Massime e memorie

Quando la grappa ruttava. Altri tempi

Oggi infatti non rutta più, è altra cosa. Per secoli è stata la bevanda della povertà e oggi è entrata invece nei salotti. La memorabile prosa di Cesare Marchi

02 aprile 2011 | T N

La grappa non rutta più. Si è raffinata, ingentilita, è entrata nei salotti. Ma per secoli è stata la bevanda della povertà, della solitudine, dell’emarginazione; guardata con sospetto dalle polizie, quale sobillatrice della disperazione plebea. Raramente un anarchico odorava di cognac. Era il latte dei montanari, il carburante dei facchini, il cardiotonico dei carrettieri. In qualche casa di campagna si svezzavano gl’infanti con la grappa, tenerario residuo di terapie medievali che combattevano con essa le epidemie, come fece Caterina Sforza, guerriera e medichessa, che salvò con quest’acqua perfettissima a guarire peste et vermi il figlioletto di pochi mesi, il futuro Giovanni dalle Bande Nere.

Ultimamente è salita sulle mense borghesi, spinta dall’onda del revival contadino, perché ricorda, specialmente a chi non ne ha mai sperimentato le durezze, l’elegiaco mondo dei campi. E’ un distillato d’assalto, come il cognac, senza le sue mondane smancerie: la grappa aiuta l’alpino a conquistare una trincea, il cognac il seduttore a espugnare un séparé.

Cesare Marchi


Testo tratto da: Cesare Marchi, Quando eravamo povera gente, Rizzoli, Milano 1988

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