L'arca olearia
La nutrizione dell'oliveto tradizionale ieri, oggi e domani
Letame ma altri prodotti organici per fertilizzare l’oliveto. Sansa ma anche l’alga Posidonia Oceanica e rifiuti urbani, tra questi gli “stracci di lana”, che fornivano una quantità significativa di azoto
18 settembre 2019 | Gianpietro Colomba
In passato, la gestione della fertilità da parte dei contadini era una variabile fondamentale per la produzione agraria, svolgendo quindi un ruolo chiave imprescindibile nell’agricoltura preindustriale. La dipendenza dal letame (risorsa non sempre disponibile) o da altre forme di fertilizzazione (p.es. interramento materia organica) potevano essere una reale limitazione, soprattutto in contesti di forte competizione per l’approvvigionamento della materia organica o di carenza di manodopera.
Paradigmatico il caso dell’oliveto del Salento pugliese, dove i livelli produttivi sono stati sorprendentemente alti fino alla fine del XIX° secolo, proprio quando l’agricoltura era di tipo biologica, ossia senza l’ausilio di fertilizzanti chimici di sintesi, all’epoca sconosciuti. In parziale controtendenza rispetto a quanto avveniva nel resto dell’Italia e in Spagna, laddove il letame fu utilizzato negli oliveti in modo massiccio solo a partire dal XX° secolo, nel Salento abbiamo diverse fonti che ci informano sull’utilizzo del letame già dalla prima metà del XVIII° secolo.
Abbiamo testimonianza di ciò, anche su documenti di contabilità della prima metà del XIX° secolo presenti negli archivi privati delle famiglie nobili Guarini di Poggiardo (Lecce) e Gallone di Tricase (Lecce), in cui si indicava esplicitamente l’uso del letame negli oliveti. Ci sono poi numerose fonti che riferiscono l’utilizzo di altri prodotti organici per fertilizzare efficacemente l’oliveto. Parliamo cioè del residuo industriale della sansa o delle alghe marine. Infatti, nelle zone costiere si usava, non di rado, l’alga Posidonia Oceanica e ciò avveniva spesso in aggiunta al letame. Altre fonti documentano invece l’utilizzo dei rifiuti urbani e tra questi ritroviamo spesso l’uso degli “stracci di lana”, che fornivano una quantità significativa di azoto, potevano essere facilmente trasportati e avevano un costo relativamente basso. Consideriamo le numerose, anche in questo caso, citazioni che indicavano l’uso di tutti questi residui o scarti, per fertilizzare l’oliveto. Abitualmente, la gestione consisteva nel gettare in una fossa profonda circa 40 centimetri preparata attorno ad ogni olivo, alghe, letame e l’immondizia prodotta nei centri urbani. Questa usanza fu poi gradualmente abbandonata nel momento in cui la manodopera disponibile iniziò a spostarsi verso la coltivazione della vite, vale a dire intorno alla fine del XIX° secolo.
Tradizionalmente, dunque, le tecniche appena illustrate ebbero una notevole importanza strategica, in quanto permettevano di restituire i nutrimenti al terreno aumentando la produttività. Senza dubbio, però, la più importante diventò il sovescio, che prevedeva l’interramento nel terreno delle leguminose (principalmente fave e lupini) tra i filari di olivo o finanche sotto la proiezione della pianta.
Nel XX° secolo, progressivamente, queste tecniche che prevedevano l’utilizzo di materie organiche, lasciarono spazio a un nuovo modo di fertilizzare e di gestire il suolo, attraverso l’uso massivo di fertilizzanti chimici da un lato e di diserbanti dall’altro, creando problemi di contaminazione e disequilibrio all’interno dell’agro-ecosistema oliveto.
Fonte: Accademia dei Georgofili - georgofili.info
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