Articoli 11/07/2009

Gorgona, un carcere "aperto" dalla forte impronta rurale

Nella più piccola isola dell’Arcipelago Toscano, 65 detenuti si occupano di agricoltura e allevamento. Gestiscono un caseificio, un mulino per mangimi animali, un frantoio oleario e una cantina. Le riflessioni di Alfonso Pascale a partire dal libro di Marco Verdone




Gorgona è l’ultima isola carcere italiana. Con 220 ettari di superficie è la più piccola isola dell’Arcipelago Toscano, quella che sta più a Nord e ospita uomini reclusi sin dal 1989. Si tratta di un carcere “aperto” dove la custodia dovrebbe essere “attenuata” e i detenuti dovrebbero avere la possibilità di lavorare.

A Gorgona tutti i 65 detenuti lavorano, sono remunerati e molti di loro si occupano di agricoltura e di allevamento. Coltivano ortaggi, olivi, viti e allevano gran parte degli animali domestici, dalle vacche alle api. Gestiscono un caseificio, un mulino per produrre il mangime degli animali, un frantoio per fare l’olio e una cantina per fermentare il vino.

Da venti anni opera in questa speciale casa di reclusione un medico veterinario omeopata, Marco Verdone, autore di un bel libro (Il respiro di Gorgona, Libreria Editrice Fiorentina, 2008, pp. 155, euro 12) che raccoglie le storie e le riflessioni intorno a questa originale esperienza carceraria. Dal volume emerge l’importanza delle piante e degli animali nell’accompagnare i reclusi a guardare il futuro sotto una nuova luce. Nell’isola si lavora imparando e s’impara lavorando. Le persone che chiedono di essere trasferite in Gorgona devono soddisfare particolari requisiti: condanne riguardanti solo reati minori, buona condotta, salute psico-fisica, ecc. Questa strana isola-laboratorio non cerca specialisti del settore agro-zootecnico, ma solo persone di buona volontà. Così capita che non tutti quelli che arrivano a lavorare con piante e animali hanno esperienza, ma in breve tempo la maggior parte impara a fare un determinato prodotto come il formaggio o il vino grazie all’aiuto degli agenti o dei loro compagni più esperti e s’inserisce nella routine della sezione cosiddetta “agricola”.



Verdone ci mostra come le attività agricole permettano alla comunità gorgonese di produrre, imparare ed entrare in contatto con il mondo esterno. Il respiro di Gorgona viene così affidato alle onde del mare e scambiato con quello della terra ferma mediante le collaborazioni con aziende, cooperative, università, istituzioni locali e soprattutto le visite di migliaia di persone. Incontri che riducono le distanze, abbattono i pregiudizi e aprono la strada al reinserimento sociale dei reclusi. E’ questa apertura al mondo esterno la chiave del successo di Gorgona. Verdone ricorre alle leggi della termodinamica per spiegare come funziona questo ecosistema-isola: “L’energia portata dall’esterno – egli scrive - sotto forma di collaborazioni, emozioni, informazioni e stimoli culturali diventa vitale per evitare il disordine”. E continua l’autore: “Un sistema conflittuale come il carcere ha bisogno di un alto grado di unità. Un carcere aperto non può basarsi sull’imposizione dell’ordine con la forza. Le cosiddette forze dell’ordine non possono garantire l’ordine, l’equilibrio, quindi la salute, con la forza dei muscoli ma con il potere degli atteggiamenti e delle motivazioni. E’ dentro le menti e i cuori delle persone che deve avvenire la svolta. Dove le singole volontà, ognuna al suo livello, dovranno essere orientate verso gli stessi obiettivi. Gorgona è patrimonio di tutta la comunità.. La scommessa è che alcune persone possano ritrovare se stesse e nuove motivazioni per una vita rinnovata”.

Dopo aver letto il libro di Marco Verdone nasce spontanea una riflessione: nelle carceri italiane ci sono oggi 63.460 detenuti, ben 20 mila in più rispetto alla capienza regolamentare. Tra quanti scontano una pena definitiva, il 32,4% ha un residuo di pena inferiore ad un anno e addirittura il 64% ha un residuo di pena inferiore a tre anni. Per detenuti con buona condotta e pene lievi si potrebbero progettare altre Gorgone magari in aree agricole periurbane per preservarle dal cemento o in centri rurali spopolati per sottrarre risorse agricole e ambientali di pregio ad un destino di abbandono? Non si garantisce maggiore sicurezza ai cittadini avere a fine pena persone che abbiano imparato un mestiere e siano pronte a reinserirsi nella società? Davvero è così difficile che un piano di edilizia carceraria, coerente con gli obiettivi di sicurezza dei cittadini, umanizzazione della pena e risocializzazione dei condannati, preveda anche la possibilità di edificare comunità nuove in una concezione dell’abitare il territorio che sia sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale?

di Alfonso Pascale