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UN FUTURO FERTILE: LE PAROLE D'ORDINE SONO INNOVAZIONE E EXPORT

L’agricoltura italiana ha in sé un solido nucleo vitale di imprenditoria portatrice di una moderna cultura del fare azienda, non limitandosi a difendersi dalla concorrenza ma puntando sul miglioramento qualitativo oppure selezionando una particolare nicchia di mercato

10 marzo 2007 | Maria Carla Squeo

L’agricoltura italiana ha in sé un solido nucleo vitale di imprenditoria portatrice di una moderna cultura del fare azienda, una cultura che si declina in aspetti multiformi: nel giusto mix tra gestione del potere e delega, nella valorizzazione del capitale umano, nella sperimentazione di strategie di mercato proattive, nell’attivazione di un percorso di innovazione finalizzata al miglioramento del posizionamento di mercato, nell’organizzazione di un processo di internazionalizzazione sempre più articolato, nella partecipazione a network di collaborazione in cui vi è piena condivisione del know-how.

E’ quanto emerge dallo studio “Futuro Fertile”, del Censis-Confagricoltura, che verrà integralmente presentato al Forum di Confagricoltura a Taormina dal 22 al 24 marzo 2007.

Dal campione analizzato emerge una spiccata propensione dei titolari a ragionare secondo una logica di tipo imprenditoriale, prima che familiare. Le decisioni vengono adottate attraverso modalità condivise, possibilmente con l’ausilio di professionisti e figure manageriali. Particolarmente interessanti sono i casi in cui la partecipazione alla leadership diventa il momento attraverso il quale coinvolgere i figli nell’attività imprenditoriale. L’azienda che cresce non si defamiliarizza, anzi, maggiore è la sua dimensione economica, superiori sono le probabilità che figli e parenti decidano di farvi parte.

Gli aspetti che gli intervistati percepiscono come veramente problematici non sono mai quelli che dipendono dalle loro capacità e abilità manageriali. In effetti, appena il 17% del campione considera, ad esempio, l’innovazione di prodotto come un fattore difficile da gestire, così come solo il 14% ritiene di avere delle difficoltà nel processo di miglioramento delle tecniche colturali. Perfino un momento particolarmente delicato come quello della definizione di strategie di distribuzione e commercializzazione dei prodotti rappresenta una seria difficoltà per poco più di un terzo degli imprenditori. I problemi reali del settore agricolo esulano dalla capacità di fare impresa del singolo, ma hanno nomi quali “burocrazia” o “prezzo dei fattori produttivi” (in particolare energia e combustibili), oltre ai due connessi aspetti del costo del lavoro e del reperimento di manodopera qualificata.

Quasi l’80% del campione adotta una strategia proattiva, non limitata a difendersi dalla concorrenza o a prendere giorno per giorno le decisioni apparentemente più convenienti, ma puntando sul miglioramento qualitativo oppure selezionando una particolare nicchia di riferimento. Un quinto delle aziende è poi andato al di là della fase produttiva, optando per una vera e propria strategia espansiva incentrata su significativi investimenti in pubblicità che hanno permesso di instaurare un rapporto di comunicazione diretta con i clienti.

Osservando le strategie messe in atto per accedere ai mercati di riferimento, è possibile notare che la commercializzazione tramite marchio aziendale o di origine è la modalità prevalente, adottata dal 50% delle aziende analizzate. Al secondo posto vi è invece la cessione del prodotto a cooperative, consorzi grossisti o centri di raccolta: soluzione cui ricorre il 45% degli imprenditori. Anche la vendita diretta al consumatore è un’attività piuttosto diffusa, che riguarda il 31% degli intervistati. Meno frequente è invece l’accesso al mercato senza marchio, adottato nel 17% dei casi.

Il 27,5% delle aziende analizzate attraverso l’indagine opera sui mercati internazionali e ciò rappresenta un risultato di tutto rispetto, rafforzato dall’esistenza di un ulteriore 12% di imprese che dichiara di voler entrare a breve in uno o più mercati esteri.

Esportare è un’operazione complessa, che non può affidarsi esclusivamente alle caratteristiche intrinseche del prodotto, ma deriva da un continuo relazionarsi con le esigenze e i gusti dei mercati di destinazione, di cui l’azienda deve essere in grado di captare le tendenze e le mode ed adeguare di conseguenza la propria offerta, in un’ottica di fidelizzazione della clientela. Si tratta di un investimento notevole che richiede una massa critica adeguata, che spiega perché all’interno di quel 72,5% che attualmente non opera all’estero, vi sia circa un terzo di imprenditori che ritiene insufficienti le dimensioni della propria azienda.

Ben il 95% degli intervistati ha, negli ultimi anni, adeguato macchine e impianti, introdotto nuove tecniche o acquisito nuove tecnologie. Tale quota risulta estremamente ampia a riprova di un campione molto particolare, marcatamente spinto a modernizzare e crescere. Tuttavia simili migliorie non sono di per sé sufficienti se non vengono inserite in una più ampia logica di mercato che porta a far incontrare le esigenze della produzione ed i desideri dei consumatori finali. Tale principio sembra esser stato compreso alla perfezione dalla maggior parte degli imprenditori intervistati, al punto che il 64% afferma di essere riuscito, in seguito all’introduzione di innovazioni, ad ottenere un rafforzamento del legame con la propria clientela. Oltre a soddisfare le aspettative dei consumatori e legarli così al marchio o al prodotto aziendale, l’innovazione market oriented produce ripercussioni positive in termini di gestione economica dell’azienda. Il 56% degli agricoltori ha riscontrato una significativa riduzione dei costi di esercizio e, soprattutto, il 45% ha rilevato un incremento delle vendite ed un conseguente miglioramento in termini di fatturato.

Gli elementi che spingono l’imprenditore ad innovare, valorizzando così al meglio la tradizione che contraddistingue il territorio ed i prodotti italiani, sono molteplici. Far fronte ad una perdita di competitività è la molla scatenante per il 57% degli intervistati; soddisfare le aspettative dei clienti o accogliere i suggerimenti dei fornitori lo è per il 53% (i due elementi spesso vanno di pari passo). Ancora più comune è il confronto con attività imprenditoriali simili, indice dell’elevato grado di apertura delle imprese agricole italiane e della disponibilità ad accogliere le migliori prassi che vanno diffondendosi nel nostro Paese.

Raggiunge l’80%, livello molto elevato, la percentuale di intervistati che dichiarano di aver preso parte ad iniziative volte ad incentivare lo scambio di esperienze e la partecipazione a progetti comuni. Molto diffuse sono sia le collaborazioni orizzontali tra imprese del settore, sia quelle verticali, che coinvolgono soggetti a monte e a valle dell’azienda produttrice.
La maggior parte delle reti ha avuto quale obiettivo lo scambio di informazioni tecniche, rendendo così possibile l’acquisizione di nuove competenze e l’attivazione di processi di innovazione (75%). Le reti appaiono dunque molto aperte e il profilo che ne deriva è quello di un’impresa che oltre a saper cercare nuove strade di crescita mette in comune il proprio know-how.

Tra le imprese dinamiche ed orientate al mercato analizzate attraverso l’indagine, ve ne sono alcune che stanno vivendo una fase di crescita molto spinta, ma anche altre che sembrano faticare a trovare una propria strada all’efficienza. Al fine di illustrare come strategie diverse portano ad un differente posizionamento competitivo, sono stati individuati quattro diversi profili tipologici di impresa sulla base delle performance economiche ottenute in termini di andamento del fatturato e dell’occupazione, oltre che delle strategie adottate dalle aziende analizzate in questo studio.

Fonte: Confagricoltura

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