Emozioni di gusto
I segreti dell’alchermes, liquore con quasi 300 anni di storia
Pochi sanno che l’alchermes, liquore spesso utilizzato per aromatizzare i dolci, deve il colore e il nome a un insetto: una cocciniglia. Due i produttori rimasti in Toscana
28 ottobre 2022 | Giosetta Ciuffa
Alchermes è un nome che tutti hanno sentito ma che non tutti riescono immediatamente ad associare a un liquore che viene spesso utilizzato in pasticceria per aromatizzare i dolci.
Pochi sanno che molto prima che l’Unione europea deliberasse sulla possibilità di uso degli insetti in cucina, la tradizione gastronomica italiana già li utilizzava, proprio per realizzare l’alchermes.
Già da anni, quando mangiamo alcuni dolci tradizionali, legati alla cucina regionale come le pesche di Prato e lo zuccotto fiorentino (ma anche la zuppa inglese, forse italiana nonostante il nome, e altri) o legati a specifici periodi dell’anno come le castagnole di Carnevale, ci nutriamo, indirettamente, di insetti.
Infatti la bagna rossa utilizzata per l’aromatizzazione in pasticceria è a base di alchermes.
Storia ed etimologia dell'alchermes
Un nome che deriva dal sanscrito krmi-ja, passando per l’arabo al-qirmiz fino allo spagnolo alquermes, porta il riferimento al color cremisi/carminio (la cui etimologia deriva appunto da questi vocaboli) e significa “prodotto da insetti”: è infatti la femmina della cocciniglia (dal latino coccineus: rosso) essiccata e polverizzata che, per via dell’acido carminico che produce per difendersi dai predatori, tinge questo liquore ultimamente riscoperto in cucina e nella mixology per cocktail soprattutto invernali per via delle spezie calde, da stemperare nell’eccessiva zuccherosità oppure come digestivo. Creato – pare – dai Medici, diffuso grazie alla ricetta per la prima volta trascritta dal direttore dell’Officina di Santa Maria Novella dal 1743 al 1788 fra’ Cosimo Bucelli nel volume di ricette “Il libro dei segreti”, l’alchermes ha salde radici a Firenze ma è a Prato che cresce.
In occasione del BuyFood 2022, è stata tratteggiata, a pennellate rigorosamente rosse, la connessione tra cibo e tintura (quella sia dei tintori che dei liquoristi). Solo a Prato poteva svilupparsi il connubio tra l’arte maggiore della Lana e quella minore dei Beccai, le cui sedi erano vicine anche a Firenze, a pochi passi dalla chiesa fiorentina di Orsanmichele che raffigura tutte le Arti. Ricca di acqua, Prato consentiva canali artificiali per il funzionamento di mulini e macchine tessili ma anche per le necessità di igiene nel lavoro dei beccai (macellai). Ed era già un primo esempio di circolarità: nel 1853 inventarono macchine per strappare tessuti e tornare alla fibra, come facevano gli antichi stracciaroli che laceravano fodere e bottoni e dividevano i mucchi di abiti per colori, dando origine al detto “tutto il mondo finisce a Prato”.
Parte della corporazione della lana, i tintori per il colore rosso ricorrevano quindi alla cocciniglia, con una concentrazione colorante dello 0,8-1%, ma il vero boom si ebbe con la scoperta del nuovo mondo, potendo la “grana del tintore” essere sostituita da una con il 20% di potenza tintoriale. In Sudamerica tuttora si allevano sui fichi d’India per il loro carapace, arrivando a costare circa 400 euro al kg (necessari 100 grammi per 100 litri di prodotto). Ed ecco spiegato il costo elevato dell’alchermes tinto con la cocciniglia.
I produttori di alchermes in Toscana
Due soli i produttori in Toscana: in provincia di Prato nel 1999 è stato fondato l’Opificio Numquam, che non solo produce alchermes ma ha anche recuperato liquori tipici fiorentini quali Acqua di Firenze, Fioretto di Firenze e soprattutto il vermouth bianco di Prato, tradizione risalente al 1750 e caduta in disuso come altre. Del vermouth bianco pratese, sono gli unici produttori; dell’alchermes si dividono il mercato con Santa Maria Novella. Per tutte le altre preparazioni, basta andare a Tavola e scoprire un locale artigianale dove, circondati da contenitori erboristici, tutto è fatto a mano da Fabio Goti e dalla sua famiglia e l’unico macchinario è l’imbottigliatrice. 25 referenze totali, ottenute solo con la macerazione delle botaniche e, per eliminarne i residui, un lento lavoro di filtrazione -da 4 fino a 12 passaggi in imbuto- che l’industria non si può permettere, per un totale di ventimila bottiglie all’anno (mille di Alkermes, il loro ha la k).
La storia di questo elisir si intreccia infine con quella della mortadella di Prato IGP della quale, da disciplinare, è un ingrediente importante. La mortadella deve infatti il colore rosato proprio all’utilizzo del liquore, utile inizialmente a coprire il sapore forte della carne di scarto che già nel 1733, in occasione della beatificazione di suor Caterina de’ Ricci, veniva insaccata per quella che dal 2000 è presidio Slow Food e dal 2016 è indicazione geografica protetta. Oggi sono solo 5 i produttori certificati; il più storico certamente Mannori che, grazie alla ricetta ripresa e migliorata dal nonno Mario Angiolo con altri norcini, è alla quarta generazione.
Nessun problema comunque per i troppo sensibili: l’additivo E120, che indica la cocciniglia, è ormai usato solo in certe preparazioni, sostituito da quelli di sintesi che ora colorano aperitivi famosi per il rosso acceso.