Articoli 09/07/2011

Non comunichi? Non andrai da nessuna parte

Non comunichi? Non andrai da nessuna parte

Anche se hanno ridotto i budget in comunicazione, le grandi imprese dell’agro alimentare continuano a investire. Tagliata la pubblicità tradizionale, si insiste su relazioni pubbliche e attività online. Se piccole e medie imprese soffrono, le Istituzioni – sostiene Giancarlo Panico, vicepresidente Ferpi – mancano di un progetto serio e sistematico di sostegno a made in Italy, filiere, consorzi e internazionalizzazione


Non perdete assolutamente questa intervista. Con Giancarlo Panico, vicepresidente della Federazione delle Relazioni Pubbliche Italiana, prosegue la nostra inchiesta sullo stato della comunicazione del settore agro-alimentare nel nostro Paese. Serve per fare il punto della situazione. Le affermazioni di Panico sono molto importanti e chiarificatrici. Ci aprono alle problematiche vissute dalle aziende in questo periodo di grande crisi economica. Rinunciare a comunicare non sta bene, soprattutto nell'attuale processo di inarestabile globalizzazione dei mercati. Non basta la qualità delle produzioni, occorre saperla comunicare bene e in maniera efficace. E' ciò che non riescono a fare le Istituzioni. C'è seriamente da riflettere, eppure sul tema che stiamo proponendo in queste ultime settimane c'è come una forma di silenzio, quasi un'incapacità o volontà di riflettere. Si legge e basta. Non si interviene, non si pongono quesiti, come se non ci fossero dubbi su una tematica così centrale. Ne è prova l'assenza di commenti nelle puntate finora pubblicate. Segno che c'è un atteggiamento di scarso interesse, quasi che la comunicazione sia da destinare solo all'improvvisazione; e in effetti i risultati sul campo, spesso fallimentari, si vedono molto chiaramente. E voi? Cosa ne pensate? Nulla da chiedere?

Chi è Giancarlo Panico? Consulente di comunicazione, è senior partner dell’agenzia Npr Relazioni pubbliche.

Ha lavorato per grandi imprese, enti pubblici, organizzazioni sociali, svolgendo incarichi nello sviluppo di strategie di mercato, nella comunicazione, nella produzione e gestione di contenuti, nel marketing e nell’alta formazione.

Tra le esperienze di successo, fino alla primavera del 2011 – con Tommaso Niccoli e Marinella Protopisani – ha seguito la comunicazione istituzionale degli Oleifici Mataluni e quella di prodotto dei marchi Olio Dante, Topazio, Oio, sviluppato il progetto di riposizionamento sul mercato italiano e lavorando al progetto 100% italiano.

Ha 39 anni ed è laureato in chimica-fisica. Ha iniziato da giovanissimo come giornalista, lavorando per diversi anni anche al “Mattino” di Napoli; poi è passato agli uffici stampa politico-istituzionali e al marketing territoriale per approdare infine alla comunicazione d’impresa.

Docente a contratto presso il Master in Relazioni Pubbliche/Management della Comunicazione dell’Università degli Studi di Salerno, insegna presso università e corsi di alta formazione. E’ docente della Business School del Sole 24 Ore. Dal giugno 2011 è vice presidente Ferpi, la Federazione delle Relazioni Pubbliche Italiana, e sempre per Ferpi è responsabile del sito www.ferpi.it e direttore del magazine “Relazioni pubbliche”.

 

In momenti di grande crisi economica come quelli attuali, cosa sta accadendo sul fronte della comunicazione agroalimentare in Italia?

Il settore agroalimentare, uno degli asset economici principali del nostro Paese che rappresenta, tra l’altro, la prima voce dell’export, è quello che fa registrare i maggiori investimenti in comunicazione: dalla pubblicità alle relazioni pubbliche. Nonostante la contrazione generale degli investimenti, confermata anche dai dati Nielsen del primo semestre 2011 e da quelli Assorel del 2010, la comunicazione delle aziende agroalimentari tiene. Gli investimenti in Relazioni pubbliche sono gli unici assieme a quelli nel digitale che hanno fatto registrare un segno positivo.

Sul fronte più tecnico-professionale, invece, le imprese del settore agroalimentare e vitivinicolo, ma anche quelle del settore oleario, che ho studiato a fondo negli ultimi anni, sono da sempre innovative. Nella continua ricerca di una relazione efficace con i principali stakeholder: dal cliente, il consumatore, ai fornitori, ai buyer, le aziende del settore, dalle più grandi e note a quelle più piccole rappresentano un laboratorio interessante sul fronte delle comunicazione. Sono state le prime a credere e investire nel web, le prime a sperimentare applicazioni per smartphone e tablet, a investire nel 2.0. Se oggi quello agroalimentare dal punto di vista della comunicazione è un settore vivace e dinamico, è anche grazie a tante imprese che hanno creduto e sostenuto l’innovazione: penso ai tanti blog che raccontano quotidianamente il mondo alimentare, alle sezioni dedicate dei portali, alle tante riviste tematiche, agli open day, agli eventi aziendali. Senza dimenticare le campagne pubblicitarie e di comunicazione, le iniziative di marketing e nei punti vendita, gli eventi.

Il problema è sul fronte istituzionale. C’è una forte spaccatura tra le istituzioni che dovrebbero sostenere il sistema, non solo economicamente, e le imprese. Manca un progetto serio e sistematico di sostegno al made in Italy, alle filiere, ai consorzi, all’internazionalizzazione. Senza polemica anche le associazioni confindustriali di categoria fanno poco e non favoriscono il dialogo con le istituzioni.

 

Come stanno reagendo le aziende, e come invece le Istituzioni? Stanno riducendo sensibilmente i budget, oppure cercano di resistere perché ritengono che sia fondamentale e necessario proprio in tempi di magra continuare a investire in comunicazione?

La situazione non è omogenea. Le grandi imprese del settore anche se hanno ridotto i budget in comunicazione continuano ad investire: hanno tagliato sulla pubblicità tradizionale ma mantenuto o aumentando quelli in relazioni pubbliche e in attività online, si fanno meno eventi ma più sponsorizzazioni. Le piccole e alcune medie imprese, soprattutto quelle con marchi destinati al largo consumo, invece, hanno subito notevolmente la crisi tagliando anche quei pochi investimenti in comunicazione. Le istituzioni, soprattutto quelle impegnate nel marketing territoriale o in quello dei prodotti del territorio quasi completamente assenti su questo fronte, continuano ad essere l’anello debole della catena. Mentre dovrebbero assumersi la regia, il coordinamento di iniziative di promozione delle filiere dei territori e sostenere l’internazionalizzazione. Per quanto riguarda le piccole imprese, anima e ossatura del sistema economico del nostro Paese, da qualche mese sto cercando di portare avanti con alcune Banche l’idea di un credito al consumo per la comunicazione. Così come si finanziano impianti e acquisto delle materie prime e più recentemente anche la formazione bisognerebbe sostenere le imprese anche nella comunicazione.

La comunicazione è divenuto un elemento strategico della governance, al pari di altre funzioni aziendali. Senza comunicazione non si va da nessuna parte è divenuto il driver principale della globalizzazione.

 

Tra i vari settori merceologici, sempre in ambito agroalimentare, qual è l’ambito più sensibile e ricettivo alla comunicazione?

Non c’è, a mio avviso, un settore più sensibile di un altro. La sensibilità, generalmente, è indotta dal mercato: più il segmento di mercato è competitivo più obbliga a investimenti, generalmente proporzionati alle proprie possibilità. La competizione, anche sul territorio e nel circuito traditional care, è dettata anche dagli investimenti che fanno le aziende con marchi destinati alla Grande Distribuzione. Ad esempio, se vendo il mio olio su un mercato locale non posso non fare i conti con le campagne e le promozioni di un grande marchio. Dovrò in qualche modo far conoscere ai consumatori e promuovere il mio prodotto: non posso fare a meno di un po’ di comunicazione. Preferibilmente attività di relazioni pubbliche piuttosto che campagne pubblicitarie in cui non potrò competere con il grande marchio: sponsorizzazioni di eventi locali, degustazioni, presenza ragionata sui media, iniziative presso i punti vendita. Per quanto riguarda i settori merceologici, invece, le acque minerali e le bibite continuano ad essere top spender, seguite dai prodotti da forno (merendine, biscotti, dolci), dalla pasta e dai surgelati. L’olio è un settore particolare. Fino a un paio di anni fa, prima del ritorno sul mercato italiano di Olio Dante, solo Monini faceva investimenti sistematici. Con il rilancio di Olio Dante abbiamo ravvivato un mercato dormiente e abbastanza anaelastico. Le istituzioni in questo settore hanno registrato un forte fallimento. Il progetto 100% italiano e la normativa sull’etichettatura potevano rappresentare, soprattutto per i mercati esteri, una grande opportunità che finora non è stata colta. Così com’è successo per il pomodoro, in cui Cina e California hanno superato l’Italia (dati Anicav 2011) e oggi Pancrazio, presidente degli industriali conservieri lancia l’appello per una campagna di promozione del made in Italy, il nostro Paese – come ha denunciato più volte Teatro Naturale – è stato superato da Spagna e produttori emergenti paradossale per un prodotto rappresentativo come l’olio extra vergine in un periodo in cui c’è una campagna internazionale contro i grassi animali e la Dieta Mediterranea viene riconosciuta patrimonio dell’Umanità.

 

Qual è la soglia di investimento media da parte delle aziende? E quale, invece, quella delle Istituzioni?

Una piccola impresa si mantiene su cifre abbastanza contenute, investendo, a seconda dei casi e dell’area geografica da un minimo di 20-30 mila euro per attività di relazioni con i media (leggi ufficio stampa), quella ancora prevalente tra le attività di comunicazione, a cifre complessive di 50 mila euro comprensive di eventi, iniziative verso i punti vendita, piccole campagne pubblicitarie sui media di settore. Le medie imprese e alcune più grandi investono in attività di consulenza tra i 50 e i 100 mila euro. Qui parliamo di investimenti in consulenze, relazioni pubbliche e iniziative speciali. Poi ci sono gli investimenti in pubblicità, appannaggio soprattutto dei marchi destinati alla Gdo, che richiedono ben altre cifre. Con la mia agenzia, la Npr, abbiamo messo a punto un progetto integrato che consente a imprese che hanno a disposizione anche budget limitati di sviluppare progetti di comunicazione integrata che producono risultati interessanti e, comunque, sempre misurabili.

 

Al di là delle cifre investite, in ambito istituzionale quali sono le realtà più sensibili e attente? I piccoli o i grandi comuni, le province o le regioni?

Non è una questione di attenzione ma di risorse economiche e cultura della comunicazione. Le Regioni, il più delle volte attraverso gli assessorati all’agricoltura, investono grandi cifre in inutili campagne pubblicitarie dei prodotti regionali. Qualche risultato si ottiene sempre ma la pubblicità è fine a se stessa se non accompagnata da azioni mirate di relazioni pubbliche, promozione e marketing verso i mercati di riferimento, non solo esteri. Le province, tranne qualche caso, sono completamente assenti. A mio avviso sono anche gli enti meno indicati per operazioni del genere. I grandi comuni, anche quelli a vocazione prevalentemente agroalimentare o vitivinicola sono spesso impreparati a gestire comunicazione dei prodotti del territorio e delle filiere.

I piccoli comuni, le comunità montane o aziende pubbliche hanno consapevolezza del ruolo strategico della comunicazione ma non hanno le risorse da destinare. In questi casi è indicato puntare a progetti che coinvolgano i diversi attori di filiera con piccoli contributi economici e lavorare su piani di comunicazione integrata di promozione.

 

Infine, i consorzi di tutela, riferiti ai prodotti a marchio Dop e Igp: quanto investono in comunicazione, e in che modo investono? Ma soprattutto: investono bene?

Al di là di alcuni casi esemplari, best practices che hanno fatto storia, come il consorzio Melinda, quello del Prosciutto di San Daniele o del Parmigiano Regiano, la gran parte dei consorzi non hanno la cultura della comunicazione e investono poco o niente. Più di recente un buon lavoro lo sta facendo il Consorzio della Mozzarella di Bufala Campana ma ci è voluta la scossa della brucellosi di qualche anno fa per “costringere” a sviluppare un piano strategico e investire sistematicamente in comunicazione. Ma c’è ancora molto da fare. I consorzi, sono a mio avviso, i soggetti più adatti ad investire in progetti di comunicazione di prodotto e di filiera e possono raggiungere risultati importanti.

 

di Luigi Caricato

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Commenti 1

Vincenzo Lo Scalzo
Vincenzo Lo Scalzo
09 luglio 2011 ore 13:34

Ciao Luigi, mi fa compagnia TN tra un round e l'altro della mia -spero ancora breve - PERMANENZA IN MANUTENZIONE fisica!
Questa tua serie d'interviste e l'allarme che lanci purtroppo è un segnale di estrema debolezza della squadra Italia, in quasi tutti i versanti. Picchi elevati, ma media bassa. Penso che lo scossone debba partire dalla base, poiché i vertici (politici, sociologi, amministratori, presidenti per "amicizia") latitano soverchiati da una dinamica di spensieratezza...
Lo stesso avviene nella tematica della somministrazione alimentare (ristorazione che resta nemica delle federazioni alberghiere, che è preoccupata dall'imperversare del cibo in ogni bottega o caffè) che non trova un riferimento istituzionale che non sia stato coinvolto in operazioni di carattere "speculativo" di lobby...
Chi può stimolare le reazioni, il dibattito? I tentativi che fai sono encomiabili, TN è un periodico di grande riferimento per i temi specifici per la filiera delle olive oltre che per tutta l'agricoltura..., ma la partecipazione al dibattito manca. Che manchi il coraggio di scrivere e di firmare? Che si scontino gli effetti della presunta caduta di professionalità post '68? Eppure le generazioni giovani, anche giovanissime, sono preparate: manca l'abitudine alla riflessione, l'abitudine alla comunicazione.
Chiudo per esprimerti l'aderenza alle stesse convinzioni del tuo intervistato. Avrei, sui temi che conosco, seguito la stessa road map strategica. I giovanissimi che scrivono prendano esempio. Occorre un salto culturale collettivo.

Enzo