Articoli 07/04/2012

L’idea spregiativa di consumo? Figlia di una visione industriale e urbanocentrica

L’idea spregiativa di consumo? Figlia di una visione industriale e urbanocentrica

Non si tratta più di combattere tra “cementificatori” e “amanti della natura”. Va aperta una nuova fase del consumo di territorio. Occorre andare oltre. Non a caso si parla oggi di consumo critico e responsabile. Nascono fattorie sociali e didattico-educative che interagiscono in modelli di welfare locale. E così, anche gli orti urbani aggregano persone


La campagna “Stop al consumo di territorio” non mi ha mai convinto. “Consumare” non significa solo “distruggere”, “compiere un atto attraverso il quale gli oggetti cessano di esistere”; non richiama solo l’idea dello spreco. Questo significato rinvia ad un’immagine prettamente materiale del consumo e, questa a sua volta, ad una cultura della produzione industriale che si rivela assai persistente, nonostante il richiamo frequente alla terziarizzazione della società e al peso crescente della dimensione immateriale dei beni.

La società dei servizi ha ampliato i significati legati al consumare proponendo uno spostamento del consumo come deterioramento al consumo come accesso all’uso di un bene. Una pluralità di esperienze di consumo enfatizza un nuovo modo di possedere in un’accezione più ricca del semplice logoramento dissipativo. Si parla sempre più di consumo critico, responsabile, riflessivo. Si torna, in un certo senso, a modi di essere e di pensare, precipui della cultura contadina, che accompagnavano l’appropriazione e la consumazione di un bene con riti conviviali e consuetudini sociali atte a garantirne anche la riproducibilità. Sicché, consumare e fruire tornano ad essere sinonimi: sono un insieme di atti attraverso i quali definiamo ed esprimiamo la nostra identità, costruiamo la nostra vita quotidiana, entriamo in relazione con altri individui.

L’idea spregiativa di consumo è figlia sia della cultura industriale, sia della simmetrica visione urbanocentrica che ancora influenza gli approcci prevalenti alle politiche territoriali. Si fa fatica a capire che il territorio non si divide più in modo manicheo in aree cementificate, da una parte, e in aree agricole adibite alla produzione agroalimentare, dall’altra. I processi che si stanno verificando sono molto più complessi.

La crisi dell’agricoltura industriale, alle prese con una competizione spinta che proviene dalle agricolture dei paesi emergenti, induce processi di dismissione delle attività agricole, ma anche la rifioritura di un’agricoltura di servizi. Specialmente le campagne urbane si vanno attrezzando secondo esigenze che non corrispondono più alla tradizionale funzione di produzione agroalimentare ma ad una domanda di servizi nuovi che i cittadini richiedono. Nascono fattorie sociali che interagiscono in modelli di welfare locale. Sono sempre più numerose le fattorie didattico-educative per la conservazione e valorizzazione di memorie e culture rurali.

Gli orti urbani aggregano persone e gruppi che intendono socializzare e presidiare il territorio. Si guarda agli orti “sui tetti” in serre fotovoltaiche come ad una innovazione tecnologica e sociale insieme, per bonificare le croste urbane. Sorgono comunità di cibo, gruppi di acquisto solidale, farmer’s market, vendite on line, che riconnettono produttori e consumatori.

La ristorazione collettiva incomincia a rifornirsi presso piattaforme commerciali di prodotti bio-sociali. Centri ippici e asinerie rivitalizzano il peculiare rapporto uomo-animale del mondo rurale. Si diffondono le esperienze di co-housing e di ecovillaggi. Si tratta solo di alcuni esempi di innovazioni organizzative, in cui le dicotomie città/campagna, modernità/tradizione, complesso/semplice fanno spazio a forme reali, possibili e sostenibili dell’abitare.

Le attese nei confronti degli spazi agricoli e dei sistemi di relazione in cui sono integrati e implicati si sono rese più complesse. Le villettopoli dei ricchi convivono coi tuguri degli immigrati. La ricerca di senso e di nuovi stili di vita, da parte di persone provate dal disagio contemporaneo, s’incrocia coi bisogni abitativi di giovani coppie e di nuovi poveri. Dunque, un nuovo mondo, composito e promiscuo, è protagonista di un fenomeno ancora sottovalutato, che va sotto il nome di “rurbanizzazione”: un sovrapporsi di urbanizzazione e ruralizzazione, una sorta di continuum urbano-rurale, in cui è sempre più difficile distinguere ciò che è città da ciò che è campagna.

Altro che “stop al consumo di territorio”. Di fronte a questi nuovi fenomeni, bisogna battersi, al contrario, per riempire il territorio di nuove attività, che riproducano beni relazionali (fiducia, coesione, fraternità) come condizione per tutelare le risorse naturali (terra, acqua, aria…). Si tratta di trasformare bisogni diffusi di socialità in domanda strutturata di beni materiali e immateriali per costruire forme di vivibilità, cura, convivialità, produzione, scambio e consumo, capaci di fronteggiare la crisi economica e il disagio urbano.

Occorre una mobilitazione non per dire “NO”, ma per dire un grande “SI” al consumo di territorio al fine di rispondere a bisogni sociali compositi.

Ma per dire “SI” invece di “NO”, va abbandonata la visione industrialista e urbanocentrica e assumere il territorio in quanto tale, con tutte le sue funzioni, come luogo dell’abitare e del vivere. Occorre superare la “divisione del lavoro” tra chi pianifica e realizza i quartieri delle città e i servizi connessi e chi è addetto alla pianificazione e gestione delle aree agricole, a partire da quelle protette. Bisogna far dialogare politiche e strumenti diversi procedendo per sperimentazioni. Oggi le scienze sociali permettono di prevedere gli effetti di un mix d’interventi di varie politiche adottando il metodo scientifico sperimentale, così come si fa per un farmaco prima di metterlo in commercio.

Non si tratta di combattere la guerra senza quartiere tra i “cementificatori”, da una parte, e gli “amanti della natura”, dall’altra. Fingendo di combattere questa “guerra santa”, negli ultimi decenni si è solo ottenuto uno sviluppo verticale delle città e un abbandono delle campagne urbane alla desolazione. E’ per questo che bisogna chiamare forze sociali e produttive a consumare il territorio in base ai più compositi bisogni sociali che soprattutto le città esprimono.

Va aperta una nuova fase del consumo di territorio, interpretando la sostenibilità come transizione da una modernità dissipativa di beni comuni (beni relazionali e risorse naturali) ad una modernità che non rinuncia ai processi moltiplicativi e agli automatismi, ma li ricentra sulle persone.

Carlo Cattaneo soleva ricordare che la lingua tedesca chiama con la medesima voce l’arte di edificare e l’arte di coltivare. Il nome dell’agricoltore non suona coltivazione ma costruzione, ackerbau; il contadino è un edificatore, bauer; e dunque un popolo deve edificare i suoi campi come una città; e il termine antico tedesco, buan, da cui deriva quella voce, significa abitare.

Per governare il territorio, che non è più la città compatta che cresce verticalmente, da una parte, e la campagna agricola che evolve in termini meramente produttivistici, dall’altra, dobbiamo tornare ad unificare tutti questi termini e restituire al consumo tutto il suo valore positivo.

 

 

di Alfonso Pascale

Commenta la notizia

Per commentare gli articoli è necessaria la registrazione.
Se ancora non l'hai fatto puoi registrati cliccando qui oppure accedi al tuo account cliccando qui

Commenti 0