentemente il Cile. Ora sono gli Usa ad aver imboccato la strada dell’olivicoltura. E’ Dan Flynn, direttore del neonato centro olivicolo dell’Università di Davis, a spiegarci progetti e prospettive


10 anni per entrare nell’Olimpo dei 10 maggiori produttori del mondo di olio di oliva.
Questa è il termine che il nascente comparto olivicolo degli Stati Uniti, ma sarebbe più corretto dire della California, si è dato con una sicurezza che lascia però spazio a più di un dubbio.
Dopo l’allarme Australia, vista da molti come il futuro dell’olivo e la nostra conseguente fine, e quello del Cile, oggi sembra essere infatti la volta degli Stati Uniti.
Ma quali sono i veri numeri di questo paese? E come si sta muovendo il mondo della produzione americana? Quali le reali possibilità?

La domanda di olio di oliva è cresciuta fortemente negli ultimi anni e questo prodotto incuriosisce tanti consumatori che, specialmente in California e in poche grandi metropoli, ne sostengono il consumo e sono attratti dallo sperimentare le differenti tipologie di prodotto offerte.
Ma non deve sfuggire che stiamo parlando ancora di un più che esiguo numero di persone, minimo se suddiviso tra tutti gli stati americani, che usa l’olio perché vive vicino a centri di produzione o perché vuole utilizzare quei prodotti “etnici”che ha scoperto durante un viaggio nel vecchio continente. Oppure, per la semplice seduzione della sempre in voga dieta mediterranea.



I produttori del Nord America, d’altro canto, non sono in grado di soddisfare neanche l’1% delle richieste dei propri consumatori: è naturale dunque che la corsa alla produzione per l’autoconsumo nazionale faccia gola a tanti e che il business oggi stia prendendo piede molto rapidamente.
Sono attualmente solo circa 500 i produttori, quasi tutti californiani, che nel 2007/2008 hanno ottenuto in una cinquantina di frantoi intorno a 500.000 galloni di olio di oliva.
Ma non si tratta, come potrebbe far pensare il numero, di pochi grandi proprietari terrieri.
Esaminando le dimensioni aziendali ci si accorge che solo 3 sono grandi produttori con grandi impianti super intensivi mentre poco meno del 10% dei produttori rientrano nella fascia media con circa 5.000/10.000 alberi di olivo.
Infine, troviamo un numero molto alto, che si aggira circa intorno al 90%, di piccoli olivicoltori che producono intorno al 15% del totale dell’olio destinato quasi interamente all’autoconsumo.

Abbiamo incontrato Dan Flynn, direttore del neonato centro olivicolo dell’Università di Davis, California, per sentire le opinioni di un americano al centro del fermento dei nuovi pionieri dell’olio di oliva.



- Dan, sembra che in America ci sia molto fermento per l’olio di oliva ultimamente.
Esatto. Anche se in realtà sono ormai 25 anni che la dieta mediterranea influenza la cucina americana, oggi la gente è sempre di più alla ricerca di prodotti salutari. Per questo l’uso di olio di oliva è andato crescendo costantemente, con un incremento negli ultimi tempi quasi esponenziale, soprattutto in California, dove la popolazione è più attenta a quello che mangia e i produttori di olio svolgono un importante ruolo di comunicazione diretto sul prodotto.

- D’altra parte quella dell’olivo è una storia abbastanza recente in America.
In effetti è iniziata 200 anni fa quando nel 1800 i missionari spagnoli attraverso il Perù e poi il Messico sono arrivati a San Diego e hanno piantato degli olivi per l’illuminazione, per il cibo e per i sacramenti. Da qui deriva il nome dell’unica varietà americana, la Mission, che è oggi diventata ormai una cultivar minore.

- Quando è iniziata la vera produzione?
Solo 20 anni fa quando alcuni produttori, soprattutto nella contea di Sonoma, furono ispirati dall’olio di oliva che avevano assaggiato in Italia e importarono in America molte varietà italiane, principalmente quelle del blend classico toscano: Frantoio, Moraiolo e Leccino.

- Oggi la tendenza sembra però essere differente.
Decisamente. Dal 1999 sono iniziati i primi impianti super intensivi e oggi la maggior parte degli ettari in California segue questo stile. Il modello spagnolo occupa, infatti, circa i 2/3 del territorio olivicolo californiano e le previsione per il 2009 vedono perfino raddoppiare questo numero.

- Non credi che ci sia il rischio di una standardizzazione del prodotto?
Attualmente, ci troviamo ancora in una fase in cui i produttori sanno di avere molti spazi disponibili di mercato, visto che la produzione nazionale arriva a mala pena a soddisfare l’1% della nostra domanda. Vogliono sperimentare, ed il modello spagnolo promette di più in tempi minori. I produttori californiani sono abituati a cambiare spesso coltura. Anche se dopo venti anni gli alberi andassero espiantati, non sarebbe un problema, sono già abituati a farlo con altri alberi da frutto.

- Esiste negli Stati Uniti un’associazione di produttori di olio di oliva?
Si, l’American Olive Oil Council che è stato fondato nei primi anni ’90 adottando parametri leggermente più severi di quelli del COI, soprattutto per ciò che riguarda l’acidità dell’olio che non può superare lo 0.5%.

- Ed in questo contesto come si inserisce l’Università di Davis?
L’Università ha lavorato a livello locale con i piccoli produttori della zona negli ultimi 20 anni. Quattro anni fa l’Università ha cominciato a produrre l’olio dalle olive del suo campus, circa 2000 piante, entrando in contatto con un folto numero di produttori californiani: ci siamo resi conto in quel momento di quanto velocemente stesse crescendo l’interesse per l’olio di oliva ed il numero degli ettari piantati e allo stesso tempo quanto frammentata fosse la conoscenza.
Per questo abbiamo pensato di creare nell’Università di Davis un centro specializzato dove far confluire conoscenza, ricerca e sperimentazione.

- Quali attività sta svolgendo attualmente il vostro centro?
Stiamo creando il nostro panel cercando di ottenere il riconoscimento del COI, abbiamo avviato ricerche di mercato sui gusti dei consumatori, stiamo ultimando il nostro laboratorio di analisi chimiche e svolgiamo diverse ricerche relative alla produzione.
Stiamo inoltre piantando molti nuovi oliveti sperimentali, per i quali abbiamo richiesto la certificazione biologica, affrontando i problemi dovuti al verticillium che qui è molto diffuso e quelli dovuti alla mosca olearia che ha fatto la sua comparsa da circa 5 o 6 anni e che è oggi un grande problema soprattutto per i nostri produttori di olive da mensa.
Organizziamo infine molti corsi rivolti a produttori e consumatori in genere che riguardano tutti gli aspetti della produzione dell’olio: dall’irrigazione al controllo dei parassiti, dall’impianto degli oliveti alla potatura, la raccolta, le tecniche di processo, il marketing e i corsi sensoriali.

- E da quest’anno Davis ha anche un proprio frantoio.
Esatto. Abbiamo pensato che questo era l’unico modo per portare avanti una sperimentazione seria. Abbiamo quindi acquistato un frantoio Alfa Laval in grado di lavorare 500 kg di olive l’ora.

- Dalle vostre ricerche quale è il livello di conoscenza dell’olio di oliva da parte dai consumatori americani?
Non molti consumatori conoscono l’olio di oliva, probabilmente meno dell’1%, ma c’è molto interesse per questo prodotto: piace, è ricercato e ne vogliono sapere molto di più.
Come tutti i prodotti alimentari tipo il caffè, la cioccolata, il pane e il vino prima la gente non badava tanto a ciò che avrebbe mangiato. Ora tutti cercano prodotti migliori, più buoni e più sani.

- Quali sono i prossimi appuntamenti importanti in programma a Davis?
A giugno stiamo organizzando una conferenza internazionale sull’olio di oliva insieme all’International Culinary Institute a Napa con l’obiettivo di esaminare le qualità sensoriali e culinarie di differenti oli di alta qualità.
Alla conferenza parteciperanno produttori, giornalisti, buyers, ricercatori, e chef internazionali.

Grande è dunque la sfida per il giovane comparto olivicolo americano e decisiva sarà la capacità di comunicazione sul prodotto dei centri di studio e ricerca: a nulla varrà infatti produrre se non ci saranno abbastanza consumatori pronti a raccogliere la sfida.
Sembra in ogni caso che anche negli Usa, come è già successo in Australia e in Cile, stia prevalendo la cosiddetta olive oil industry per la quale non importa tanto la varietà che si pianta o l’eccellenza che si vuole ottenere, ma tutto viene invece ricondotto esclusivamente al reddito che può dare una coltura: fare un prodotto commerciabile, il più standard possibile, di gusto “facile” per il consumatore medio americano. Il tutto in poco tempo e fino a che rende.
Come accade comunemente con i frutteti, le piante vengono spinte al massimo per alcuni anni poi, se il mercato non tira più, espiantate e sostituite con le specie del momento.
Insomma, niente inutili sentimentalismi nel nuovo mondo: business is business!

di Duccio Morozzo della Rocca