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NON SI SOGNANO PIU' I MESTIERI COMUNI. I TEMPI SONO CAMBIATI, LE ASPIRAZIONI PROFESSIONALI PURE

I giovani vivono nell’incertezza, fra sogni di fama e paura della precarietà. E' difficile, per molti, mettere a fuoco ciò a cui si tiene per davvero. Più che l’impegno, i sacrifici e l’intelligenza, al centro delle attenzioni si pongono “i contatti giusti e la fortuna”

19 novembre 2005 | Ada Fichera

Fino a pochi anni fa, quando si poneva ad un bambino la tradizionale domanda “cosa vuoi fare da grande?”, la conseguente risposta poteva essere “il dottore, il poliziotto,…”, nei casi più fantasiosi si poteva sentire al massimo “l’astronauta”.

Man mano che si andava avanti con gli anni, già in fase adolescenziale, si iniziavano a delineare più seriamente le idee dei futuri lavoratori, fino all’età più adulta in cui si era chiamati alla scelta universitaria e dunque lavorativa.

Oggi i tempi sono davvero cambiati e le aspirazioni e, perché no, i sogni, dei giovani sono cambiati.
Sarà per emulazione dei loro idoli, per incoscienza, per mancanza di realismo o per un eccesso di quest’ultimo, ma “i ragazzi del duemila” non sognano più i mestieri comuni.
Scrive Federico Pace, su “La Repubblica” del 15 novembre scorso:

"Smarriti, concentrati sul presente e insistentemente ingenui, ai giovani non piace il mestiere di insegnante o di magistrato e vagamente ipotizzano un futuro da manager discografico o da attrice. Ma per lo più, quando si tratta di parlare di mestieri, professioni o di occupazione futura, hanno difficoltà a mettere a fuoco quello a cui tengono davvero".

La tendenza emerge da uno studio dell’Istituto Cattaneo, istituto di ricerca sociale e culturale. Più che l’impegno, i sacrifici e l’intelligenza, al centro di una prospettiva di radioso futuro stanno “i contatti giusti e la fortuna”.
Secondo i dati dell’indagine menzionata, la quale ha interrogato un campione di 4 mila e 500 studenti delle scuole medie superiori, arriva al 42% la quota di ragazzi e ragazze che non ha alcuna idea precisa di quello che sarà il suo lavoro. Tra loro sono soprattutto le ragazze a non avere le idee chiare, mentre i ragazzi sembrano meno indecisi. Gli studenti degli istituti tecnici e professionali sono quelli che invece hanno un’idea dettagliata di quello che li aspetta fuori dalle aule scolastiche. Anche se, vivendo uno “splendido” disincanto, pochi di loro infatti credono alla possibilità di auto-realizzarsi e, per lo più, pensano che, a determinare o meno il successo di una ricerca di lavoro, siano soprattutto le giuste conoscenze.

Parlando di occupazione, in vetta al monte delle priorità, c’è il fatidico mito del “posto fisso”, e del resto come dargli torto?
La sicurezza del posto di lavoro è importante per i giovani, unitamente alla possibilità di far carriera ed ai buoni rapporti con i superiori.
Agli occhi dei ragazzi italiani, riguardo alla futura attività lavorativa, è fondamentale l’auto-realizzazione, seguita da una buona retribuzione. Sono in particolare gli uomini ad essere più legati agli aspetti finanziari.
Il dato di questa ricerca che fa riflettere è il documentato senso d’insofferenza avvertito dai più di due milioni e mezzo di giovani seduti dietro ai banchi di scuola.
È come se provassero un evidente e frequente distacco dalla passione per la cultura e per il sapere in generale, è come se vivessero quasi un’estraneità da un mondo come quello del lavoro.

Motivazioni a questo “fenomeno di costume”, ne potremmo trovare tante, e molte veramente giustificate.
Una di queste è l’andamento del settore dell’Istruzione, dalla scuola all’università.
Un sistema che ha fatto divenire la scuola una vuota routine, la quale invece dovrebbe essere cultrice di una radicale affezione alla conoscenza, quella scuola che dovrebbe trasmettere il desiderio di emergere, ma che invece spesso tende ad un appiattimento del rendimento degli studenti, ad un meccanismo ormai avviato e difficilmente plasmabile da chi ne sta al timone, nel quale pur volendo si stenta ad uscire dagli schemi.

La scuola italiana, a livello didattico ed anche formativo, è buona; sappiamo benissimo che in confronto agli stranieri siamo sempre i migliori e i più preparati, non vogliamo infatti dire che la nostra istruzione non va. È il metodo, ovvero il modo attraverso il quale la cultura viene quotidianamente offerta agli scolari, che è cambiato e che inizia a “fare acqua”.

Non parliamo poi dell’università, ormai completamente divorata dalla burocrazia e dalla perversa logica dei crediti.
Pensate infine, che lo spettacolo paga i cosiddetti personaggi famosi “fior di quattrini” per semplici apparizioni televisive, anche di pochi minuti, o per serate nelle discoteche. Come biasimare quanti vanno a caccia di popolarità?

Se a questi aspetti uniamo le sempre maggiori difficoltà che, anche dopo anni di studio, si incontrano nel mondo del lavoro, sempre più chiuso, gerarchizzato e precario, ecco che poi non dobbiamo meravigliarci se i giovani sono disorientati.
Né possiamo meravigliarci se molte ragazze italiane vogliono fare le attrici, le direttrici di villaggi turistici e le stiliste o se i ragazzi sognano di diventare discografici, cantanti e registi.

Il mondo del lavoro di oggi è sempre meno capace di sedurre e di stimolare le migliori qualità dei giovani. Ecco anche perché, per loro, è diventato più facile, dire quello che intendono rifiutare, anziché individuare quello che desiderano in cuor loro.

Scarse le simpatie riscontrate per quelle figure che rimandano all’area dell’amministrazione pubblica, come il magistrato o il funzionario comunale; valutazione negativa da parte dei ragazzi anche per professioni caratterizzate da consolidata stima sociale nel mondo degli adulti, come l’ingegnere, l’agente di borsa, l’assicuratore o il pilota d’aereo.

Nelle migliori delle ipotesi, le ragazze vogliono diventare interpreti e i ragazzi più tecnologici e pragmatici sognano di diventare esperti di grafica o progettisti di siti internet.
Per fortuna che ci sono ancora minoranze che pensano di fare i giornalisti, i bancari, i ricercatori!
Visto il quadro appena illustratovi, diciamo in conclusione, che, forse, ridimensionare la considerazione sociale per certe professioni, rivalutandone al contempo anche altre, e aprirsi un po’ ai giovani, scommettendo di più sulle loro capacità e sulle loro risorse, aiuterebbe a migliorare e a far crescere la nuova generazione e, in modo più ampio, la nostra società.

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