Massime e memorie 04/03/2006

IL TESTAMENTO SPIRITUALE DI DON DIVO BARSOTTI

"Tra poco noi moriremo. Che vuol dire morire? Che cos'è la morte?"


Don Divo Barsotti era nato il 25 aprile 1914 a Palaia, in provincia di Pisa. Teologo e poeta, ha scritto centinaia di libri di agiografia, letteratura e mistica. E' morto lo scorso 15 febbraio. Lo ricordiamo con questo suo testamento spirituale

IL TESTAMENTO DI DON DIVO
La risurrezione suppone la morte, il trionfo del Cristo il giudizio. Sono verità di fede elementari, e pur tuttavia, proprio perché sono elementari, non sono solo importanti ma fondamentali anch'esse per la nostra vita spirituale. È sempre il Mistero del Cristo: morte e risurrezione; e non vi è un elemento senza l'altro. La morte da sola non sarebbe mai, né potrebbe essere mai un argomento di meditazione per il cristiano, perché la morte è soltanto condizione alla risurrezione gloriosa; d'altra parte la risurrezione è impensabile senza la morte. I due elementi si richiamano l'un l'altro cosicché non possiamo meditare l'uno senza l'altro. È vero però che possiamo separarli, non per mantenerli divisi, ma perché la nostra meditazione abbia una maggiore ampiezza, infatti potrebbe essere soltanto un poco di curiosità teologica il meditare sul giudizio finale o sulla fine del mondo, mentre su tutti noi incombe la morte.
Tra poco noi moriremo. Che vuol dire morire? Che cos'è la morte? La prima considerazione da farsi sembra questa: l'uomo è un essere estremamente paradossale. Per il fatto che siamo in un corpo, indipendentemente dal peccato, sembra non potersi evitare la morte. Quel che è fisico, quello che è biologico non può durare eternamente, consuma. D'altra parte sarebbe non solo impensabile ma del tutto miracoloso (è un miracolo che non ha nessuna giustificazione e che a lungo andare andrebbe precisamente contro gli stessi voleri di Dio) che questo corpo vivente non conoscesse la dissoluzione. Sarebbero innumerevoli miracoli quelli che Dio dovrebbe fare perché questo essere che abbiamo, il corpo, dovesse mantenersi vivo senza fine. Non vi è esempio di questo nella natura: nemmeno le montagne rimangono ferme, nemmeno il sole e gli astri sono eterni. Una forza unica travaglia tutto l'universo fisico in mutamenti continui, in rivolgimenti inevitabili. È proprio il cambiamento stesso che assicura la permanenza. Non vi è nulla di permanente quaggiù se non il movimento.

Da una parte, dunque, il paradosso di un uomo che è corpo ed è spirito. Per quanto riguarda il corpo secondo la filosofia marxista, non solo, ma anche direi secondo la reazione spontanea e naturale degli uomini che hanno perso la fede, è naturale la morte; non c'è lo scandalo della morte per loro. Accettano di morire non pensandoci, cercando di esorcizzarsi nei confronti dello sgomento, della paura che l'uomo ne prova, col non pensarci. Non c'è nulla da fare, la morte è inevitabile ed è naturale per questo. Dall'altra parte però, rimane vero che l'uomo non è soltanto un corpo organico, è anche spirito, e proprio in forza del fatto che è anche spirito, l'uomo non riesce ad accettare la morte, né può accettarla. Si prova nei confronti della morte una opposizione naturale, spontanea. Non per nulla, si diceva prima, si cerca di dimenticare, si accetta per principio, ma poi non si vuol ricordare, perché poi l'insorgere naturale dello spirito è anche esso inevitabile.
E allora Dio ci ha creati male? Ci ha dato nello stesso tempo un corpo che di per se stesso è soggetto alla morte e uno spirito che non può morire. Come mai ha unito queste due cose così stranamente diverse?
Secondo la Genesi, Dio riveste l'uomo di pelli morte cacciandolo dal Paradiso terrestre. E secondo l'interpretazione che dà il rabbinismo, il passo della Genesi vuol significare che dopo il peccato Dio sottopone alla morte l'uomo - e questo è vero anche per noi - dandogli un corpo che ora soltanto è mortale. Il nostro corpo che possediamo oggi non è il corpo che Dio ci ha dato all'inizio. Creati per l'immortalità, noi non potevamo avere un corpo passibile. Il corpo passibile che anche riceve Gesù, lo riceve in vista della morte; se il corpo è passibile è destinato a morire. Se dunque Adamo ed Eva prima del peccato non dovevano morire, vuol dire che avevano un altro corpo da quello che abbiamo noi ora. Questo l'insegnamento di Israele, e Israele ci dice appunto che questo corpo fu dato l'uomo dopo il peccato. E Dio ha dato all'uomo questo corpo mortale non per castigo ma per suprema misericordia.
Dio ci aveva fatto per l'immortalità, e facendoci per l'immortalità non poteva donarci un corpo mortale: il corpo mortale diviene tale dopo il peccato. E allora ecco, noi vediamo precisamente nella nostra condizione umana una situazione veramente paradossale: sul piano fisico, sul piano biologico noi andiamo verso la morte, ma l'andare verso la morte non vuol dire morire, sembra anzi acuire, per colui che ha una vita spirituale, la potenza di vita che Dio ha inserito nella nostra natura. Sembra di fatto, che proprio andando verso la morte l'uomo viva. Non si vive a vent'anni, tranne alcune eccezioni, e nemmeno a venticinque; non si vive, siamo portati via dagli istinti, siamo portati via da tutte le piccole ambizioni, le vanità, gli egoismi, la sensualità, l'uomo non prende ancora coscienza di sé, del proprio destino, dei proprio valore, della propria grandezza. L'uomo incomincia a vivere invecchiando; è una cosa strana, ma si vive invecchiando, nella misura cioè che questo corpo, che doveva essere strumento dello spirito, esprime minori esigenze, non pesa più, e non diviene più qualche cosa che impedisce allo spirito di vivere la sua vita.

Si muore. Ma che cosa vuol dire per noi morire? Vuol dire deporre un corpo che non è evidentemente per l'immortalità. E dunque la morte non è un male, perché ci libera da uno strumento che è inetto a una vita pienamente umana e veramente spirituale. Non è l'anima che non sia fatta per il corpo: l'anima umana è forma corporis, è principio vitale di un corpo ma, si direbbe, non di questo corpo, perché sembra anzi che l'anima tanto più viva quanto meno il corpo pretende, esige, s'impone nella sua forza, nella violenza dei suoi istinti.
Però nessuno ci assicura l'altro corpo tranne la Rivelazione divina. Di qui lo sgomento che ci prende perché sul piano umano, naturale, nessuno ci assicura un nostro permanere, perché è vero che vi sono due vite: una vita dello spirito e una vita del corpo, però rimane vero anche che la vita stessa dello spirito ha bisogno del corpo, cioè è lo spirito umano, l'anima umana è forma corporis e perciò io non posso capire nemmeno il mio permanere nella vita senza il corpo. Quale corpo il Signore mi darà? È tutto qui, direi, il problema della morte. Quale corpo il Signore mi darà.

Nel cristianesimo non c'è la rivelazione dell'immortalità quanto c'è la rivelazione della risurrezione. Perché? Che cos'è questo mistero?
Evidentemente ci voleva proprio l'evento della risurrezione del Cristo per ridonare agli uomini non solo la speranza, ma la certezza che si sarebbero risolti, per l'uomo, tutti i tragici interrogativi, problemi, angosce, turbamenti che la sua vita stessa origina per lui.
Dice il libro della Sapienza che la morte è entrata nel mondo per il peccato; se noi fossimo dovuti rimanere sempre nel corpo senza morire avremmo vissuto, sì, una vita immortale in un corpo adatto alla immortalità, però in questa immortalità noi avremmo vissuto in tal modo da non sentire precisamente la tragedia che è propria della vita di oggi, la tragedia cioè di una vita immortale che dobbiamo attendere soltanto da Dio dopo la remissione del nostro peccato, anzi, come compimento di una redenzione dal nostro peccato. Oggi l'immortalità viene a noi come dono che è perdono e grazia divina, mentre l'immortalità di prima, dopo il peccato, sarebbe stata per l'uomo non più salvezza, non più redenzione, ma un fissarsi nella sua condizione di peccato e di lontananza da Dio.
Ma meditando la morte dobbiamo riconoscere ed accettare lo sgomento, l'angoscia, il rifiuto della nostra natura. È vero che il nostro corpo ci fa necessariamente schiavi della morte, ci fa naturalmente retaggio della morte, ma questo non toglie che nella misura che viviamo, tutto l'essere nostro debba ribellarsi a questo destino. E questo è tanto vero che perfino la Umanità sacrosanta del Verbo, il Cristo, prova ripugnanza a morire, si vuol sottrarre alla morte e per questo prega il Padre celeste. Non siamo fatti per la morte, tutto in noi dice che siamo fatti per la vita e per la vita divina, per la vita immortale, per una vita senza fine, e proprio il fatto di essere fatti per questa vita senza fine crea in noi una tensione e suscita in noi una reazione viva nei confronti della morte che viene.

Dobbiamo vederla come castigo o come medicina? Molto spesso noi si parla della morte come castigo. Ma se stando alla interpretazione rabbinica e anche dei Padri greci, la morte viene a noi dopo il dono che il Padre ci fa delle pelli morte, evidentemente non è soltanto un castigo, e dobbiamo dire di più: che Dio non castiga mai altro che il rifiuto ultimo, se c'è un rifiuto da parte dell'uomo che si chiude in se stesso, positivamente Dio non interviene mai per dare la morte. Per dare le medicine sì. C'è l'inferno, intendiamoci, ma l'inferno dipende dal fatto che l'uomo nella sua volontà si chiude alla misericordia, rifiuta i doni di Dio. È antropomorfico quello che dice il Vangelo «Andate maledetti al fuoco eterno». Dio non interviene positivamente nella condanna; nella condanna è l'uomo che si chiude, che si trincera difendendosi da Dio, Dio rimane l'amore.

di T N