Cultura 01/06/2013

Sono i piccoli Comuni a conservare i tesori della cultura rurale

Sono i piccoli Comuni a conservare i tesori della cultura rurale

La spending review non può arrivare al punto di intaccare il capitale rurale italiano: un mix di prodotti, storia, identità, ambiente e salute. Per continuare a vivere, le zone rurali hanno bisogno di servizi, cultura, attenzione e prossimità delle istituzioni


L’attuazione delle leggi nazionali sul contenimento della spesa e delle conseguenti normative regionali rischia di mettere in ginocchio i Comuni e di indebolire il sistema delle autonomie locali, sul quale è basato l’assetto costituzionale della Repubblica Italiana, colpendo soprattutto i Comuni di minore dimensione demografica, invece di ridurre davvero i privilegi e i costi della casta politica nazionale. Li chiamano “piccoli”, ma spesso sono grandi sia come estensione, sia come patrimonio culturale ed economico che conservano nei loro confini. È soprattutto qui, nelle “terre dell’osso”, che risiede il capitale rurale italiano: un mix di prodotti, storia, identità, ambiente e salute. L’olivo e la vite ne sono le sentinelle, i cereali, gli ortaggi e i pascoli coprono buona parte del paesaggio, e poi i boschi, le acque, le architetture della campagna. Per continuare a vivere, le zone rurali hanno bisogno di servizi, cultura, attenzione e prossimità delle istituzioni. Invece si rischia di andare in direzione opposta.

Il campanello d’allarme suona in diverse realtà del Paese, proprio in quei territori rurali ricchi di tradizioni e di risorse agro-ambientali, artigianali e turistiche, deposito di storia e di virtù civiche non ancora spente del tutto, piccoli mondi aperti al mondo. Come a Suvereto, Comune della Maremma pisana e ora livornese, storica città del vino e dell’olio, classificata città slow e bandiera arancione del Touring Club Italiano, 3.100 abitanti, con un territorio di quasi 100 chilometri quadrati, che ora rischia di scomparire come capoluogo comunale, finendo accorpato al comune limitrofo di Campiglia (13.000 abitanti). L’iniziativa è dei sindaci e della maggioranza che governa i due comuni, che colti dalle difficoltà di bilancio e abbagliati da qualche incentivo promesso dalla Regione Toscana, hanno deliberato l’avvio del percorso di fusione interpretando in modo troppo zelante quanto improvvido le leggi nazionali e regionali. Stupisce che ciò avvenga con il benestare e addirittura il sostegno della Regione Toscana, che tra le grandi regioni italiane è di gran lunga quella con il minor numero di Comuni (287 contro i 1500 della Lombardia e i 1200 del Piemonte).

Smantellare i Comuni e privare le realtà locali delle istituzioni di maggiore prossimità agli abitanti costituisce una grave ferita per la democrazia e contrasta con la necessità di rilancio economico e sociale delle aree interne, come evidenziato di recente anche nel documento dell’ex ministro della coesione territoriale Fabrizio Barca (“Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari 2014-2020”) secondo cui la valorizzazione delle Aree interne è una delle opzioni strategiche nell’ottica di una necessaria territorializzazione della “politica di sviluppo rivolta ai luoghi”. Per fortuna ci sono anche altri segnali a favore delle piccole realtà locali, come l’appello rivolto al nuovo Governo e alle Regioni dalla Società dei Territorialisti per la salvaguardia dell’autonomia comunale e del ruolo dei piccoli comuni italiani; o come la proposta di legge presentata il 15 marzo scorso alla Camera da circa 80 deputati (primo firmatario Ermete Realacci) per il sostegno e la valorizzazione dei comuni con popolazione pari o inferiore a 5.000 abitanti e dei territori montani e rurali. Ma nel frattempo, tra appelli e disegni di legge, bisognerebbe evitare di fare danni irreversibili.

Il caso di Suvereto è emblematico, un simbolo dell’attacco ai piccoli comuni, alla rappresentanza e alla democrazia territoriale. Un modo per nascondere che i problemi veri stanno al centro della politica italiana e non nei territori e nei comuni interni, ingiustamente marginalizzati dal processo di sviluppo globale. Sono in difficoltà? Ebbene, aiutiamoli a vivere, non a morire. Non possono essere gli amministratori locali, i sindaci, a celebrarne il frettoloso funerale, magari – come a Suvereto – dopo molti secoli di autonomia comunale, gelosamente custodita anche nelle tante e ricorrenti situazioni di crisi e di difficoltà.

Soprattutto in una fase storica come quella che stiamo vivendo, caratterizzata dal progressivo allontanamento delle scelte dai luoghi di vita e dalla prevalenza dei poteri economico-finanziari sulle modalità democratiche di governance, i Comuni, intesi come comunità reali degli abitanti e dei patrimoni territoriali che costituiscono i beni comuni, devono essere considerati come la struttura di base dello Stato, l’ossatura viva della democrazia. I Comuni più piccoli, in particolare, debbono essere tutelati e considerati come gli ambiti di base e strategici per il futuro dei nuovi equilibri socioeconomici dell’intero paese. Le convenzioni, le unioni intercomunali, i consorzi, gli accordi di programma… ci sono tanti strumenti previsti dalla normativa per adottare forme di collaborazione e di gestione associata di funzioni senza perdere autonomia e rappresentanza. Seguiamo quelle, lasciando da parte fusioni antistoriche e antidemocratiche. ‘Autonomi e insieme’ dovrebbe essere il motto per procedere verso l’esercizio associato di molte funzioni, evitando la cancellazione dei capoluoghi comunali e salvaguardando il patrimonio di cultura, di valori sociali, di democrazia e di economia contenuti nei loro territori. L’autonomia comunale, l’identità, la cultura, la bellezza e la qualità della vita di gran parte del territorio italiano non sono solo temi da intellettuali o da anime pure. Esse sono anche vere e durature risorse economiche e fulcro della civiltà di un Paese.

di Rossano Pazzagli

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Commenti 1

Raffaele  Giannone
Raffaele Giannone
04 giugno 2013 ore 10:18

Egregio Pazzagli,
concordo su gran parte delle sue osservazioni relative all'importanza della sopravvivenza delle piccole realtà comunali di cui è ricca la nostra Italia.
La prova più efficace del mio consenso non è tanto in queste poche parole, forse anche confuse, che invioa lei e ai lettori di TN, ma nel fatto di aver scelto per me e la mia famiglia la residenza in un paesino di circa 400 abitanti dell'appennino molisano.
Pur potendo, per la professione mia e di mia moglie, vivere più comodamente (ma più anonimamente) in un cosiddetto centro urbano, continuiamo a resistere fra i disagi, ma anche fra gli impagabili benefici, delle piccole comunità .
Non so se sia ancora un valore conservare e tutelare tradizioni, usanze e stili di vita che il nostro mondo sempre più caotico fagocita nel rumore assordante dei mass-media, della pubblicità e della globalizzazione. Non so se sono più nostalgico, che realistico, più arcaico e arcadico, che progressista, ma, tant'è, ci vivo bene.
Su un argomento, però, vorrei esprimere il mio pacato dissenso: la vita democratica e la rappresentanza nei piccoli Comuni.
Io sono per la TOTALE abolizione dei piccoli Comuni (intesi come struttura politico-amministrativa) al di sotto dei 5.000 abitanti per vari ordine di motivi che, mi creda, vivo sulla mia pelle ogni giorno:
1) I servizi principali (scuola, rifiuti, trasporti, sanità, etc.) sono di fatto gestiti in forma associata e sovracomunale ormai da anni;
2) In epoca di drammatica ( e sottolineo drammatica) crisi economica e sociale il risparmio sulla cosiddetta spesa "burocratica" improduttiva non è solo opportuna, ma INEVITABILE (pensi che nel mio comune esistono ben tre dirigenti e due guardie comunali...);
3) L'unione dei Comuni favorisce lo scambio culturale e le iniziative infrastrutturali ed economiche, finora tarpate dall'esasperato campanilismo cronico dei nostri Comuni;
4) Ultimo non per importanza esiste infine l'aspetto democratico ormai andato alla MALORA nei micro-Comuni dove basta appartenere ad una "tribù più numerosa" di 5 o 10 parenti, per assurgere ad amministratore, sindaco o assessore, con vistosi scompensi nella gestione a dir poco "nepotistica o faziosa" della cosa pubblica...

Mi creda, bastano 5 anni (tanto dura un mandato "democratico" da sindaco) di gestione pedestre, personalistica e ottusa della cosa pubblica per restare indietro di decenni sullo sviluppo, sulla valorizzazione, sulla cultura e sulla storia a cui tanto teniamo.

Con stima.
Raffaele Giannone
(p.s. mai candidato in nessuna competizione elettorale !)