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ANCHE I GRANDI POETI SALUTANO LA VITA. IN MORTE DI MARIO LUZI, TESTIMONE DEL VERO

Scomparso all'età di novant'anni, lo ricordiamo con una intervista che ci ha rilasciato nel 1987, ancora attuale nella verità del messaggio. Con lui - secondo quanto riferisce Andrea Zanzotto, altra figura limpida e intensa - viene meno un grande cantore della campagna, del paesaggio e del dramma che la natura porta con sé.

05 marzo 2005 | Luigi Caricato

Ci ha lasciati lunedi 28 febbraio mentre era ancora a letto. Non si è più rialzato, sprofondando nel sonno dei giusti, quello eterno. Il presidente della Repubblica Azeglio Ciampi lo aveva nominato lo scorso ottobre senatore a vita. Lo meritava, la sua intelligenza e lucidità lo hanno contraddistinto da sempre.
Era nato il 20 ottobre 1914 a Sesto Fiorentino ed è stato l'ultimo grande protagonista della felicissima stagione dell'Ermetismo. Tra i suoi libri ricordiamo solo quelli propriamente di poesia, ma ha scritto pure testi teatrali e saggi: Un brindisi (1946), Quaderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), Nel magama (1963), Dal fondo delle campagne (1965), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978), Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), Frasi e incisi di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994), Sotto specie umana (1999)e il recentissimo Dottrina dell’estremo principiante (2004), tutti editi da Garzanti.
Prima di presentarvi l’intervista che mi aveva rilasciato per il settimanale “Voce del Sud”, e pubblicata l’11 aprile 1987, vi riporto un appunto apparso sulle pagine del “Corriere della Sera” da parte del poeta Andrea Zanzotto, altra figura limpida e profonda del nostro scenario letterario: “Dopo i primi libri, la sua poesia s’è caratterizzata come una forma di orfismo di derivazione ermetica. In Onore del vero - scrive Zanzotto - sembra abbandonare la strada intrapresa: una sorta di verità rivolta all’astratto, per guardare ad una verità di alta concretezza. E si rivela grande poeta della campagna, grandissimo poeta del paesaggio e del dramma che la natura porta con sé e dell’uomo che vive in questa dimensione. Proprio da queste pagine, emerge una Toscana vera e profonda di cui Luzi è stato cantore davvero eccezionale”.

Foto del

Qual è secondo lei il rapporto che il poeta deve avere nei confronti del linguaggio?
Beh, sono rapporti molto intensi, in cui molto influisce la percezione della profondità della parola. In genere, si sa, il linguaggio tende a consumarsi, ad adulterarsi; la comunicazione spiccia o la proliferazione dei cosiddetti messaggi lo svuotano di valore. E il poeta ha questo bisogno prima di tutto, oltre che questo compito, di ricuperare al linguaggio tutto il suo valore, tutta la sua intensità. Ora lei sa bene che le strade sono molto divergenti; alcuni si propongono di violarlo addirittura, programmaticamente (con le avanguardie, eccetera), e creare così una rottura, un’infrazione delle norme linguistiche. Ma tuttavia credo che un recupero del principio, dell’originario, della valenza lessicale e fraseologica, è rivoluzionario, forse più profondamente ancora della rottura. Almeno, questa è la mia opinione.

Crede d’essere riuscito, con l’intera sua produzione poetica, con il suo continuo confrontarsi con i misteri della scrittura, a sublimare in qualche modo il dolore del vivere?
Lei mi fa una domanda verso la quale ogni risposta sarebbe immodesta. Certamente mi sono immedesimato, ho condiviso il dolore dell’epoca, e anche quello che la natura umana nella sua laboriosa evoluzione ha destinato all’uomo come creatura. Io questo dolore ho cercato di condividerlo; l’ho sentito profondamente ma ho cercato anche di esprimerlo, senza disperazione, con una prospettiva di speranza. Se poi sono riuscito a sublimarlo, questo non lo so, non è a me che lo deve chiedere.

Com’è invece il suo rapporto con la realtà?
Realtà è un termine un po’ generico. Non è che esista già, la si deve scoprire di volta in volta. Abbiamo una serie di fenomeni davanti a noi, ma la realtà, il valore reale di certe cose che vediamo, che usiamo, eccetera, risiede in fondo a noi, nella nostra essenza. Quindi la realtà è una scoperta, è un punto d’arrivo, terminale. Ecco, dire questo è reale. E tuttavia, io vivo in mezzo alle incidenze e alle occorrenze del mondo; questo senza dubbio, giorno per giorno.

Qual è dunque per lei il compito del poeta nell’attuale momento storico? Montale criticava, assai aspramente, la figura del poeta-tuttologo, che finora non sembra affatto declinare. Cosa ne pensa?
Magari l’aggressività del tempo è tale che anche la riservatezza dei singoli spesso è messa a prova, viene tirata in ballo; però il compito del poeta è di interpretare un po’ quello che l’uomo moderno non capisce. Quindi quanto venga usato, abusato e manipolato da quei poteri, da quelle forze che gli impediscono di essere se stesso (naturale), di obbedire alle proprie intime richieste. La società moderna è così perigliosa in questo senso, insidiosa. Ecco: il poeta, con la sua verità di fondo, con la ricerca di verità ch’è in lui, ha questo compito.

Vuole esprimere un suo personale giudizio intorno alla poesia che si va delineando in quest’ultima parte del secolo?
Si tratta di una poesia controversa, combattuta da molti dubbi di legittimità, che si è messa a confronto con se stessa, oltre che con la sua giustificazione e tradizione. E’ quindi una poesia che ha molteplici aspetti in Italia... E’ stato un grande secolo. Dal primo Novecento ad oggi, abbiamo una serie di poeti parecchio considerevoli e originali. E’ proprio un secolo ricco, in Italia più che altrove; forse anche in Ispagna, almeno fino a un certo periodo. La poesia, comunque, è stata forse la manifestazione più diretta, più complessa, nello stesso tempo, della realtà interna dell’uomo del secolo XX; più del romanzo e di altre forme letterarie, sicuramente.

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