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BIANCA GARAVELLI: "E' L'ANSIA DI MIGLIORAMENTO SOCIALE, O IL MIRAGGIO DI UNA VITA PIU' FACILE, AD AVER ALLONTANATO LA SOCIETA' DALLE CAMPAGNE"

Al centro della conversazione la letteratura e la civiltà dei campi. E' in Alessandro Manzoni il punto di partenza per la narrativa di domani. Per un recupero profondo e non superficiale della tradizione rurale, la sua saga contadina resta un riferimento chiave. Dietro a un libro – spiega la narratrice - c’è sempre un mondo, una serie di idee, tante vite e un impasto di esperienze che affascinano e attraggono

30 aprile 2005 | Luigi Caricato

Incontro la scrittrice Bianca Garavelli a Milano, a pochi giorni dall’uscita del romanzo-thriller Il passo della dea per l’editore Passigli. Con lei parliamo di letteratura e non solo. I nostri lettori la ricorderanno. Con altri narratori e poeti ha partecipato a un corso per sommelier organizzato dall’Ais Lombardia, di cui abbiamo ampiamente scritto.



Partirei subito dai suoi maestri, quindi da una figura così centrale come quella di Maria Corti. Un vero punto di riferimento, vero?
E’ vero, lei è stata da un lato come una manager e dall’altro una mamma per le sue studentesse: ci sgridava, però era anche affettuosa. Quindi penso che lei mi abbia anche influenzata, forse inconsapevolmente. Io scrivo narrativa come lei, ma anche saggistica. Ecco, a differenza di lei io scritto anche un libro di poesia.

La Corti si sentiva forse più narratrice che altro...
Sì, lei ci teneva molto e ne aveva sofferto. Pensava di non essere stata capita. Si identificava per certi versi in Dante. Il grande poeta era stato infatti misconosciuto, non era stato apprezzato abbastanza per tutta l’opera...

Ecco, a proposito di dante possiamo dire ai lettori di “Teatro Naturale” che Bianca Garavelli è anche una dantista...
Sì, molto modestamente (sorride) ho curato uno dei commenti danteschi che attualmente sono adottati nelle scuole italiane, pubblicato per le edizioni Bompiani con la supervisione di Maria Corti. Si è trattato di un lavoro molto impegnativo, ma che mi ha dato grosse soddisfazioni.

Chiedere cosa ha rappresentato Dante è sicuramente una domanda molto banale; però, visto che sono di fronte a un’apprezzata dantista, lo chiedo ugualmente...
Dante è una figura di riferimento per me, e attualmente sembra essere diventato anche un personaggio di moda. Probabilmente perché in questo periodo vanno molto certe figure misteriose legate agli aspetti enigmatici di un passato che perdura nel presente; e Dante incarna perfettamente questo aspetto, ha in sé moltissime potenzialità. E’ un personaggio da romanzo ed è l’unico autore di poema epico che abbia scelto se stesso come protagonista, poi è anche un poeta che ha aperto la strada alla letteratura italiana, ma che poi è stato un po’ dimenticato, in quanto la linea dantesca non è stata scelta, essendo stata piuttosto preferita quella petrarchesca.

Ora passiamo invece ad un altro tuo ambito d’azione, quello che ti vede protagonista nelle vesti di critico letterario...
Lo faccio soprattutto sul fronte della poesia. Io ho pubblicato un libro di versi, poi non dico di aver abbandonato la poesia, ma ho smesso tuttavia di scriverla. Mi sembrava più serio – così almeno mi sono detta, all’epoca – visto che mi occupavo di poesia come critico di non scriverla più. Pensandoci, ora, forse è un alibi, perché in realtà preferivo così, probabilmente.

Ma è vero quel che si dice sul conto della poesia, che in Italia sia ben più avanti e propositiva rispetto alla narrativa...?
No, non sono d’accordo. Penso che entrambe siano interessanti e in evoluzione. La poesia sta manifestando una tendenza al poema, ad una forma narrativa complessa e unitaria; e la narrativa sta dimostrando di avere una grande vitalità: ci sono autori giovani bravi, che hanno qualcosa da dire.

Quali sono gli autori più rappresentativi tra i giovani?
Ci sono per esempio i narratori del fantastico che stanno venendo fuori. I nomi di quegli autori sui quali scommetterei di più? Lo psicanalista junghiano Alessandro Defilippi, autore di Angeli e Locus animae per Passigli. Ma penso anche a un altro outsider, Tullio Avoledo, consulente legale per un importante istituto bancario, che ha esordito a quarantacinque anni ed è già al terzo romanzo di successo, Lo stato dell'unione (Sironi), con una notevole propensione al fantastico; e poi penso a un giovane autore partito dalla fantascienza, che possiede una solida formazione scientifica: è Luca Masali, vincitore di un Premio Urania con I biplani di D'Annunzio e ora dedito al "giallo storico" con L'inglesina in soffitta (Sironi).

Ora invece parliamo del romanzo-thriller uscito da pochi giorni, dal titolo Il passo della dea...
Sì, è il mio quinto libro di narrativa. Si ricollega a un mio precedente lavoro, il romanzo per ragazzi Il mistero di Gatta Bianca. Sono entrambi dei polizieschi che tuttavia rompono il confine del genere. Hanno gli stessi personaggi, ma questa volta è ambientato al Teatro alla Scala, alla fine della stagione del 2001, cioè alla vigilia della chiusura per restauri del teatro. C’è sempre una struttura di tensione in tutti i miei lavori narrativi. Trovo che ci sia sempre qualcosa da scoprire, un mistero da svelare in tutte le persone; aspetto, questo, che mi interessa molto. Penso che il mio libro possa divertire, perché ha un ritmo incalzante e ha personaggi con risvolti buffi. Ma c’è anche il senso dell’inquietudine ch’è stata propria del passaggio dal vecchio al nuovo millennio, come vi è pure la scoperta di un complotto ai danni dell’umanità, sventato senza tanto clamore e appena in tempo. E’ un libro che trascina e spero che possa piacere e divertire. Dietro a un libro c’è sempre un mondo, una serie di idee, una vita, tante vite, un impasto di esperienze, e quindi affascina di per sé la lettura di un libro, qualunque sia.

Ora dunque inizia il tour di presentazioni...
Sì, la prima vera e propria presentazione de Il passo della dea sarà in tema col vino, opportunamente citato in una delle scene di cena che ho descritto. Sarà a "tarallucci e grignolino"! Alla Libreria del Giallo, in via Peschiera, 1, a Milano, giovedì 12 maggio alle 21. Mi presenterà proprio Luca Masali.

Ecco, a tal proposito ”Teatro Naturale” si rivolge a un pubblico che privilegia la triade alimentazione-agricoltura-ambiente. Oggi peraltro c’è una moda che coinvolge molti scrittori, attraendoli verso queste tematiche. E’ appunto solo una moda occasionale o è piuttosto una esigenza forte della società?
E’ una esigenza, probabilmente. Il rapporto con l’alimentazione, il bere vini o distillati, l’assumere il cibo, diventa oggi un preciso riferimento, per nulla secondario. Penso che il bisogno di un legame con la natura sia molto sentito. Anch’io cerco la natura, la cerco perfino qui a Milano, e fortunatamente la trovo. Passeggiando questa mattina sulla darsena ho visto le rondini muoversi a volo radente sull’acqua ed è stato bellissimo. La natura è dunque anche a Milano.

Che libri consiglieresti ai lettori di “Teatro Naturale”?
C’è per esempio un poeta-agricoltore nella storia, Virgilio, che ha dedicato proprio agli agricoltori una serie di libri, Le Georgiche. Oppure per tornare al nostro tempo penserei a un libro che contiene in sé un elemento di visionarietà e di realismo, come il primo Italo Calvino, del Barone rampante. O, infine, penso a un altro libro che è tuttavia molto duro, anche se ha la caratteristica dell’incisività, essendo breve: La Malora, di Beppe Fenoglio, dedicato al mondo contadino.

Come mai l'appartenenza al mondo rurale è andata persa negli ultimi due decenni? C'è sì un ritorno alla natura, e alla campagna in particolare, ma si tratta solo di un avvicinamento epidermico, da fruitori di fine settimana. Se da un lato compare la figura dell'agriturista, e di chi valorizza i prodotti tipici, dall'altro si fugge invece un più diretto coinvolgimento che chiede continuità e adesione piena. I giovani, insomma, fuggono tutti il lavoro agricolo, anche oggi ch'è cambiato ed è meno faticoso. Perché? Solo per il fatto che non sia socialmente accettato?
Ho purtroppo esperienza diretta di questo fenomeno: la famiglia di mia mamma era tutta di contadini. Dico era, perché infatti mio nonno materno e i suoi fratelli ormai non ci sono più, e non sono stati seguiti dai discendenti nella loro "carriera" di contadini, che poi era una tradizione centenaria. I giovani rimasti in vita o sono partiti dal paesino, Quingentole, in provincia di Mantova, proprio sulle rive del Po, o se sono rimasti hanno abbandonato la vita strettamente contadina. Due miei cugini lavoravano alle Chiuse del Po, il complesso sistema di irrigazione che bagna il territorio, ma anche quel lavoro, molto duro, con turni massacranti, è stato abbandonato. La ragione penso che stia proprio nell'ansia di un miglioramento sociale, o nel miraggio di una vita più facile, più agiata, fuori dalla durezza del mondo dei campi... Ed è molto triste adesso, perché il paesino, già piccolo, si è svuotato, e penso che sia un destino comune in quella zona, la bassa padana. Oramai non è rimasto nessuno della generazione nuova, nessuno che abbia espresso il desiderio di riprendere l'antica tradizione. Che era legata alla coltivazione di uve a bacca bianca e rossa, e granturco (ho vaghi ricordi d'infanzia). Forse sto cominciando a pensarci io...

Anche il mondo intellettuale ha considerato poco la società rurale. Si parla tanto di mondo operaio, meno, o niente affatto, di mondo rurale. Perché ci si interessa poco, sul piano politico, economico, sociale e perfino intellettuale del mondo agricolo?
Forse il motivo è legato al fatto che la letteratura, la narrativa italiana "nuova" è nata intorno al 1945 proprio come espressione di una protesta operaia, come descrizione di una realtà sociale, soprattutto urbana, in rapido cambiamento. Ci si dimentica di testi importanti, come Il mulino del Po di Bacchelli, e non dev'essere un caso. La città si è contrapposta alla campagna, come si vede bene per esempio nei racconti calviniani di Marcovaldo e con questa contrapposizione ha portato via ossigeno al mondo contadino. Quest'ultimo è stato visto probabilmente nel secondo Novecento come un ricordo, la reliquia di un passato che l'Italia si stava lasciando alle spalle. Ma forse abbiamo un asso nella manica: proprio il Manzoni dei Promessi sposi, che ci offre un ottimo esempio di saga contadina, esempio che potrebbe essere seguito dai narratori di domani, sicuramente pentiti di aver voltato le spalle al mondo delle campagne, e desiderosi di un recupero profondo, non superficiale, della nostra tradizione più autentica.

<i>Il passo della dea</i>, Passigli, pp. 252, euro 15,50

Bianca Garavelli è nata nel 1958 a Vigevano, dove vive. È narratrice, dantista e critico letterario. Ha esordito con la raccolta di poesie L'insonnia beata (Edizioni del Laboratorio, 1988) e in seguito ha pubblicato i romanzi L'amico di Arianna (Guida, 1990), Guerriero del sogno (La Vita Felice, 1997, finalista al Premio Montblanc) e il romanzo per ragazzi Il mistero di Gatta Bianca (Laterza, 1999). Nel 2001 è uscita invece per Bompiani l'edizione rinnovata del suo commento all'Inferno di Dante (prima edizione 1993, con la supervisione di Maria Corti), e il volume di Canti scelti della Commedia; nel 2002 i commenti al Purgatorio e al Paradiso. Ha inoltre coordinato la collana "I Grandi Classici della Poesia" per l'editore Fabbri(1997-2000) e collabora alle pagine del quotidiano "Avvenire", oltre che a quelle di "Stilos" e "Poesia".

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