Mondo Enoico
SE IL VINO NON E' MORTO, CERTAMENTE NON STA BENE. OCCORRE PENSARE A UNA SVOLTA E INDIVIDUARE CHI HA INNESCATO GLI ATTUALI PROCESSI DEGENERATIVI
Esistono responsabilità oggettive di persone o Istituzioni, ma c'è troppa ipocrisia e in molti tacciono. Dopo gli editoriali di Franco Bonaviri e Stefano Tesi, ecco un intervento di Guelfo Magrini, di forte denuncia. Si assiste a una dequalificazione del vino, ma nel contempo si vanno predicando delle qualità inesistenti imponendo sul mercato il "gusto internazionale sottocosto". Critiche a Rivella, Tachis, Tattarini e altri
22 ottobre 2005 | Guelfo Magrini
Avete notato che nel nostro paese la critica va raramente oltre l'enunciazione delle probabili macro-cause di una crisi generalizzata o di una particolare turbolenza economica o politica senza mai, e dico mai, individuare le oggettive responsabilità di persone o istituzioni che ne stanno dietro, nel tentativo di evitare disagi al sistema dominante, ai critici stessi, che così intendono non correre rischi occupazionali, e ai loro editori? E' troppo facile affermare in modo roboante che l'effetto serra è causato dalle troppe emissioni di sostanze gassose nell'atmosfera, senza mai individuare esattamente chi provoca i danni maggiori, oppure che il vino è in crisi a causa del caro-prezzi evitando sempre e comunque di compiere analisi approfondite sui comportamenti scatenanti e di far nomi. Addirittura, comâè purtroppo avvenuto in molti campi, con la formula del "politicamente corretto", che non è altro che il trionfo dell'italica ipocrisia, si è compiuto una sorta di ribaltone morale: condannare gli effetti negativi delle cose senza mai approfondirne le reali cause, quindi rendersi complici dei responsabili stessi delle varie crisi, piccole o grandi che siano. Così facendo è davvero molto difficile dipanare le matasse in tempo utile per non far crollare edifici economici sempre stati di grande valore come quello della nostra produzione enologica, oleicola o agricola in generale. E allora bisogna decidersi a far nomi, a ripercorrere analiticamente quei percorsi politici o personali che hanno innescato gli attuali processi degenerativi, a descrivere le storie così come realmente avvengono o sono avvenute e a promuovere o bocciare i comportamenti che hanno concorso nel tempo a provocare quello che non è altro che un disastro annunciato. Questo mio è dunque un modesto tentativo di fare luce sui motivi della crisi del vino italiano esaminando i seguenti fatti.
1) Il sistema delle Denominazioni d'Origine;
2) La âderegulationâ e seguente WTO;
3) gli attori della filiera;
4) le politiche di omologazione
Il sistema delle denominazioni di origine è oggi "deregolato"
Fino agli anni '90 il sistema delle Doc e Docg italiano era regolato da severissime norme di riferimento; l'inserimento di una nuova zona vitivinicola nel sistema era sottoposto ad una serie impressionante di verifiche, derivate da indicazioni di qualità e di oggettiva valenza e non da valutazioni di opportunità economica o di pianificazione territoriale o da interessi di privati imprenditori o da pressioni politiche regionalistiche come avviene da qualche tempo a questa parte. Tutta la filiera concorreva al raggiungimento di questi obiettivi di qualità , a partire dalle istituzioni delegate, orientate al controllo rigoroso delle opzioni relative. Le ragioni fondanti di tale severità appaiono ovvie: tutelare la reale qualità dei territori vocati e orientare oggettivamente il mercato sia in ambito di prezzi che in ambito di gamma tipologica. Non dico che tutto ciò contribuisse a far funzionare in modo impeccabile il sistema (guasti e incertezze non mancano mai), ma comunque le caratteristiche di "garanzia" che si intendevano offrire sia ai produttori che ai commercianti che ai consumatori erano solide, sempre migliorabili ma solide. L'interesse di grandi gruppi o di grandi produttori non era parametro considerato utile o prioritario al rafforzamento del sistema ed al mantenimento della competività nazionale ed internazionale. Sono stati gli anni del boom del nostro vino, così recuperato in brevissimo tempo dal disastro del metanolo. E oggi? Oggi il sistema delle Doc è completamente âderegolatoâ (inserimento di vitigni di tutti i tipi, cambi astrusi e continui di disciplinari che hanno messo decenni ad essere configurati) e assistiamo a proposte in discussione che non sono altro che interessi privati di grandi produttori e di holding multinazionali. Cito solo in caso della Doc Terratico di Bibbona: Antinori e Frescobaldi, la fabbrica Solvay e il comune di Rosignano Marittimo uniti su una proposta che solo pochi anni fa sarebbe stata definita assurda e scandalosa, che assembla enormi territori dalle caratteristiche antitetiche e zone di nessun valore enologico con interessi politici e privati, penalizzando quella esigua fetta di valenze espresse dalle colline a ridosso di Castagneto Carducci, che darebbero il nome alla Doc e non ancora certificate, l'unica forza reale della eventuale proposta. E non è certo questo l'unico caso in Italia.
Il vino: una bevanda industriale dal gusto omologato
Il proliferare di denominazioni di origine che tentano di nobilitare zone incerte rende il sistema fragile, appiattisce i consumi, spinge alla produzione di prodotti qualitativamente insufficienti e omologa il gusto fino a rendere il vino una bevanda industriale uguale a se stessa con parametri di acquisto basati solo sul prezzo in scaffale. Quindi favorisce solo le grandi concentrazioni a scapito dei piccoli e medi produttori che in Italia sono la maggioranza e si sono fatti infinocchiare da vari personaggi che sostengono questa âdequalificazioneâ, predicando qualità inesistenti. Questa inversione di tendenza, questa rinuncia ai parametri di qualità territoriale per i vini italiani è causata dall'importazione cieca delle teorie economiche anni fa espresse oltreoceano da Ronald Reagan e nel Regno Unito da Margareth Thatcher; semplificate con la parola âDeregulationâ. Il termine è chiaro: sopprimere tutte le regole che governano il sistema economico internazionale; questo è stato il debutto ufficiale in politica degli interessi privati e la loro sovrapposizione totale su quelli pubblici. Le compagnie e le lobbies avevano finalmente trovato chi le favoriva a scapito di una crescita sociale ed economica calmierata. Già allora il concetto appariva totalmente improponibile: una mancanza strutturale di regole può agire positivamente sulla società coinvolta solo in tempi di ricostruzione, dopo guerre distruttive o sommovimenti di identità nazionali, tipo ex Unione Sovietica. Applicata a sistemi funzionanti in base a regole storiche la deregulation provoca solo disastri, e questo è quello che è avvenuto in Usa e sta avvenendo in Europa. E il Wto agente, con la conseguente âglobalizzazioneâ amorale guidata dalle pre-potenze economiche multinazionali, è basato su queste teorie che solo pochi anni fa potevano essere comunemente definite, senza esagerare o apparire "comunisti", "socialmente criminali".
Con la penetrazione delle nuove teorie economiche in Italia, a cavallo degli anni '90, le istituzioni (Enti e Consorzi soprattutto) si sono ritrovate obbligate ad agire in termini di concorrenza, per far quadrare i bilanci innanzi tutto, e poi per costruire strumenti economici da "libero mercato", essendo venute meno molte delle garanzie di finanziamento pubblico precedentemente in uso. I soldi da distribuire, prima non influenti sulle casse locali, si son dovuti "fare", attraverso proposte istituzionali di carattere imprenditoriale.
Logiche di schieramento e di appartenenza
La cosa sarebbe risultata vincente solo se si fossero innescati metodi effettivi di libero mercato, basati sulla scelta di professionalità reali e su proposte promozionali e politiche svincolate da interessi di "partito". Ciò non è avvenuto: le logiche di schieramento e di appartenenza (tessere e fedeltà alle linee espresse da leaders effimeri) hanno pesantemente condizionato l'offerta di opzioni valide, orientando il sistema verso l'appiattimento della creatività necessaria e verso distribuzioni in perdita, agli "amici", del denaro necessario a sostenere la competività dei nostri prodotti. Inoltre, l'acquiescenza verso le nuove teorie da parte anche degli schieramenti ideologicamente antagonisti (la cosiddetta sinistra) ha provocato la caduta verticale del dibattito e l'incanalamento di ogni prospettiva verso soluzioni preconfezionate dagli interpreti economici della deregulation, i grandi gruppi industriali multinazionali, i âmercanti nel Tempioâ. La politica del vino italiano, che fino a pochi anni prima aveva surclassato addirittura i traguardi di serietà francesi, è diventata mero mercato al ribasso e esclusiva tutela di interessi di bottega. La gloriosa Unione Vini, che fino alla fine della reggenza del Cavalier Gianni Zonin aveva stimolato un dibattito serrato e realmente democratico sulla qualità e sugli orizzonti sconfinati del potenziale di tipicità dei vini italiani, esprimendo anche una posizione di critica costruttiva sul nuovo corso affidato alle strutture consortili che emergevano dal nuovo, è stata conquistata da scalate industrialiste prive della necessaria passione e non pienamente rappresentative degli interessi nazionali ed è stata ridotta al silenzio sui temi qualificanti che aveva saputo esprimere nei precedenti 50 anni.
La rinascita del vino italiano? Che sfrontatezza!
I principali produttori coinvolti in queste scalate alle istutuzioni? Coloro che ancor oggi veicolano interessi trans-nazionali di maggioranza azionaria estera, in pieno contrasto ideologico e strutturale con la reale situazione della filiera italiana, e che oggi ritroviamo, uniti ad illustri figure del mondo accademico e scientifico, in un improbabile e decisamente provocatorio manifesto per la "rinascita del vino italiano": che sfrontatezza! Leggete una notizia sulla stampa specializzata di qualche mese fa:
"PARTE âPROGETTO VINOâ: LABORATORIO PER IL RILANCIO DEL VINO ITALIANO. A GUIDARE IL GRUPPO CHE HA ADERITO ALLâESPERIMENTO (ANTINORI, FRESCOBALDI, PLANETA, DONNAFUGATA, TASCA DâALMERITA, MASI, RICASOLI ...) LâENOLOGO-MANAGER EZIO RIVELLA
"Una prima risposta operativa alla stagnante crisi del comparto-vino arriva dallâenologo-manager Ezio Rivella, ex presidente dellâUnione Italiana Vini, alla guida di un folto e significativo gruppo di aziende di primaria importanza del settore viticolo-enologico italiano, decise ad affrontare con determinazione e particolare sensibilità la delicata situazione che attualmente sta vivendo questo settore. Il gruppo di lavoro a cui hanno detto sì, tra gli altri, aziende come Antinori, Caprai, Ambrogio Folonari, Masi, Donnafugata, Tasca d'Almerita, Livio Felluga, Umani Ronchi, Duca di Salaparuta, Meregalli, Planeta, Sella & Mosca, Gancia, Lungarotti, Chiarlo, Saiagricola, Marchesi di Barolo, Barone Ricasoli, Ruffino, Bersano, Cavit, Collavini ⦠si pone âlâobbiettivo di elaborare una strategia di lungo termine, ad ampia visione e con unità dâintenti, volta a tutelare la peculiarità del vino italiano di qualità , simbolo dellâitalian style e elemento dellâeconomia nazionale di primaria importanzaâ.
Berlusconismo all'ennesima potenza: gli artefici della crisi (escluderei Caprai, Planeta, Lungarotti e Chiarlo che evidentemente peccano di snobbismo mirando più alla forma che alla sostanza, e Meregalli che in passato si è distinto in azioni reali di salvaguardia culturale) i quali si propongono quali risolutori della stessa!
Ezio Rivella. Enologo manager, lo ritroviamo dunque alla testa di questo gruppo di improbabili "salvatori della patria". Ma secondo me proprio Rivella è uno dei principali responsabili della crisi del vino italiano. La sua colpa più grande è quella di aver inteso e fatto credere che gli interessi dei suoi privati datori di lavoro fossero gli interessi del Paese. Sua la dichiarazione clamorosa: "tutti i vitigni sono autoctoni"; così si è vanificato tutto il lavoro di rivalutazione della biodiversità clonale dei vitigni autoctoni e le loro potenzialità mercantili a favore di merlot, cabernet e shiraz. Che la Doc San'Antimo sia stata una cosa utile e positiva per l'azienda Banfi, per la quale Rivella ha lavorato a lungo, è assolutamente certo. Che invece sia stato un modello assai negativo per la maggioranza dei territori italiani è stato più volte affermato da autorevoli commentatori ed è purtroppo provato dai fatti odierni. Non vi sono dubbi che l'approccio rivelliano abbia poi grandemente favorito il complesso industrialista trans-nazionale, imponendo al mercato il "gusto internazionale sottocosto" a scapito delle peculiarità enologiche nazionali e a tutto vantaggio dei prodotti esteri del nuovo e del nuovissimo mondo, dominati dalle Compagnie. Tra i clamorosi insuccessi passati di Rivella a Montalcino, anche i 100 e passa ettari di Moscatello ad impianto Casarsa destinati a produrre sparkling dolciastro e aborrito dal mercato, che ha costretto Banfi a spericolate e costosissime manovre di recupero e anche compresso il successo di questo vitigno che invece vendemmiato tardivamente e coltivato in forme tradizionali presenta forti indici di gradevolezza. Ma insomma, uno che sbaglia così clamorosamente in Italia conquista potere e gli viene concesso di orientare le scelte nazionali mentre in ogni altra parte del mondo civilizzato ovviamente questo non succede. Sbagliamo di più allora,che si guadagna potere, fama e denaro, e chissenefrega della crisi degli altri.
Giacomo Tachis. Enologo, maestro indiscusso dell'assemblaggio bordolese in Italia, artefice di molti successi regionali, più o meno brevi, orientato a sostenere il gusto internazionale ma per ragioni tecniche più che economiche. Ciò lo mette al di sopra di ogni sospetto, ma di fatto, a mio avviso, egli è uno dei principali responsabili della crisi di una zona trainante, il Chianti, e di un vitigno altrettanto importante per l'intero paese: il Sangiovese. Dopo essersi impegnati a livello consortile in una lunga, esaustiva e costosa impresa scientifica atta a rivalutare il vitigno chiantigiano, denominata Chianti 2000, i produttori toscani si sono trovati di fronte alle perplessità manifestate sulla scena internazionale dal grande enologo sulla validità del Sangiovese in termini di vinificazione in purezza e sull'azzeramento delle valenze dei vitigni costituenti la formula originaria, detta Ricasoli; il risultato è stato lo stesso che altrove: vitigni internazionali a gogò, il che si è tradotto in offuscamento dell'immagine di tipicità e indifferenziazione rispetto a decine, se non centinaia di altre produzioni di tutto il mondo. Dati gli elevati costi di produzione, il Chianti è stato messo fuori concorrenza e la sua crisi si è estesa all'intero comparto.
Flavio Tattarini. Presidente dell'Enoteca Italiana, ha interpretato il suo primo mandato in maniera troppo passiva di fronte alle ingerenze delle Compagnie private, preferendo neutrali approcci commerciali a proposte politiche alternative all'omologazione del prodotto, e sottovalutando il bagaglio culturale precedentemente accumulato dall'Ente Vini (che con la collezione di stampe antiche sul vino era arrivato sulle scrivanie dell'ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, e dell'ex presidente argentino Menem). Durante il secondo mandato, in via di attuazione, ha però dimostrato di saper traghettare in maniera efficace l'Ente in un momento di rischio di grave perdita d'immagine, conservandone l'autorevolezza. Da ora in poi dovrebbe dimostrare di più il suo carattere svincolandosi dalle logiche perdenti che hanno provocato l'attuale crisi.
La stampa.
Su questo argomento Franco Bonaviri ha già espresso i temi essenziali, vorrei solo aggiungere l'impatto delle principali guide dei vini sull'affermarsi del gusto internazionale e il risalto effettivo dato da tutta la stampa specializzata, salvo rare eccezioni, alle logiche di omologazione. In sostanza si è trattato di posizioni acritiche motivate da sponsorizzazioni. Niente è peggio di questo per determinare a livello mediatico lâaffermarsi di una crisi.
DOCUMENTI CORRELATI
- Il vino è morto, di Franco Bonaviri
link esterno
- La grande crisi del vino, di Stefano Tesi
link esterno
- Una lettera di Ugo Brugnara
link esterno
Potrebbero interessarti
Mondo Enoico
La logistica in cantina: il successo commerciale con efficace gestione delle scorte e dei canali di vendita

Grazie anche all’integrazione dell’intelligenza artificiale e del MotionMining, si possono ridurre i costi operativi fino al 20% e i trasporti del 15%, migliorando la soddisfazione del cliente e la competitività dell’azienda
05 giugno 2025 | 11:00
Mondo Enoico
Diminuisce lentamente la giacenza di vino italiano in cantina

Il 55,2% del vino detenuto è a denominazione di origine, con leggera prevalenza di vini rossi. Le prime 20 denominazioni contribuiscono al 57,6% del totale delle giacenze di vini a indicazione geografica
20 maggio 2025 | 11:00
Mondo Enoico
Il consumo mondiale di vino torna ai livelli del 1960

Il consumo globale di vino è stimato a 214 milioni di ettolitri. L'inflazione e la scarsa offerta continuano a mantenere i prezzi elevati rispetto agli anni pre-pandemia, quasi il 30% in più
15 maggio 2025 | 15:00
Mondo Enoico
Che cos’è la macerazione carbonica e che effetti ha sul vino, confrontata alla macerazione con azoto

Nella macerazione carbonica si può sostituire l’anidride carbonica con il gas azoto inerte, dando origine a effetti diversi sul vino in termini chimici e anche organolettici. Se la cantina dispone di un generatore di azoto per l’imbottigliamento, può essere utilizzato per il processo di macerazione.
10 maggio 2025 | 14:00
Mondo Enoico
Affinare i vini toscani in botti di legno di castagno

Il legno di castagno interagisce con le caratteristiche del vino in modo diverso rispetto a quanto avviene con il legno di rovere, migliorando la stabilità del colore nei vini rossi, che risultano allo stesso tempo anche più intensi
06 maggio 2025 | 09:00
Mondo Enoico
Giacenza di vino italiano stabile rispetto allo scorso anno

Il 55,0% del vino detenuto è a denominazione d'origine, con leggera prevalenza di vini rossi. Al 31 marzo 2025 negli stabilimenti enologici italiani sono presenti 52,8 milioni di ettolitri di vino e 4 milioni di ettolitri di mosti
17 aprile 2025 | 14:00