Articoli 24/09/2011

Ci sarà ancora un destino per l'Italia?

Ci sarà ancora un destino per l'Italia?

Essere legati ai diversi territori di appartenenza è davvero una debolezza? Pensare di rilanciare la vecchia idea di nazione è un’operazione inutile perché lo stato nazionale è destinato a perdere potere tanto in alto quanto in basso


Ci chiediamo con apprensione cosa potrà essere l’Italia di domani e quale peso avrà nel mondo e se ci sarà ancora spazio per un’identità italiana. E’ difficile dare una risposta. Siamo appena entrati nella terza rivoluzione tecnologica della storia, dopo quella agricola e quella industriale, e l’umanità ne uscirà ridisegnata dalle fondamenta. Andremo incontro a rischi enormi ma anche a grandi opportunità. E il centro del mondo si è spostato sulle rive del Pacifico dove l’estremo Occidente tocca l’estremo Oriente. Questo nuovo intreccio sta facendo nascere una nuova civiltà.

E tuttavia noi siamo nati dove un ininterrotto e millenario accumulo di attività e ingegno ha creato opportunità di agio che non hanno eguali per qualità ed equilibrio. Per due volte, separate da quasi un millennio, l’Italia aveva figurato come protagonista assoluta sulla scena dell’Occidente.

La prima aveva riguardato l’antichità imperiale romana. La seconda, tra XXII e XVI secolo, culminata nel Rinascimento, quando si formarono i primi tratti dell’italianità moderna: da una parte, una forte creatività intellettuale e sociale, capace di produrre modelli artistici, stili esistenziali, articolazioni civili, legami comunitari, comprensione del mondo; dall’altra, una enorme debolezza nel produrre una potenza regolatrice delle forme in quanto stato, istituzioni, forza disciplinante di regole e responsabilità. L’italianità moderna è tutta spostata sulla vita anziché sulle forme: una vita che assorbe in sé le forme invece di farle vivere in modo autonomo e forte.

Quando le masse sono entrate nella sfera politica, con la democrazia repubblicana, non si è andati verso una distinta e parallela crescita della società civile e dello Stato, ma sono stati i partiti ad occupare entrambe le sfere, impedendo alla prima di evolvere compiutamente e responsabilmente e al secondo di acquisire forza e autorevolezza.

Sicché si sono prodotti spirito di adattamento insieme a un’incapacità di autodisciplinarci; propensione all’eguaglianza insieme ad uno scarso spirito democratico; spiccato senso dei diritti individuali insieme ad una mancanza di cultura della responsabilità; alfabetizzazione di massa insieme ad un forte appiattimento culturale.

Questo intreccio di pregi e difetti ci impedisce di stare compiutamente nella modernità

Oggi più che mai noi siamo la nostra conoscenza e la nostra esperienza e potremo avere un futuro se sapremo creare un nuovo equilibrio tra storia e innovazione, tra uso del territorio e conservazione della bellezza, tra vita e forme. Ci vogliono progettualità e legami di cittadinanza che inducano una capacità della società civile di organizzarsi per stare dentro il mondo odierno e non ai margini e un rinnovamento profondo dei partiti per ottenere istituzioni efficienti e politiche capaci di mettere in moto l’economia.

Ma senza ricostruire un’identità è difficile che si abbiano progetti e legami. Una forte identità nazionale come ritiene Ernesto Galli della Loggia? O un’identità italiana proiettata verso un’identità europea come pensa Aldo Schiavone?

Il grande storico delle repubbliche italiane, Jean Léonard Sismondi, nel 1845 sosteneva: “L’Italia è diventata non una nazione ma un semenzaio di nazioni, in cui ogni città fu un popolo libero e repubblicano.” Negli stessi anni, Carlo Cattaneo, il grande sconfitto del Risorgimento, scriveva che “gridar la repubblica nelle valli di Bergamo e del Cadore è così naturale come gridare in Vandea viva il re!” Giuseppe De Rita ritiene che quelle convinzioni preunitarie, repubblicane e federaliste, non siano state offuscate da un secolo e mezzo “di unificazione statalista, centralizzata, burocratica”.

Pensare di rilanciare la vecchia idea di nazione all’inizio del nuovo millennio è d’altronde un’operazione inutile perché lo stato nazionale è destinato oggi a perdere potere tanto in alto quanto in basso. In alto, perché si moltiplicano le forme di fusione e di unione tra gli stati tanto che in Europa oltre il 60 – 70 per cento del potere legislativo dipende ormai da Bruxelles e Strasburgo. In basso, perché sta, non solo presso di noi ma in tutti gli stati nazionali, aumentando il potere reale dei governi locali e regionali.

Vale allora la pena di ricostruire lo stato nazionale su basi nuove, cominciando col fissare il “codice genetico” degli italiani e col ricordare tutte le grandi “fedeltà” che essi sono riusciti a conservare lungo i secoli e i millenni. Mi chiedo: essere legati ai diversi territori di appartenenza è davvero una debolezza? L’estrema varietà dei luoghi e delle storie del nostro paese non è forse una grande ricchezza di cui possiamo disporre? Penso che solo riappropriandoci di questo patrimonio culturale possiamo impostare nuove regole, davvero federaliste, per trasformare gli italiani da sudditi mugugnanti in cittadini responsabili.

Non bisogna, però, attingere a quanto gli intellettuali e i letterati hanno scritto in passato sui ceti popolari italiani ma direttamente a quanto il nostro popolo ha sempre pensato, detto e scritto di se stesso, raccogliendo l’imponente materiale di letteratura tradizionale, di memorie e fonti orali di cui noi siamo ricchi. Sandro Fontana ha recentemente dato conto di alcune ricerche importanti effettuate in Lombardia che vanno in questa direzione. Temi come il cibo, il lavoro, la terra, la comunità, la patria, il risparmio, la famiglia, la religione, l’amore, la lingua assumono altri significati nella cultura popolare e rurale; ed è lì che dobbiamo scavare per tornare a riprenderci quei significati e integrarli coi nuovi saperi di oggi. E’ in questo modo che ricostruiremo un’identità che faccia leva sulla cultura e sulla consapevolezza di quello che davvero siamo stati per poter cambiare con coraggio noi stessi nel mondo che cambia.

 

di Alfonso Pascale

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Commenti 6

EMILIO FRANCIOSO
EMILIO FRANCIOSO
06 novembre 2011 ore 23:59

E' un piacere viaggiare tra pensieri affini. Non rinuncio a nessuna delle puntuali osservazioni e constatazioni di carattere storico di Pascale e Lo Scalzo. Ma voglio offrirvi un contributo più terracqueo. E' vero, alla fin fine la nostra italicità è ancora schiava di un antico retaggio: è soggiogata dalle piccole comode "garanzie feudali" e dai grandi scomodi timori dello "straniero". Mi pare superfluo trovare i rispettivi identificativi nella realtà attuale... Che fare? Tenerci il DNAseviziato e rassegnarci al perenne status di inerti? Oppure lavorare per scardinare un meccanismo che da dopo Augusto ad oggi ci ha fatto dimenticare che il coraggio è una virtù?
Diciamocelo, ci vuole coraggio a far decollare il progetto delle Fattorie sociali quando la tecnoindustrializzazione scalcia per difendere i propri imperi; e ci vuole coraggio a spingere sul mercato nuovi materiali quando, per esempio, c'è un parco di interessi che affila le armi ogni giorno pronto a vendicare la presunta morte del cemento... Quindi, quale potrà e dovrà essere il motivo "legante" capace di tradurre la logica dei campanili in virtù europeista? Ma soprattutto, quale modello fedele alle caratteristiche di una popolazione sarà in grado di tessere un'economia stabile capace di valorizzare il borgo, la sua terra e il suo territorio in chiave internazionale? A ben guardare è quello che gli italici di ogni borgo hanno sempre fatto, più o meno bene, vantando il proprio orto, ma senza il collante capace di renderlo stabile, non permanente, stabile! E forse qualcuno scoprirà che l'inerzia può tramutarsi in ricchezza. Ci mancano gli Statisti lungimiranti capaci di razionalizzare le opportunità: quegli uomini coraggiosi capaci di trasmettere coraggio, quelli che sappiano badare alla zappa del borghigiano e alla cassaforte della BCE, passando attraverso la competenza dell'universitario e non. Dobbiamo trovare e/o formare persone che distinguano i valori evidenziati da Fontana e sappiano metterli al posto giusto. Cominciamo con il raccogliere gli esempi positivi, mettiamoli insieme e forse, per inerzia (?), salterà fuori qualcosa di buono. Un buono che c'è già, ma non tutti lo vedono o vogliono vederlo!

Alfonso Pascale
Alfonso Pascale
06 novembre 2011 ore 19:32

Aggiungo alle considerazioni di Enzo, che condivido, una citazione presa dal testamento di Augusto: "Giurò sulle mie parole tutta l'Italia". Nel 32 a.C. ci fu, infatti, un plebiscito che assicurò all'imperatore romano il consenso di tutti i popoli italici. Con tale atto ad essi viene sancita anche la loro individualità. Il principio istitutivo dell'unificazione augustea, insieme al riconoscimento dei popoli protagonisti, può dirsi fin d'allora acquisito, e resterà come una costante nel corso della nostra storia. Il riconoscimento dei numerosi popoli avviene - come ha giustamente sottolineato il grande storico dell'Italia antica, Sabatino Moscati - non solo per la loro identità culturale ma anche per la loro memoria storica.
A connotare l'italicità di cui parla Francioso, più che i "castra" sono i "campanili", come annota anche Enzo. E questo avviene perché, fin dall'Alto Medioevo, assurgono a centri di popolamento e di riorganizzazione dei paesaggi agro-pastorali i borghi inerpicati su per le più erte pendici, e appollaiati fin sui cocuzzoli montani.
Ma questa forma d'insediamento era stata quella prevalente fra molti popoli italici, in età anteriore alla conquista romana. Quando questa forma si ripristina per motivi di sicurezza, a seguito delle invasioni barbariche, essa si perpetua per quella "legge d'inerzia" del paesaggio agrario, che Emilio Sereni descrive mirabilmente nella sua opera ad esso dedicato: "Anche quando siano scomparsi i rapporti tecnici, produttivi e sociali che ne han condizionato l'origine, le forme del paesaggio restano immutate finché nuovi e più decisivi sviluppi di tali rapporti non vengano a sconvolgerle". Una "legge d'inerzia" del solo paesaggio agrario o ancor più delle comunità borghigiane da caratterizzare ancora oggi la nostra cultura?

Vincenzo Lo Scalzo
Vincenzo Lo Scalzo
06 novembre 2011 ore 11:29

Ho riletto con interesse ed ho colto i "connotati dell'italicità" di Francioso che caratterizzano discendenti ed abitanti della nostra penisola. La definizione mi richiama ad una identità plurisecolare rimasta "originale" e conservata anche nella complessa struttura consolidata nella "chiesa" cattolica. Nella comunità dei "campanili" di una parte dell'Italia del nord era stata definita anche come "ambrosiana", per il suo carattere locale e della sua storia commista con radici europee celtiche . Un comune denominatore che caratterizza discendenti ed abitanti di un territorio iniziale più o meno coincidente in quello che dal "castrum" si identificò nel "campanile" più che nelle "torri" e s'irradiò nei territori circostanti adattandosi alle susseguenti evoluzioni socio-politiche senza perdere di vista la sua caratteristica originaria di indipendente distinzione. Si conservano ancora oggi forti radici di "ambrosianità" e la figura del personaggio storico, che se ne prese cura venuto da lontano è rimasta aderente alla sua "identità" personale da oltre 1500 anni.
Non sono sicuro di poterle mettere in stretta correlazione, ma stimoli credibili e amore per corpo e spirito sono partiti e si sono diffusi dalla simbiosi di territorio-uomo-usi-rispetto, favorite alla loro nascita dalla lungimiranza del potere centrale senza eccedere in "dominanze affamate di potere" in ogni territorio vinto ma rispettato come "amico". .
La sequenza dei passaggi storici che ne hanno lasciato tracce profonde fa fede. Dopo i longobardi, uno degli ultimi esempi, come ricordq Francioso, è stato l'amico Spinelli. I suoi concetti hanno animato l'amore per un'Europa "federabile", poeticamente ma anche politicamente idealizzata con capacità di esistere: ideale soverchiato ma non sostituito dall'Europa odierna, quella che stenta a riconoscere le proprie radici quasi a vergogna di se stessa ma che ha segni di un'anima in cerca di spazio.
Mi associo all'auspicio per un "progetto di benessere associato su una nuova coscienza di appartenenza, che non si vergogni ma si vanti della propria storia di genti, territorio, nicchia, campanile, agorà. Si, è era ora di dare un nome di sintesi capace di accogliere questa ideale caratteristica: "italicità" rappresenta il "concept" per ciascuno delle decine di migliaia di "campanili" e agorà della penisola e delle sue isole.
Mi piace!

Alfonso Pascale
Alfonso Pascale
06 novembre 2011 ore 00:50

Ringrazio Emilio Francioso ed Enzo Lo Scalzo per i commenti.
Potremo meglio operare nella dimensione globale mettendo a frutto la nostra "italicità". Condivido pienamente questo concetto messo bene a fuoco da Francioso.

EMILIO FRANCIOSO
EMILIO FRANCIOSO
05 novembre 2011 ore 09:57

Il senso dell'appartenenza della nostra popolazione ha i connotati di una italicità più che di una italianità. Abbiamo percorso secoli "salvandoci" dalle invasioni/invadenze maturando il concetto, tribale, di "famiglia" ed ancorandoci a quello riempendolo di significati. Non è un caso che tra gli "italiani" non sia maturo e metabolizzato il concetto allargato di "comunità", e lo si interpreta in maniera ristretta o romantica. Quindi, non si può far altro che apprezzare e condividere la riflessione di Alfonso Pascale per spingersi proattivamente verso una visione europeista ed oltre. Un'Europa, non dimentichiamolo, "sognata" da ispirazioni intellettuali italiche, che, dopo Spinelli, non ha visto grandi veri interpreti italiani.
E nel vivere la dimensione internazionale noi italici dimostriamo di saper offrire un immenso contenuto di idee, ma abbiamo bisogno della concretezza altrui, dell'esempio straniero. Inventori, musici, navigatori, poeti... L'Italia degli italiani si è fermata a stereotipi ingessati che ancora aleggiano nel vissuto collettivo, mentre l'Italia degli italici ha bisogno - come sottolinea Pascale - di un contributo di esempi che stanno nella storia delle nostre tradizioni, nella capacità di interpretare creativamente il fare campanile per campanile. In fondo la nostra identità è "borgatara": è residente nei borghi che amiamo, nelle tipicità che sappiamo esprimere in ogni mestiere con passione e professionalità, anche nella cultura della mediazione (anche questa è un'arte appresa dai sofisti e perfezionata nei secoli con maestria dalle popolazioni italiche) utile a tenere insieme il villaggio globale. Sta a dire che ogni piccola "repubblica" del territorio italiano (marinara e non) ora deve lavorare responsabilmente a costruire un progetto di benessere fondato su una nuova coscienza di appartenenza, e se ciò non fosse avremo nuovi invasori che ce lo imporranno. Impareremo dalla storia?
Emilio Francioso

Vincenzo Lo Scalzo
Vincenzo Lo Scalzo
24 settembre 2011 ore 12:10

Si, sono ottimista di natura. La road map è complessa e distratta da "speculations" pervase da interessi troppo partigiani che dominano quasi tutta la comunicazione e hanno mortificato la libertà culturale dei campanili, rimasta alla merce delle correnti di migrazione e delle feste che potrebbero mantenere viva l'identità rispettosa - come avvenuto storicamente - delle libertà altrui.
Grazie Alfonso, comprendo la tua domanda. La risposta o l'augurio è di mantenere viva la coscienza di chi siamo e del rapporto stabilito tra uomo e territorio, per ogni territorio se fosse mantenuto con un PROPRIA coscienza responsabile dalla comunità autoctona, e per ogni COMUNITA' qualora si fosse differenziata o si differenziasse motivata dalle proprie radici. D'altro canto la prima manifestazione coerente si lascia osservare attraverso i modelli di alimentazione. La tendenza può essere benevolmente sintetizzata nella sintesi di Galli della Loggia e mantenuta attivamente vivace tenendo conto dell'identità prospettata da Schiavone. Senza dovere di collisione, ma di rapporto empatico, per mantenere vivace sempre il dialogo e la cpmunicazione.
Purtroppo la società sarebbe pronta, le strutture politiche "dominanti" molto meno!

Enzo