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BENVENUTA GIUSTIZIA. MA DOVE SEI?

Processi lenti. Attese estenuanti che favoriscono chi delinque. L’impunità è la nuova parola d’ordine. Non esiste la certezza della pena. Quando però viene comminata, non mancano gli sconti

17 gennaio 2004 | Luigi Caricato

Inaugurazione dell’anno giudiziario 2004. Il resoconto del procuratore generale della Cassazione Francesco Favara offre spunti inquietanti circa lo stato della giustizia in Italia. I meccanismi del sistema sono infatti piuttosto lenti. Non garantiscono certezze. Sono per l’esattezza nove milioni i processi tuttora pendenti. Lunghissimi ed estenuanti i tempi di attesa, tranne evidentemente alcune eccezioni. Quelle riservate a chi si avvantaggia a vario titolo di un canale preferenziale, per esempio. Lo scenario si rende più allarmante quando si scopre che a venire meno è soprattutto la capacità di colpire gli autori dei reati. Forse l’unico aspetto consolatorio riguarda la diminuzione degli illeciti rispetto al passato. Intanto però i delitti di cui si ignorano gli autori raggiungono quota 81 per cento. E’ un quadro quanto mai desolante, dunque, considerando inoltre che non tutti i reati vengano poi effettivamente alla luce. Quante infatti le denunce non presentate. Quanti i procedimenti neppure avviati. Ancora più drammatico il quadro che emerge già solo considerando il prevalere di un diffuso e dilagante senso di perdonismo. In fondo una certezza almeno esiste: a parte i molti benefici di cui abitualmente gode chi delinque, non tutti tra coloro che vengono condannati scontano infatti l’intera pena comminata.

Il compianto Giuseppe Pontiggia aveva molto a cuore il tema della giustizia. Nel corso di un’intervista rilasciata a Grazia Casagrande, in occasione dell’uscita per Mondatori del libro Prima persona, nel 2002, ha voluto precisare con ferma convinzione il proprio punto di vista.
Alla domanda della Casagrande per il “Cafè letterario” del sito di informazione libraria www.alice.it, ha voluto dichiarare in maniera chiara e inequivoca il proprio disappunto: “Quello che mi disturba e mi dispiace è che la società contemporanea tende alla deresponsabilizzazione (per usare un termine che non ho mai usato perché astratto), alla cancellazione della responsabilità personale, della colpa. Ecco, noto che c'è la tendenza a svuotare molti reati, anche i più gravi, della responsabilità morale che implicano, a preoccuparsi esclusivamente della pronta riabilitazione anziché del giusto risarcimento per quello che hanno patito le vittime. C'è un profondo squilibrio: è molto importante la riabilitazione dei colpevoli, infatti sono contrario alla pena di morte e alle forme punitive che offendono la persona, ma lo è altrettanto la sicurezza della pena. Se un individuo ha commesso una colpa grave è giusto anche che paghi e questo va considerato sia come strumento di riabilitazione per il colpevole, sia come risarcimento per la società; per questo la pena non va cancellata. Invece c'è la gravissima tendenza a dimenticare questo secondo aspetto e la cosa genera nei cittadini un senso di frustrazione e di angoscia”.
Alla insistita sollecitazione dell’intervistatrice (“Ci spieghi meglio questo concetto”), così risponde: “Quando uno ha la casa devastata dai ladri e sa che i ladri non saranno puniti, quando ha un parente che è stato investito da una macchina pirata e sa che il colpevole se la caverà con poco o niente, allora la vittima prova un senso di abbandono e di angoscia. Penso che questa società, indebolendo la certezza della pena, tolga alla giustizia una delle sue funzioni più importanti cioè quella di deterrente: molte persone sicure dell'impunità commettono reati. (…) Domina purtroppo l'idea assurda che usando l'indulgenza si agevoli l'esercizio della giustizia, invece si offende la vittima, privandola del giusto risarcimento, si favorisce la replica del reato, anzi la sua moltiplicazione matematica, e si genera uno stato di angoscia nei cittadini”.

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