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La Tunisia protegge il suo olio di oliva, l'Italia no

La Tunisia protegge il suo olio di oliva, l'Italia no

Con una dichiarazione congiunta dei ministeri dell’Agricoltura, del Commercio e delle Finanze, datata 23 dicembre 2025, viene fissato un prezzo minimo di riferimento di 10 dinari al chilo presso i frantoi, pari a circa 2,90 euro. Un argine alla speculazione e l'Italia?

31 dicembre 2025 | 10:00 | C. S.

Tra il 2024 e il 2026 si è consumato uno dei passaggi più rivelatori della crisi agricola europea e, in particolare, italiana. Un passaggio che smonta molte narrazioni ufficiali sulla “protezione del made in Italy” e mette a nudo una scelta politica precisa: lasciare il mercato dell’olio in mano agli interessi industriali e finanziari, scaricando i costi su agricoltori e consumatori.

Nel 2024 la produzione europea di olio d’oliva crolla per effetto della siccità. Italia e Spagna, i due principali Paesi produttori, non riescono a coprire il fabbisogno interno e quello dell’industria di trasformazione. In questo contesto, il prezzo non è più una variabile: l’olio va trovato a qualunque costo. L’industria europea si riversa allora sulla Tunisia, acquistando grandi quantità anche a 7–8 euro al chilo pur di garantire continuità agli scaffali e alle esportazioni. È in quel momento che Tunisi comprende di detenere una leva strategica: il proprio olio non è solo una merce, ma una risorsa nazionale.

Nel giro di pochi mesi, la Tunisia sceglie di fare ciò che uno Stato fa quando decide di governare un settore strategico. Alla fine del 2025, di fronte a una produzione record – circa 400.000 tonnellate – che rischiava di far crollare i prezzi interni, il governo tunisino interviene direttamente. Con una dichiarazione congiunta dei ministeri dell’Agricoltura, del Commercio e delle Finanze, datata 23 dicembre 2025, viene fissato un prezzo minimo di riferimento di 10 dinari al chilo presso i frantoi, pari a circa 2,90 euro. Il prezzo è aggiornabile settimanalmente, ma il messaggio è chiaro: sotto quella soglia l’olio non si vende. È una barriera contro la speculazione internazionale e un paracadute per i piccoli olivicoltori.

Parallelamente, lo Stato tunisino rafforza l’intervento sul consumo interno. Attraverso l’Office National de l’Huile, una quota della produzione viene destinata al mercato nazionale a prezzo calmierato. l’olio extravergine viene venduto alle famiglie tunisine a 15 dinari al litro, circa 4,40–4,50 euro, con lotti ulteriormente scontati per le fasce sociali più deboli. Il Governo Tunisino sceglie di garantire prima l’accesso al prodotto ai cittadini, poi l’esportazione.

Sul fronte europeo, l’Accordo di Associazione UE-Tunisia prevede un contingente annuale di 56.700 tonnellate di olio importabile a dazio zero. Oltre tale quota, il dazio è di circa 1,24 euro al chilo. Tuttavia, questo meccanismo viene aggirato attraverso il regime del Perfezionamento Attivo, che consente l’ingresso senza dazi di olio destinato alla riesportazione dopo lavorazione. In questo modo, grandi gruppi industriali riescono a far transitare volumi elevati di olio tunisino senza pagare la protezione doganale prevista.

Questo sistema favorisce esclusivamente i grandi imbottigliatori e gli operatori dell’import-export, mentre il piccolo olivicoltore italiano resta esposto a una concorrenza che non può reggere.

In questo contesto non possiamo che registrare il silenzio della politica italiana, che ha scelto di puntare sull’export di alta gamma, trasformando l’olio in un prodotto di lusso e rinunciando a politiche di tutela del mercato interno.

Il confronto con la Tunisia è impietoso. Un Paese con meno risorse ha scelto di difendere agricoltori e consumatori. L’Italia ha scelto di non intervenire o, più semplicemente, non si pone proprio il problema. Ma …. non avevamo un Ministero per la Sovranità Alimentare?

La sovranità alimentare non è uno slogan, ma la capacità di garantire cibo sano e accessibile prodotto sul proprio territorio e tutela dei propri produttori garantendo al cibo valore strategico di interesse collettivo. Se la Tunisia riesce a farlo (almeno ci prova), la domanda è: perché l’Italia del “cibo italiano patrimonio dell’umanità” ha deciso di non farlo, anzi di non cimentarsi nemmeno con l’obiettivo?

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