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ANTONIO RICCARDI: “LA RADICE RURALE CHE CI DERIVA DAL MONDO CONTADINO, ANCORCHE’ LONTANO, E’ ANCORA PULSANTE E FORTE”
L’abbandono della campagna a gambe levate – ammette l’autore del recente Gli impianti del dovere e della guerra - è stato per molti l’abbandono di una modalità di vita, sentita come incongrua rispetto alla modernità, percepita come immobile, perenne e di grande fatica
03 luglio 2004 | Luigi Caricato
Poeta, Antonio Riccardi lavora nellâeditoria. Nato a Parma nel 1962, vive a Sesto San Giovanni. Ha pubblicato nel 1996 Il profitto domestico da Mondadori, nella celeberrima collana âI poeti dello Specchioâ. Dopo lâedizione fuori commercio in 150 esemplari della plaquette Un amore di città per le edizioni La vita felice, del 2000, ha dato alle stampe lo scorso maggio per Garzanti il volume Gli impianti del dovere e della guerra ( link esterno).
Parliamo di poesia. Dopo anni di scarse attenzioni da parte dei media, sta crescendo lâinteresse di un pubblico più vasto rispetto a quello elitario e più tradizionale a cui si era abituati. Lo dimostrano le iniziative editoriali di alcuni quotidiani. Da qualche tempo è infatti possibile trovare in abbinamento ai giornali una selezione di testi lirici. Ecco, si tratta solo di un momentaneo e occasionale periodo di euforia generale o si prefigura invece un ritorno ai fasti del passato?
Ci sono da fare, io credo, due discorsi, uno di carattere generale ed uno contingente. Quello contingente riguarda le note iniziative editoriali che pongono la poesia in una condizione di massima visibilità ; tale fenomeno non è tuttavia di strettissima attualità , ma parte da lontano, con lâiniziativa Mondatori dei âMitiâ di poesia. Il secondo discorso è invece di senso più generale. Ebbene, io credo che il mondo dei lettori sia disposto a considerare la poesia come un luogo di autenticità , di verità , e perciò stesso a considerarla con interesse. Il lettore è disposto a riconoscere alla poesia una verità non banale. Sembra una osservazione da nulla, ma non lo è. Individuare nella poesia un certo modo di vedere la realtà vuol dire darle credito. Essere disposti ad ascoltarla, quando arriva sotto una forma plausibile, non terrorizzante, non drammatica, mi sembra una scelta in grado di riscuotere oggi un largo consenso di pubblico. Come tutta lâarte contemporanea di ricerca, la poesia sconta una certa distanza, una difficoltà , per via di una storia novecentesca molto chiusa allâascolto. Ecco, occorre che i lettori si avvicinino fiduciosi alla poesia. Scopriranno senzâaltro una apprendibilità â¦
Un fruibilità , ancheâ¦
Sì, una fruibilità maggiore.
Però in tanti ancora si scherniscono dicendo di non capire la poesia. Eâ richiesta una capacità speciale nello scrutare i segni in un linguaggio che non è per tutti o si tratta semplicemente di una debole educazione letteraria, complice anche la scuola per non aver favorito un approccio più familiare con la poesia?
In parte è sicuramente un problema di didattica. Siamo abituati, terminato il liceo, a considerare la poesia come una sorta di area di linguaggi esoterici che si riescono ad assimilare, nella loro essenza più vera, solo attraverso una serie di strumentazioni, di glosse e controglosse. Alla fine si esce dal liceo sfiduciati, al punto che anche un lettore medio, o medio-buono, preferisce rinunciare. Lâultima cosa che gli viene in mente nella vita è di leggere un libro di poesia. Perché si ricorda che per arrivare al nucleo veritativo di un determinato testo ha necessità di una serie di scale, scalette puntelli e puntellini. Eâ questa la questione di fondo, la complicazione. La scuola deve dare questo e consentire un avvicinamento ai testi della contemporaneità a noi più vicina. Il problema è che questo la scuola non lo fa.
Come spiegheresti la tua opera a chi non ti conosce e si è avvicinato quasi per caso alla poesia? Si tratta di unâopera assai complessa. Da Il profitto domestico in poi câè un percorso comune, che porta alla costruzione di un unico grande libro, di un poemaâ¦
Eâ esattamente così. Tanto vale avere ambizioni altissime quando ci si occupa di letteratura e costruire una sorta di opera-mondo, che mi consenta da un lato di frugare dentro le mie radici e dallâaltro di cercare di rendere universali certe mie considerazioni attraverso la strumentazione e il lavoro della poesia. In tal modo lâoggetto appare in tutta la sa enorme ambizione, ma dâaltra parte se non vi è una grande ambizione è perfino inutile fare letteratura. Vi sono tanti libri buoni e importanti ed è bene metterci perciò un grande impegno.
I riferimenti alla natura sono continui nella tua poesia, da Il profitto domestico allâultimo tuo libro, Gli impianti del dovere e della guerra. Comâè il tuo personale rapporto con la natura? Qual è, soprattutto, la tua idea di natura?
Ho un rapporto strano con la natura. Nel senso che mi interessa molto la natura che emerge dentro la città . Nel senso che la città è piena di emblemi della natura, di manufatti dellâuomo che richiamano la natura, che la mimano, la riecheggiano, la simboleggiano. Dallâaltra parte ci sono pure tanti angoli di una natura che cerca di resistere e di forzare il tessuto urbano. Questo aspetto mi interessa molto, perché esprime una natura strana e complicata. Però la natura si riappropria completamente e furiosamente del suo spazio, della sua vita, nel momento in cui gli opifici industriali da un lato, o gli edifici civili dallâaltro vengono abbandonati. Eâ un tema vecchio e tradizionale quello della natura che sommerge le rovine di un passato più o meno glorioso. Dallâaltra parte câè una natura per alcuni versi idealizzata nei propri luoghi di riferimento, è il caso di quella del mio paese dâorigine posto sugli appennini a sud di Parma: è una natura che non perde il suo carattere di durezza. Confesso di non avere una visione particolarmente serena e idilliaca della natura. Lo considero un luogo particolarmente tremendo, dove in genere câè una bellezza sfolgorante appena al di sopra della superficie di un mondo châè invece feroce e senza speranza.
La tua nascita a Parma ha influito sul tuo fare poesia? Hai avuto occasione di frequentare un grande autore come Attilio Bertolucci o sono stati altri i tuoi riferimenti?
Bertolucci lo è stato senzâaltro. Il paese di origine di mia madre è a pochi passi da Casarola. Costituisce anzi il capoluogo montano su cui Casarola, il paese natale e il luogo letterario principale di Bertolucci, si appoggia. Io me lo ricordo bene quando da bambino frequentavo la sua casa.
Dal punto di vista letterario câè però una distanzaâ¦
Sì, non ci sono delle vicinanze. Ci sono però dei passi di collegamento certi, anche delle citazioni dirette; però la linea di sviluppo letteraria entro la quale sono cresciuto è quella lombarda, più immediatamente riconducibile a Maurizio Cucchi e Giovanni Raboni, e più indietro a Vittorio Sereni.
Bevilacqua sostiene che Parma ha una doppia personalità , una di qua e lâaltra al di là del torrente, a significare lâanima quieta, bianca, di ascendenza ducale nel primo caso e unâanima invece pervasa da una follia creativa, oltre che dalla magia, nel secondo caso. Ecco, tu dove ti collochi idealmente tra questi due mondi, visto che il tuo legame con Parma è peraltro molto forte?
Eâ forte affettivamente, ma non dal punto di vista della costruzione del proprio orizzonte filosofico e teoretico. Io sono di cultura milanese, sono cresciuto a Milano e ho studiato filosofia a Pavia. Con la tradizione culturale di Parma ho poco a che fare. Certo, la conosco bene e poi lâaffezione per i luoghi porta ad avere una vicinanza, anche se solo occasionale, verso quella cultura. Eâ vero però quanto sostiene Bevilacqua: le due caratteristiche dellâanimo di Parma ci sono. Forse più in città ; io sono della campagna, degli appennini, quindi tutto si semplifica e si complica. Câè una sorta di tensione allâeleganza e dallâaltra parte un rimescolamento del lato più cupo e oscuro, una ricerca alchemica dellâoro che tutti noi abbiamo dentro. Questo aspetto si sente abbastanza negli scrittori parmigiani, câè una sorta di inquietudine, forse, più che in altri luoghi.
La parola âdovereâ compare in più occasioni ne Il profitto domestico. Nel tuo ultimo libro entra addirittura nel titolo: Gli impianti del dovere e della guerra. Perché tale insistenza? Cosâè per te il dovere? Un obbligo morale, un senso di riconoscenza, una costrizione a cui non ci si può sottrarre, una necessità o altro ancora?
Sì, ho scritto un libro impostato sostanzialmente sul dovere. Il dovere si declina in due ambiti pratici, per la vita degli uomini in genere. Il lavoro, da un lato, e la guerra. Queste due declinazioni sono drammaticamente e perennemente contigue, in tempi di pace e di guerra. Le realtà aziendali sono costruite mimando gli esercizi di guerra, in qualche modo, mimando le strutture degli eserciti. Non si tratta di una grande osservazione nuova, però è veramente così; a me interessava fare in realtà un libro sul dovere châè lâorizzonte dal quale non si scappa. Non câè modo; o almeno io non lo trovo, non lo vedo. E non è né un bene né un male in senso assoluto, ma è un orizzonte di attesa continuo. Non quotidiano, continuo.
Tornando alla dimensione della natura. Ci sarà secondo te, per il futuro, uno spazio di primo piano per il mondo rurale? Oppure continuerà questo mondo a occupare un ambito di perenne marginalità ?
Non so dirlo, non riesco a prospettare scenari sociali e politici. Non ci riesco perché non ne sono capace. Eâ vero però che la radice rurale, che ci deriva dal mondo contadino, ancorché lontano, lontanissimo, è una radice ancora pulsante e forte, che manda impulsi. Mi sembra di capire che il mondo contadino sia entrato nel mondo dellâindustria, tra Otto e Novecento, permanendovi sino a poco tempo fa. Io sono del â62, ma ricordo di aver avuto a che fare con mezzadri, seppure solo nellâambito delle vacanze estive. Però quel mondo contadino, la propaggine estrema, la pallida visione di quel mondo io ce lâho in mente ancora molto chiara. La generazione che mi precede ha tuttora a che fare fortissimamente con quella modalità di vita; certo non quelli nati e cresciuti nei grandi centri urbani. Appena si è fuori è chiaro che il mondo rurale ha forti influssi per la costruzione dellâorizzonte quotidiano delle persone. Io credo che con il declino dellâindustria â così come la conosciamo tradizionalmente â e con lâavvento della finanza e delle nuove tecnologie, quel mondo lì ha fatto un passo indietro; però, è chiaro châè la radice da cui proveniamo, ed è difficile togliersela, io credo; anzi, sarebbe anche un peccato togliersela. Ti accorgi subito, quando porti in campagna un bambino piccolo che ha vissuto soltanto in città ; ti accorgi quando lo porti in una stalla a vedere una mucca; ti accorgi che tutto ciò e altro ancora gli daâ un grande impulso di forza ancestrale che lo riconduce al mondo rurale. Però è pur vero châè distante questo mondo, distantissimo. Lâabbandono del mondo rurale a gambe levate è stato per molti lâabbandono di una modalità di vita, sentita come incongrua rispetto alla modernità , percepita come immobile, perenne e di grande fatica. Il mondo rurale è un mondo di fatiche, di violenza â perché la natura è violenta. Cambiano gli attrezzi e le strumentazioni, ma è quasi pressoché immutato il mondo rurale: la radice è una radice arcaica. Lo si vede, lo si è visto. Negli anni Sessanta e Settanta câè stato un fuggi fuggi generale per cercare di inurbarsi e rincorrere le cose che il mondo proponeva migliori e più semplici in vista di costruire una migliore attesa quotidiana. Fuggire da quel mondo significava â seppure non in modo preciso, da un punto di vista teoretico - fuggire da un mondo di sofferenze, di disagi, di limitazioni; è stata insomma una fuga da un mondo perennemente fermo alle origini del tempo, scandito dalle stagioni e anche dalla permanenza perenne del lavoro. Il mondo rurale non prevede una interruzione dal lavoro e ciò è qualcosa che a me crea un disagio assoluto. Non sono per niente per un mondo contadino. Certo, sono felicissimo quando sono in campagna, però mi rendo conto che non posso condividere una vita chiusa in un orizzonte lavorativo quotidiano di tipo rurale. Câè però la nostra generazione che ha mutato corso allâagricoltura, occorre riconoscerlo. Quando si innestano nel mondo rurale le modalità del terziario avanzato il gioco è fatto.
Per concludere, quali libri consiglieresti a chi vive e opera nel mondo rurale?
Penso al Barone rampante di Italo Calvino. Eâ un libro che propone una scelta di distacco, di ri-immersione nella natura. Eâ la storia di un ragazzino che sceglie di salire su di un albero e di non scendere mai più nella vita.
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