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IN MORTE DI GIULIO C.
Quante volte ci imbattiamo in figure umane splendide e radiose di cui però non se ne conserva traccia? Eppure tra la gente comune vi è chi lascia segni straordinari, anche se non direttamente fruibili. E' nelle più umili fatiche quotidiane che forse si scorge il mistero dell'essere
14 febbraio 2004 | Luigi Caricato
Una vita esemplare. In morte di Giulio C. Non si tratta di un noto professionista, neppure di un uomo di spettacolo. Non ha lasciato segni straordinari fruibili che ne perpetuino il ricordo. Non ha scritto libri e neppure composto musiche. Non ha dipinto quadri e non ha lasciato nulla che possa essere considerato come tale significativo. Si chiama Giulio C. ed è stato tuttavia un uomo dalla vita esemplare.
Professione: portiere di condominio.
Segni particolari: forte attaccamento al lavoro, con una dedizione che ha dell’inverosimile e che reca in sé i segni dell’assoluto e della gioia.
Luogo di lavoro: Milano.
Luogo di morte: stessa città .
Motivi della morte: un male incurabile.
Età : 57 anni.
Il lettore potrebbe non cogliere il motivo e il senso di questa mia nota in memoria di un uomo che ha condotto un’esistenza come tante altre. Ma l’aver eletto in questa occasione Giulio C. a figura di riferimento non è soltanto un generico omaggio a una persona che ho conosciuto e apprezzato. Non ho mai notato un uomo che ha saputo convogliare a sé le attenzioni non solo di un condominio, ma di un intero quartiere. Lo conoscevano in tanti e aveva gesti e parole di affetto e di attenzione per tutti, una generosità di cuore ch’è una virtù molto rara oggi da individuare. Ciò che aveva di straordinario – perché qualcosa di straordinario, seppure in termini astratti e immateriali, ha comunque lasciato a chi ha avuto la fortuna di conoscerlo – è la sua personale concezione del lavoro, una concezione che definirei non a caso “sacrale”. La fatica per lui era un modo per tuffarsi nel mistero dell’essere e con lui il lavoro diventava giorno per giorno preghiera quotidiana e realizzazione di un mondo diverso e migliore. Aspirazione alla salvezza dell’anima, per certi versi.
Una vita stupenda, attraversata e pervasa dal dolore. Simone Weil è una donna che ha lasciato un’impronta indelebile pur nella sua breve vita. E’ morta a soli 34 anni nel 1943 e nel segno del dolore, dell’anima e del corpo, ha trovato il modo di elevarsi verso l’Assoluto traducendo ogni sua azione e idea in gesto di salvezza. I suoi scritti ci consegnano una immagine di pensatrice che pochi sono riusciti finora a eguagliare, nella forza comunicativa e nello spessore delle meditazioni espresse.
“La missione, la vocazione della nostra epoca è quella di costituire una civiltà fondata sulla spiritualità del lavoro”, ha scritto in La prima radice. E a proposito del lavoro manuale, così ha scritto in L’ombra e la grazia: “Mediante il lavoro l’uomo si fa materia come il Cristo nell’Eucarestia. Il lavoro è come una morte. Bisogna passare attraverso la morte. Bisogna essere uccisi, subire la pesantezza del mondo”. In Cahier III leggiamo sempre intorno al tema della spiritualità del lavoro: “Il lavoro fa sentire in modo spossante il fenomeno della finalità ribaltata in avanti e indietro come una palla. (…) Uno scoiattolo che gira nella sua gabbia e la rotazione della sfera celeste. Estrema miseria ed estrema grandezza. E’ quando l’uomo si sente come uno scoiattolo che gira nella sua gabbia rotonda, che, se non smentisce a se stesso, è vicino alla salvezza”.
Vite di uomini non illustri. E’ il titolo di uno tra i più rappresentativi testi letterari che lo scrittore Giuseppe Pontiggia, scomparso nel giugno 2003, ci ha lasciato. Nel volume edito da Mondadori nel 1993 sono raccontate le immaginarie vite di immaginari personaggi comuni. Uomini e donne della porta accanto, non illustri perché appunto si incarnano e si confondono nelle vesti di generiche figure anonime e senza gloria, di secondo piano, sì, ma di cui vengono comunque rievocate, con precisione di particolari, le esperienze che hanno reso memorabile, quanto meno agli occhi di pochi, la loro esistenza. Dentro ciascuna vita raccontata – avverte il risvolto di copertina – emerge “la vita di tutti e dentro la vita di tutti la vita di ognuno”. E’ un libro assolutamente da leggere perché porta in evidenza le fatiche, le emozioni, le gioie e le sofferenze di un’umanità che appartiene all’ampia categoria della “gente comune”, un mondo forse volontariamente inesplorato, ma da cui si possono senz’altro cogliere non pochi insegnamenti e utili spunti di riflessione.
Vite fuori del mondo è invece il titolo di un interessante volume di Geminello Alvi pubblicato da Mondadori nel 2001. Sono le storie di quarantadue uomini noti, ignoti e seminoti accomunate non solo dalla stravaganza e dall’eccesso, ma pure da una sorte di bisogno, assolutamente umano, di rendere omaggio alla vita, ai suoi sogni e alle sue infinite potenzialità , fino al suo culmine o alla perdizione. Un libro che oltre a chiarire alcuni aspetti dei personaggi ritratti, pone in chiara evidenza e con sguardo lucido e profondo, essenziale, la controversa natura umana nelle sue molte sfaccettature.
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