Articoli 23/04/2011

Il volto sano dell’agricoltura ha un’anima sociale

Il volto sano dell’agricoltura ha un’anima sociale

Siamo tutti chiamati a una svolta. Non si può restare per sempre prigionieri dell’egoismo. Ci sono persone capaci di legami solidi, unite dal senso di responsabilità verso il bene comune, ma anche dalla gratuità e libertà nel proprio agire quotidiano. In dialogo con Alfonso Pascale, presidente della Rete delle Fattorie Sociali


I lettori di Teatro Naturale conoscono molto bene Alfonso Pascale. Quando pubblichiamo i suoi articoli il nostro settimanale si impreziosisce notevolmente e volta alto. Da grande estimatore quale sono, ritengo che il suo impegno per un’agricoltura diversa, e profondamente orientata all’etica, rappresenti una significativa sfida all’attuale degrado che sta attraversando – direi anche in modo devastante – l’intero mondo agricolo.

Questa settimana ho voluto sollecitarlo su un tema a lui molto caro: l’agricoltura sociale. Ma non con un articolo, con un’intervista. Perché in tal modo emerga con maggiore evidenza l’importante ruolo che esercita in qualità di presidente della Rete delle Fattorie sociali.

Pascale è tra gli intellettuali più lucidi, seri e coerenti che io abbia mai conosciuto. Per questo invito ciascun lettore a leggere con attenzione quanto riferisce in merito a un tema che dovrà prima o poi essere percepito non più periferico ma centrale e determinante.

 

INTERVISTA AD ALFONSO PASCALE

 


L’agricoltura sociale rappresenta ormai una realtà che si sta iniziando lentamente a conoscere e a farsi largo. Non è ancora del tutto nota al grande pubblico, ma ci siamo quasi. In che misura possiamo essere ottimisti per il futuro?

L’attenzione nei confronti dell’agricoltura sociale e delle sue potenzialità crescerà man mano che aumenterà l’insoddisfazione verso i servizi alla persona così come sono organizzati attualmente. Viviamo in un tempo in cui sono profondamente in crisi i sistemi di welfare non solo perché si vanno progressivamente riducendo le risorse finanziarie pubbliche destinate ai servizi sociali, ma soprattutto perché senza un ripensamento organizzativo di tali servizi è difficile dare risposte personalizzate a bisogni nuovi di una società, la cui aspettativa di vita tende ad allungarsi.
In tale contesto, l’agricoltura si presenta come una grande opportunità poiché può mettere in gioco, all’interno delle reti locali di protezione sociale, risorse inusuali, come quelle ambientali e produttive, e legami comunitari fondati sulla reciprocità, che consentono di diversificare i servizi alla persona e di favorire percorsi efficaci di inclusione socio-lavorativa per un numero più ampio di individui.
In una società che ci vede sempre più dipendere gli uni dagli altri a causa dei nostri diffusi e variegati disagi e bisogni, la centralità della cultura del cibo nella nostra vita, la dimensione multifunzionale dell’agricoltura, le nuove forme dell’abitare e il riscoprire il senso del paesaggio possono concorrere a farci scegliere più liberamente, come individui, le modalità per organizzare la nostra interdipendenza reciproca all’interno delle comunità e conseguire meglio il nostro benessere psico-fisico. Si tratta di processi che già avvengono spontaneamente in diverse realtà e che dobbiamo solo saper leggere e accompagnare.

 

Se dovessimo in qualche modo chiarire, a chi ne ignora l’esistenza, cosa sia l’agricoltura sociale, con che parole possiamo presentarla?

E’ l’insieme di pratiche in cui le comunità locali si fanno carico del disagio sociale e realizzano percorsi di promozione umana e di giustizia sociale mediante il contatto con le piante e gli animali, l’utilizzo dei processi agricoli, i legami informali tra gli individui propri dei contesti rurali e la costruzione partecipata dei paesaggi come luoghi dell’identità, dell’abitabilità e dell’operosità creativa.
Chi ha la fortuna di visitare una fattoria sociale percepisce immediatamente che le persone coinvolte, sia quelle con svantaggi o disagi che le altre, sono legate tra di loro e con il territorio dal senso di responsabilità verso il bene comune, dalla gratuità e libertà nel proprio agire quotidiano e dalla reciprocità dei vantaggi e delle opportunità. E’ la presenza di queste virtù civiche a garantire il successo di tali esperienze e la stessa sostenibilità economica delle attività produttive che vengono svolte.

 

Quali sono le regioni più sensibili alle esperienze di agricoltura sociale?

Finora le istituzioni regionali che hanno mostrato maggiore sensibilità verso l’agricoltura sociale con azioni formative e di animazione territoriale sono state la Toscana, il Lazio, il Friuli Venezia Giulia e la Basilicata.

 

C’è una maggiore risposta e adesione al Sud o al Nord?

Le pratiche di agricoltura sociale sono diffuse in tutte le diverse aree del Paese.

 

Esistono finanziamenti a sostegno delle fattorie sociali, o le iniziative esistenti sono soltanto il frutto di puro volontariato?

Quasi tutti i programmi regionali di sviluppo rurale hanno previsto azioni di sostegno agli investimenti per creare fattorie sociali, ma ancora mancano linee dedicate di finanziamento, per le attività che in esse si svolgono, nell’ambito delle politiche sociali e socio-sanitarie. Pertanto, molte iniziative sono frutto dell’impegno gratuito di imprenditori e operatori.
Tuttavia, le iniziative di agricoltura sociale non hanno bisogno solo di aiuti finanziari specifici. Manca soprattutto un’azione di accompagnamento da parte di pubbliche amministrazioni capaci di far interagire politiche diverse: agricola, sociale, sanitaria e quella del lavoro e della formazione.
E’ necessario, in altre parole, sostenere percorsi partecipativi per fare in modo che le strutture pubbliche (servizi sociali dei comuni, SERT, dipartimenti di salute mentale, scuole, centri per l’impiego, amministrazione penitenziaria, ecc.) e del privato sociale (cooperative, fondazioni, associazioni di familiari di persone disabili, ecc.) possano collaborare con le aziende agricole. Inoltre, andrebbero resi disponibili terreni di proprietà pubblica per insediare nuove iniziative e assicurati criteri di priorità ai prodotti dell’agricoltura sociale quando gli enti pubblici emanano i bandi per rifornire le mense collettive.

 

Sei presidente della Rete delle Fattorie Sociali. Quando si è costituita questa Rete e in che modo opera e agisce?

La Rete è un’Associazione costituita nel 2005 e opera su tutto il territorio nazionale mediante coordinamenti regionali e locali. Ad essa aderiscono soggetti molto diversi tra loro: le persone con svantaggi o disagi direttamente o attraverso le associazioni dei familiari, gli agricoltori, gli operatori sociali, i professionisti con diverse competenze, le organizzazioni, gli enti, le fondazioni. La sua attività prevalente è quella di favorire la collaborazione tra strutture agricole, soggetti del terzo settore e istituzioni pubbliche per costruire reti locali di economia solidale e nuove forme di welfare fondate sulla reciprocità dei rapporti tra città e campagne. Gestisce uno sportello on line (fattoriesociali.com) per fornire informazioni e consulenze nella progettazione e collabora con altre organizzazioni che operano nell’agricoltura sociale a livello nazionale ed europeo.

 

Una domanda mi sembra doverosa, per concludere. L’agricoltura in quanto tale è di per sé marginale, sia nell’economia, sia nella società: infatti in pochi la prendono in seria considerazione, la stessa classe intellettuale la snobba o quantomeno, quando se ne occupa, lo fa in chiave bucolica, più come fosse un passatempo o una distrazione. A questo punto ti chiedo, se l’agricoltura conta così poco, l’agricoltura sociale quanto conta?

In una società come la nostra, fondata sul modello contrattualistico, ha peso la forza numerica, organizzativa ed economica che si è in grado di far valere nelle sedi dove si negoziano i diversi interessi. Ed è questa la ragione principale per la quale l’agricoltura, intesa come aggregato merceologico di imprese e di addetti, conta poco. Questo modello ha, tuttavia, dimostrato da tempo la sua inadeguatezza a garantire la giustizia sociale perché in esso i soggetti, i settori e le aree territoriali più fragili non hanno la possibilità di far valere le proprie ragioni e contrattare i propri interessi. Nel modello contrattualistico, ai soggetti più deboli si elargiscono le briciole che i più forti lasciano alla fine dei loro banchetti.
Ha, dunque, poco senso ritenere di contare di più innalzando frontiere, rivendicando autonomie, difendendo rendite di posizione che cozzano con l’interesse collettivo o aggregando corporazioni e specialismi. Bisogna, invece, agire sulle collaborazioni e sulle interdipendenze, accrescendo la libertà dei diversi soggetti di decidere in modo flessibile le modalità con cui si instaurano le reciproche dipendenze e facendo emergere nuove convenienze, vantaggi e opportunità.
Le grandi contraddizioni che tengono insieme liberalizzazione dei mercati, crisi alimentare, fallimento dei sistemi di welfare, innovazione tecnologica, questione energetica, cambiamenti climatici, movimenti demografici, fattori identitari, fanno emergere una nuova centralità dell'agricoltura come questione non più solo settoriale, ma attinente all'insieme dei cittadini, i quali vogliono su tale tema essere protagonisti nelle decisioni e nei percorsi di sviluppo. La cultura prevalente in Italia non riesce a cogliere tale complessità e ad assegnare all’agricoltura la centralità che merita. Ma il ritardo dipende dal fatto che anche tra gli intellettuali prevalgono gli specialismi e i saperi frammentati e nostalgici e non, invece, la curiosità di conoscere le opportunità e possibilità del nostro tempo con tutti i rischi connessi e di saper fare un buon uso del mondo.

 

di Luigi Caricato

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