L'arca olearia 01/11/2013

L'olio artigianale esiste. Lo dice Eurisko ma soprattutto il buon senso

Non è un problema di cosa ma di chi e come. Gli obiettivi di frantoiani e confezionatori divergono. Regole etiche e di business che impongono modelli di lavoro diversi. Nessun frantoiano penserebbe mai di “aggiustare valori chimici altrimenti fuori limite, sia per peculiarità territoriali che per climi avversi


In Italia, da molti anni viene realizzata una ricerca campionaria
(con 10.000 persone intervistate ogni anno),
che registra i comportamenti e gli atteggiamenti delle persone con più di 14 anni:

è Sinottica, una indagine condotta da GFK Eurisko.

 
Ci sono molte informazioni che riguardano i consumi (dichiarati)
per molte categorie di prodotti e di servizi, l’esposizione ai mezzi di comunicazione,
il profilo sociodemografico e psicografico (ah, le brutte parole !) delle persone intervistate, che sono rappresentative del totale popolazione a cui si riferiscono.

 
Si parla anche di consumi alimentari e, tra questi, di olio.

 
Per intenderci, non si contano le bottiglie che escono dai frantoi e dalle aziende imbottigliatrici, nè quelle che vengono rilevate in vendita alle casse dei super e iper, discount e superettes e nemmeno di quelle accreditate alla ristorazione:
la ricerca si rivolge direttamente ai consumatori
e chiede quali sono i loro comportamenti di acquisto abituale.

 
Parla quindi il consumatore (responsabile degli acquisti in famiglia di prodotti alimentari), non il produttore o il distributore.

 
Ci sono alcuni dati interessanti: per esempio, quanti usano l’olio extravergine
per condire, quanti per cuocere, quanti per friggere.

 
Quanti sono i consumatori che dichiarano di consumare le varie marche,
quelle nazionali e quelle locali, le private labels dei distributori: per ciascuna marca,
quali sono le caratteristiche socio-demografiche di ogni gruppo di consumo,
i comportamenti alimentari e non, gli atteggiamenti verso l’alimentazione e così via.

 
L’Istituto di ricerca, sponte sua, crea una categoria di olio extravergine “artigianale”,
in cui inserisce le brand locali e l’olio acquistato direttamente dal frantoio:
interessante raggruppamento.

 
Possiamo quindi capire il profilo dei consumatori dell’olio (classificato) artigianale,

ma conoscere anche le sovrapposizioni fra le diverse brand nazionali, e per ciascuna
la sovrapposizione con il gruppo artigianale, tanto per considerare quali sono
le derive di acquisto, i cambi tra le marche e cogliere lo schema delle funzioni di prodotto.

 
Per ora ci interessa iniziare a fare luce sul gruppo dell’olio extravergine artigianale:

sono 4.910.000 famiglie, quindi il 26% rispetto al totale famiglie in Italia,
che consumano “regolarmente” extravergine (che sono circa 19.000.000 unità).

 
Un bel numero, anche rispetto alle prime 10 brand nazionali che raggiungono 8.740.000 famiglie (il 46%):
il bacino delle marche dei Distributori arriva a coprire 2.180.000 famiglie (oltre l’11%)
mentre il gruppo delle “altre marche”, che copre la differenza con 3.170.000 consumatori (quasi il 17%) potrebbe “nascondere” oltre a marche “industriali”
di modeste dimensioni, anche un’altra fetta del gruppo “olio artigianale”.

 
Anche se sarà utile scandagliare bene, prima o poi lo faremo, il fenomeno
delle “altre marche”, restiamo sui numeri di base:
certo oltre il 25% delle famiglie che dichiarano di essere consumatrici
di “olio artigianale” rappresentano una piattaforma interessante,
su cui iniziare a costruire i confini di un “mercato” che sembra essere già individuato dal consumatore e che rimane pur sempre una nicchia, purtroppo senza barriere sufficienti a proteggerne i confini.

 
Intanto ci si potrebbe chiedere perché è necessario “proteggere il mercato”
del cosiddetto “olio artigianale”: potrebbe essere necessario perché l’olio extravergine artigianale si presume diverso dall’olio extravergine industriale
e, se fosse, è certamene utile capire le differenze.

 
Non dal punto di vista del produttore o del conoscitore degli oli extravergini,
del gourmet o del ristoratore attento, dell’assaggiatore professionale
o del gastronomo, perché loro sanno bene quali sono le grandi differenze:
adesso dobbiamo iniziare a capire il punto di vista del consumatore.

 
Per diverse ragioni, la consapevolezza del largo pubblico non è stata sufficientemente preparata a distinguere con precisione l’olio extravergine che viene prodotto
(nel frantoio che cerca la qualità) con l’obiettivo di mantenere i caratteri
di biodiversità e di esaltare le caratteristiche organolettiche di prodotto,
rispetto all’olio extravergine che viene prodotto (nel frantoio che opera solo sui costi), con l’obiettivo di raggiungere la massima resa, ottimizzando i costi di produzione
per presentare agli imbottigliatori un prodotto basico, al costo più basso possibile.

 
Per l’olio artigianale non è solo una questione di obiettivi,
alcuni dei quali sono in decisa controtendenza rispetto al resto:
massima qualità e non minimo costo, prodotto specialità e non prodotto commodity,
nicchia di consumo e non arena per la guerra dei prezzi.

È anche una questione di fatti, di processi, di percorsi produttivi:
l’olio extravergine artigianale inizia con l’attenzione alla coltivazione e con riguardo alle cultivar, con il controllo dei tempi di raccolta e di consegna delle olive al frantoio, prosegue con le operazioni di frangitura, di gramolatura e di estrazione,
continua con l’imbottigliamento ravvicinato all’ordine
e si conclude con il controllo degli aspetti nutrizionali, salutistici (doverosi per tutti)
e con quelli organolettici (doverosi per l’olio artigianale).

 
L’olio extravergine industriale, no: l’olio viene negoziato al ribasso
e acquistato dai frantoi (forse quelli che operano sui costi),
viene miscelato, viene imbottigliato e, soprattutto, etichettato.

 
A volte, queste produzioni orientate al rispetto totale della convenienza, sono così stressate che, a detta degli stessi imbottigliatori, vanno “fuori limite” ed obbligano l’industria a fare ricorso ad alcune operazioni chiamate “l’arte del blend”,
che hanno l’obiettivo di “aggiustare valori chimici altrimenti fuori limite,
sia per peculiarità territoriali che per climi avversi”.

 
Peraltro, fonti vicine ad alcuni imbottigliatori, lamentano con stupore il fatto che essere obbligati ad “aggiustare i valori chimici” del prodotto acquisito dal frantoio che opera solo sui costi, invece di essere valutato dalle istituzioni come “assoluto punto di forza”, viene purtroppo bollato e condannato come punto di debolezza.

 
Peccato.

 Sempre secondo la fonte che ci ha illuminato, le cui osservazioni sono riportate in corsivo, sembra addirittura che queste operazioni abbiano, nel tempo, creato
una immagine distorta degli “artefici del blend”, che invece di essere identificati
come “profondi conoscitori delle materie prime” ricevono l’etichetta “di alchimisti”.

 

 

Che disastro.

 
Per fortuna sono problemi che non riguardano i Frantoi Artigiani italiani
che producono “olio extravergine artigiano”:
beh, un momento, dire che non li riguardano, potrebbe essere ottimistico.

 
Non li riguardano fino a che si riesce a tenere distinti, non solo per il prezzo, i due mercati: l’olio extravergine “di massa” e l’olio extravergine artigianale (di nicchia).

 
Potrebbe essere un errore pensare che l’olio extravergine “di massa” non possa, prima o poi, cercare di capitalizzare, in etichetta, alcune delle caratteristiche che hanno fino ad ora identificato l’olio artigianale: il territorio, la tipicità fino alla monovarietà, i componenti salutistici.


Chi potrebbe impedirlo ? (Ma forse, stavolta converrebbe pensare bene).

 
Se è vero che l’imbottigliatore impiega la sua “profonda conoscenza delle materie prime” per “aggiustare valori chimici altrimenti fuori limite “ e quindi si può giustamente permettere di garantire i valori nutrizionali, organolettici
e forse anche quelli salutistici, potrebbe non avere più remore “nell’inserire
in etichetta, anche frontale, e in maniera chiara e leggibile , l’origine degli oli”.

 
Certo se fosse fatto in modo corretto, e non c’è ragione per dubitarne, questo aiuterebbe ad informare il consumatore in modo più nitido: sarebbe più evidente
la differenza tra gli oli industriali e quelli artigianali, cominciando dall’origine.


Dichiarare, per davvero, le caratteristiche, potrebbe mettere in risalto le differenze
e permettere al consumatore una scelta coerente con le sue intenzioni:

sarà poi sempre lui a decidere quali prodotti acquistare e consumare.

 
Ci sono già alcune idee in proposito, che registro con cura
e su cui mi permetto solo alcune evidenze, in grassetto:

Tutti i confezionatori, senza vergognarsene, dovrebbero citare le varietà di olive usate nella composizione del blend sia che si tratti di oli europei
(ad esempio: Spagna o Grecia) sia nel caso in cui si tratti di oli ottenuti
da cultivar italiani, suggerendone magari gli abbinamenti con il cibo.

Tale sforzo deve essere perseguito necessariamente partendo
a monte del processo produttivo, costringendo quindi i produttori, anche esteri,
a dichiararlo, indipendentemente dalla qualità dell’olio”.


Vedere per credere.

 
Intanto una insegna della Grande Distribuzione e una Regione, avrebbero già assegnato il compito di produrre e garantire la DOP della campagna 2013,
ad una grande azienda olearia che pagherà, al produttore che conferisce le olive,
un prezzo base (come da mercato) e una royalty (come da vendite effettive).


Chissà come fa.

di Gigi Mozzi

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Commenti 8

Gigi Mozzi
Gigi Mozzi
14 novembre 2013 ore 14:10

Signor Caroli, mi spiace averLe creato un pò di confusione.
Cerco di rimediare e questo mi consiglia di fare alcune precisazioni che avevo omesso.
La definizione di "olio artigianale" non è (ancora) una definizione di origine e non qualifica (ancora) nessun prodotto:
è l'insieme di molti prodotti (tra cui quelli acquistati direttamente
al frantoio), che vengono indicati dalle persone intervistate
e che hanno una distribuzione locale.
Quindi il "mercato artigianale" a cui mi riferisco
è il risultato di un comportamento preciso da parte dei consumatori, i quali rinunciano ad una offerta allargata, rappresentata da marche note e pubblicizzate e trascurano prezzi straordinariamente bassi e invitanti, per acquistare marche poco conosciute, per niente reclamizzate e, di certo, a prezzi sicuramente più elevati.
È un mercato che "formalmente non esiste" ed è forse per questo
che alcuni attenti commentatori ritengono che "non esista per niente".
Quasi certamente nessuno chiede "un olio artigianale", anche perché nessuno ne ha mai rivendicato la qualifica, prima di qualche analista di mercato da strapazzo e prima di Aifo.
Sono d'accordo con Lei, signor Caroli che occorra far riconoscere al consumatore il vero olio artigianale e che, per questo, sia necessario convincere anche le Insegne della Distribuzione.
A proposito dei numeri che non tornano:
il 26% dei consumatori di olio "artigianale" potrebbero avere un consumo pro capite inferiore alla media e quindi determinare una quantità di consumo inferiore al 26%.
Questa osservazione mi ricorda di dirLe, che io sono più interessato a capire quante bottiglie entrano in quante cucine piuttosto che sapere quante ne escono dal frantoio.
Dal mio punto di vista, un prodotto non viene venduto dal produttore,
ma viene acquistato dal consumatore.
Dire che un prodotto ha una quota del 20% è una formula amministrativa importante, ma è una semplificazione che confonde la causa con l'effetto: il fatto è che il 20% dei consumatori (forse più o forse meno) ha acquistato.
C'è una bella differenza se 100 bottiglie, che escono dal magazzino del produttore, vengono acquistate da 100 consumatori in ragione di 1 bottiglia ciascuno o da 20 consumatori che ne acquistano 5 a testa.
Ecco perché la differenza che potrebbe esserci tra le famiglie che acquistano l'olio che classifichiamo artigianale (il 26% del totale) e la quantità di bottiglie artigianali che escono dai frantoi (forse il 20% del totale, o forse meno) è importante: ci fa capire cosa succede realmente e come si potrebbe agire per ottenere risultati migliori.
Ecco perché, dal mio punto di vista (e per semplificare) prima si costruisce il mercato artigianale e poi si vendono le bottiglie di olio artigianale, non il contrario.
E non abbiamo molto tempo per fare una cosa e l'altra.

Elia Pellegrino
Elia Pellegrino
13 novembre 2013 ore 09:38

Bella scoperta! L'olio artigianale esiste da sempre e il frantoiano è sempre stato la cinghia di trasmissione dell'olivicoltura italiana. A noi frantoiani arrivano critiche, lamentele e anche bestemmie quando le cose vanno male. Ma mai un grazie quando vanno bene. Almeno riconoscere che siamo gli artigiani dell'olio, è il minimo davvero.
Elia Pellegrino

STEFANO CAROLI
STEFANO CAROLI
12 novembre 2013 ore 21:15



L'olio artigianale vale il 26% del mercato? Ma se tra Dop, biologico e Made in Italy non si arriva al 20%, come è possibile? Magari potessimo vendere 200.000 tonnellate di olio a prezzi realmente remunerativi! Occorre far riconoscere al consumatore il vero olio artigianale, che vada a botta sicura sullo scaffale del supermercato. Ma le catene di supermercati ci sosterranno in questa battaglia?

giampaolo sodano
giampaolo sodano
11 novembre 2013 ore 21:36

Le nuove regole sull’alta qualità dell’olio d’oliva di cui si discuterà nella prossima conferenza Stato-Regioni fissano parametri del prodotto sui quali viene misurata la qualità. Ancora una volta nell’ emanazione di nuove norme nella filiera dell’olio extravergine di oliva c’è un salto: dalle olive si passa all’olio senza alcun riguardo ai processi di produzione.
A mio giudizio il nodo della questione è tutto nella possibilità di evitare quel salto e ciò non già in base a norme giuridiche, che non potrebbero mai essere esaustive, ma attraverso l’iniziativa dei frantoiani. Soltanto le aziende olearie artigiane possono garantire la qualità del processo produttivo e la sua conformità al disciplinare di quel consorzio liberamente costituito annunciato su teatro naturale dal presidente di AIFO, piero gonnelli.
Evidentemente si vuole cogliere la possibilità che in tal senso è offerta dall’art. 6, n.9 dall’emanando decreto istitutivo del sistema di qualità nazionale, laddove è previsto che gli “operatori” (tra i quali sono indubbiamente i frantoi artigiani) per favorire il sistema possono “costituirsi in consorzio riconosciuto dal Ministero con apposito decreto”.
Poiché un consorzio non può non trarre ragione dallo scopo perseguito, con il limite in questo caso di favorire il sistema alta qualità, sembra del tutto normale che lo scopo debba essere quello di garantire al consumatore l’alta qualità come risultato di un definito, trasparente e certificato processo produttivo, conforme al disciplinare di produzione adottato del consorzio stesso. In questo modo sarebbe colmato a favore del consumatore e della qualità dell’olio il vuoto tra olive e prodotto.
Il consorzio di aziende artigiane che lavorano le olive e mettono in commercio l’olio prodotto, con la menzione del consorzio stesso e del disciplinare cui le aziende ottemperano è la soluzione logica che scaturisce dalla nuova disciplina. con buona pace di tutti coloro che sono alla ricerca di stupide polemiche o, ancor peggio, continuano a nascondere dietro la dizione olio extravergine di oliva delle autentiche porcherie con il solo e unico scopo di fregare il consumatore per fare soldi.
Giampaolo sodano

Cristina Fantacci
Cristina Fantacci
05 novembre 2013 ore 17:23

Questa è una delle poche iniziative intelligenti che ho avuto modo di leggere e che riguardano il settore alimentare! finalmente potremmo iniziare a spiegare agli amici che non si interessano di cibo e di enogastronomia in generale, come mai nel settore dell'olio ci sono delle diversità di prezzo così abissali sullo stesso scaffale! non capisco sinceramente il commento del signor Emilio Conti.. identificare e valorizzare meglio un prodotto è un danno? per chi?!
non risulta, invece, un modo per aiutare a scegliere chi compra e chi produce? creando un filo diretto tra i due.. al momento mi sembra che ci sia solo una gran confusione di prezzi e di marchi..
non è una polemica ma solo una richiesta di chiarimento ..

Emilio Conti
Emilio Conti
04 novembre 2013 ore 22:54

Non ho commentato per offendere nessuno, non è nel mio modo di essere. Intendevo altro.......

Gigi Mozzi
Gigi Mozzi
04 novembre 2013 ore 08:52

Signor Conti, la ricerca a cui faccio riferimento è di Eurisko,
non di Eurispes: parla di consumatori (chi sono e quanti sono),
delle loro caratteristiche (dove e come stanno) e dei loro comportamenti (cosa acquistano e cosa consumano).
Mi spiace averLe fatto pensare che io possa, in qualche modo,
disprezzare qualcuno.
Nel caso, mi hanno insegnato a scriverlo ben chiaro, così come
mi hanno insegnato che le offese appartengono a chi le manda.
Mi spiace anche che in tanti anni di attività Lei non abbia potuto notare
le diversità che ci sono tra i differenti obiettivi di produzione,
e quindi le diverse tipologie e le differenti qualità di prodotto.
Forse avrà almeno notato le differenze tra i costi al consumo:
è una bella sfida capire se un olio extravergine a meno di 3 € il litro
è una bufala o se un olio a più di 12 € è un toro.
Io penso che ci sia spazio per entrambe:
basta che la differenza sia chiara, non solo per il costo, ma per il resto.

Emilio Conti
Emilio Conti
03 novembre 2013 ore 18:00

Il rapporto è di Eurispes non di Eurisko.
Bisogna considerare che da oltre 80 anni l'olio da olive è normato e mai nessuno in Italia o in Europa si è sognato di inventarsi una nuova categoria ad appannaggio di pochi eletti.
L'olio artigianale è una bufala messa in giro da alcuni per lucrare e creare confusione in un mondo, quello dell'olio da olive, ove regna indisturbato il mago "Otelma". Non conoscevo in tanti anni di attività la distinzione tra frantoio che cerca la qualità e quello che opera solo sui costi. Siccome in Itala si dovrebbe produrre la qualità, per bocca di alcuni, mi offende veder scritto simili affermazioni che denotano ignoranza e disprezzo per una categoria che lavora sodo per portare a casa pochi spiccioli. Noto che la conoscenza del settore è prossima allo zero. Come si può affermare che bisogna specificare in etichetta le cultivar o il blend, significa non produrre olio da olive da imbottigliare ma etichette che ad ogni lotto cambiano con costi di produzione illogici. Che dire dei monovarietali che spesso non rispettano le analisi chimiche?
Vorrei tanto che si scrivesse sui reali problemi, non su fantasie di un gruppo dedito a drenare soldi con la scusante dell'olio italiano.