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LUCI E OMBRE DI UN UOMO IN MUTANDE

Gabriele Albertini è sindaco a Milano in scadenza di mandato. E’ una figura radiosa e dal sorriso largo, ma la grande metropoli cede terreno e non è più considerata la capitale morale del Paese. Il primo cittadino resterà tuttavia alla storia per una celeberrima sfilata. In tenuta quasi adamitica

20 marzo 2004 | Luigi Caricato

La mutanda. Sappiamo bene cosa sia la mutanda. Certo la parola oggi è un po’ fuori moda. Si preferisce ricorrere piuttosto al rassicurante e avvincente appellativo di “slip”, ma è tutt’altra forma e dimensione; o comunque persuade moltissimo, nell’immaginario collettivo dell'hic et nunc, anche il più catturante “boxer”. Ma la mutanda, comunque, è pur sempre la mutanda. E’ un classico. In passato si era peraltro più crudi e veraci al riguardo: era per tutti il tempo delle brache. Ricoprivano le parti intime con onesto compiacimento e il corpo non svillaneggiava, se ne stava castigato e compresso. In lino, bambagia o lana, le brache ricoprivano la nuda carne e si cambiavano spesso. Il capo di biancheria intima lo si indossa infatti sotto i vestiti. Per motivi igienici. Così almeno viene specificato in un noto dizionario ragionato della lingua italiana. Non si sa mai, è bene comunque farlo sapere. La mutanda è una sorta di calzoncino corto, ma in passato si presentava perfino lunghissimo, fino a raggiungere le caviglie. O addirittura cortissimo, ridotto nelle versioni più recenti a due triangolini di stoffa.
L’indumento, come si è già precisato, va cambiato spesso. Anche perché è la stessa parola mutanda che lo impone. Mutuata dal latino “mutandus”, participio futuro passivo di “mutare”, la destinazione d’uso si chiarisce meglio in quel participio anzidetto. Mutare, ovvero: cambiare. Da qui pertanto la geniale idea di indossare l’indumento intimo con una sollecita frequenza, cambiandolo spesso dunque, senza esitazioni. Possibilmente una volta al giorno.

Perché la mutanda e il riferimento al sindaco Albertini? Già, perché tale accostamento? A ben riflettere non c’è alcun azzardo. Il sindaco di Milano, oggi in scadenza di secondo mandato, resterà infatti alla storia per aver sfilato pubblicamente in mutande. Ritengo che tale avvenimento sia da considerarsi una esplosione di luce in una grigia e opaca Milano, città “livida e sprofondata per sua stessa mano”, come opportunamente canta Fiorella Mannoia in una sua nota canzone. Sì, perché se la grande metropoli lombarda è in caduta libera, il sindaco reagisce mettendosi quasi completamente a nudo. Non si sa mai. L’esperimento ha permesso al grande comico e imitatore Teo Teocoli di tirare in lungo e in largo per oltre un anno - forse due, non ricordo bene - la scenetta caricaturale di Albertini in mutandoni. Non pago, il sindaco vero, non l’imitatore, ha poi deciso di inaugurare una piscina in città, non come solitamente accade con i sindaci di qualsiasi comune del Paese, in fascia tricolore e in completo elegante, a tagliare il simbolico nastro con le forbici, che magari per l’occasione s’inceppano e oppongono resistenza, no, questo no. Albertini è l’uomo che ha visto nella mutanda un simbolo di rinascita della città, così, a dispetto di tutti, inaugura la ristrutturazione della piscina comunale con un mirabile e olimpionico tuffo in acqua. Non ha funzionato. Soddisfatto forse l’ego, senza dubbio, nel rifarsi immortalare questa volta in slip, ma il giorno successivo al tuffo inaugurale, la piscina è crollata a pezzi. Le scalette per la risalita si sono divelte. Più tardi, dopo molte indagini si è scoperto che si era trattato di un atto vandalico, ma la brutta figura mediatica rimediata lo ha portato al centro delle attenzioni, non nel migliore dei modi. Un vero peccato per una città dal passato glorioso come Milano.

Mutatis mutandis. E’, questa, una locuzione latina che ricorre spesso, ancora viva nella memoria di chi ha studiato la lingua dei Padri quando nelle scuole medie nazionali era materia d’obbligo. Mutatis mutandis nel senso di “qualcosa da cambiare”. Mutare le cose che debbono essere mutate. E’ con questo spirito rivoluzionario che Albertini ha guidato in questi anni di due mandati la ex capitale morale del Paese. Ex perché appunto non lo è più. La decadenza incombe a tal punto che nell’ultimo periodo la città non è più a “misura d’uomo”, ma “contro l’uomo”. Sul piano filosofico Manlio Sgalambro, autore di libri di spessore, pubblicati in gran parte da Adelphi, canta (proprio così, canta) con la complicità di Franco Battiato un fantastico quasi- rap dal titolo Accetta il consiglio, dove appunto si ascoltano “un paio di inutili consigli” del filosofo e neocantante siciliano, tra cui il seguente: “vivete a Milano, ma lasciatela prima che vi indurisca”.

L’indurimento del cuore. Resto francamente sbalordito quando leggo sul “Corriere della Sera” una polemica a puntate tra il sindaco Gabriele Albertini e l’ex direttore della “Gazzetta dello Sport” Candido Cannavò. Quest’ultimo, peraltro, ha pure scritto un libro extrasportivo per Rizzoli, assolutamente da leggere per la preziosa testimonianza: Libertà dietro le sbarre. San Vittore: cronache da un carcere. La vita, la pena, la speranza. Un vero viaggio, di straordinaria intensità morale, di un cronista alla ricerca di storie di tenacia, solidarietà e amore.
Cosa è accaduto tra i due? Cannavò rimprovera ad Albertini di aver instaurato a Milano un “regime del terrore” e contesta l’uso improprio delle telecamere nel tentativo esclusivo di elevare multe a chi contravviene ai divieti di circolazione in aree specifiche della città. Una protesta che si è estesa anche per l’atteggiamento da cuore indurito del sindaco, irremovibile d’altra parte, nel bene e nel male, riguardo ad ogni aspetto che tocchi la città di Milano. Contro ogni possibile dialogo e sentimento di comprensione.

Le cupe ombre su Milano. ”Complimenti caro Cannavò! Lei è riuscito a commettere due infrazioni in un minuto!”
I toni del sindaco sulle pagine del “Corriere” sono acidi, tipici di chi è abituato a bacchettare con il piglio sicuro del giusto. Albertini si sente investito dal titolo di crociato della legalità, è l’uomo che vede indistintamente in chi sbaglia il criminale da punire. Il concetto del sindaco è elementare: hai commesso un’infrazione? Paghi. La buona fede? Cos’è mai la buona fede?
Cannavò replica sulle pagine dello stesso quotidiano: “Non basta, secondo lei, una multa di 68 euro per 500 metri di infrazione in cui è incorso uno sbadato? Ce ne vogliono due o tre? E se uno non vede il primo cartello (consideri per favore, che esiste ancora la buona fede) …”. Già, perché le multe comminate sono in molti casi doppie, e sono state elevate a distanza di pochi minuti l’una dall’altra, all’insaputa del multato, che riceve la contravvenzione dopo alcuni mesi.
L’assurdo si sfiora però in certi azzardi filosofici da bar dello sport di estrema periferia, quando il sindaco scrive: “Se invece di infrangere due divieti di circolazione avesse investito due pedoni su due passaggi pedonali diversi sulla stessa strada, vorrebbe essere processato per aver investito un pedone solo? E risarcire una sola famiglia? Ci pensi, caro Cannavò.”
Sindaco glaciale insomma, irremovibile. Ma ci fermiamo qui, la battuta sui pedoni esclude ogni tipo di commento. Si commenta da sola.

Tornando alle mutande, per concludere. Un consiglio ad Albertini. Non è facile individuare un’autorità pubblica che vesta la mutanda con grande aplomb e soddisfazione. Per questo non posso non consigliare a un sindaco di una grande città in mutande alcune buone letture. Mi limito a due soli titoli, perché chi sceglie la mutanda ha poco tempo da riservare alla lettura. Intanto parto dal romanzo d’esordio della brava Rossana Campo. Il suo primo lavoro da narratrice l’ha vista protagonista di un esilarante, comico e carnale testo dall’esemplare titolo di In principio erano le mutande, edito da Feltrinelli. Ma un grande scrittore e fine pensatore qual è Guido Ceronetti, in Nuovi ultimi deliri disarmati, pubblicato da Einaudi nel 2001, dedica uno dei racconti (“Il Presidente della Corte Suprema”) all’argomento. Eccone alcuni stralci:

La domanda è pascaliana: può, senza perdita d’aureola, un Presidente della Corte Suprema uscire di casa – una volta alla settimana – in mutande?
Pascaliana, la risposta sicuramente sarebbe: non può.
La nostra è diversa perché abbiamo più conoscenza del mondo e delle strade del mondo – di questo mondo infelice.
(…)
Il Presidente fa queste uscite, di solito, il lunedi. Esce, presiede, riceve, torna a casa ecc. ecc. sempre, dall’alba al crepuscolo, in mutande. Col fresco serale indossa i calzoni.
Mai perso l’aureola, finora.
- Voglio farlo anche dopodomani, - annuncia il Presidente ai familiari, comprensivi in tutto.
Esce in mutande alle nove del mercoledì e poco dopo rientra precipitosamente, sanguinante per una sassata.
Quei bastardi di ragazzini, - dice alla moglie costernata che lo incerotta, - cosa gli avrà preso? Finora erano stati rispettosissimi…
(…)
La nostra risposta è: un Presidente di Corte Suprema può uscire di casa in mutande una volta alla settimana,
non due.
E’ inesplicabile, ma è così.