Economia

Tempi duri per gli agricoltori. La nuova Pac è una spada di Damocle

L’obiettivo? Conservare la vecchia distribuzione dei fondi e le vecchie posizioni di rendita. L’effetto? Ripiegare gli agricoltori su stessi, affievolire il loro spirito imprenditoriale, dissuaderli dall’accettare la sfida del mercato, fino a non stimolarli ad associarsi

22 settembre 2012 | Alfonso Pascale

Tre aspetti appaiono particolarmente negativi nella proposta di riforma della PAC predisposta dalla Commissione europea e su cui è aperto il confronto.

Il primo è la conferma dei pagamenti diretti al centro della PAC. Per quale obiettivo? Sostegno al reddito o agli investimenti? Pagamento per i beni pubblici o attenuazione degli effetti della volatilità dei prezzi? L’obiettivo pare essere solo quello di conservare la vecchia distribuzione dei fondi e le vecchie posizioni di rendita. L’effetto è quello di ripiegare gli agricoltori su stessi, di affievolire il loro spirito imprenditoriale, di dissuaderli dall’accettare la sfida del mercato e di non stimolarli ad associarsi. Ma la misura presenta anche un’altra grave conseguenza, messa in risalto dalla Corte dei Conti europea: non dà la possibilità di verificarne l’efficienza e l’efficacia; e ciò per il semplice motivo che, in presenza di un obiettivo indefinito, tale verifica è impossibile. Meglio sarebbe, dunque, se si dirottasse parte dei fondi dai pagamenti diretti allo sviluppo rurale.

Il secondo aspetto criticabile è la scelta dell’ettaro come espressione sintetica del diritto al sostegno. Con questo criterio l’Italia è doppiamente penalizzata: si premiano, infatti, le agricolture estensive e quelle che producono meno occupazione e meno valore aggiunto. Consci di questo limite, si vuole correre ai ripari con lo spacchettamento (giovani, greening e zone svantaggiate), ma tale misura suscita molte perplessità perché non si è sicuri che potrà funzionare. E la regionalizzazione appare del tutto irrazionale con la rigidità dello strumento.

Il terzo aspetto del tutto insostenibile è la scelta di porre lo sviluppo rurale ai margini della PAC. S’interrompe, infatti, il graduale spostamento di risorse dal primo al secondo pilastro, che avveniva da quando è stata varata Agenda 2000. Paradossalmente, proprio adesso che i mercati si sono ampliati, rinunciamo all’unica politica che ci può mettere in grado di fronteggiarli. Sicché, anche le grandi sfide (cambiamenti climatici, biodiversità, bioenergia, acqua) passano in secondo piano. Inoltre, si aggiunge al secondo pilastro la gestione del rischio, che dovrebbe più razionalmente stare nel primo.

La riforma della PAC proposta dal Commissario Ciolos è in una condizione di stallo. Ci sono grandi incertezze che dipendono dalle soluzioni che avrà la crisi. E c’è il fondato rischio che tale politica continui ad essere vista dalle istituzioni europee come un vincolo da contenere o una fonte dove attingere le risorse finanziarie necessarie per altre finalità. A Ciolos converrebbe, pertanto, giocare d’anticipo e mettere sul tavolo del negoziato un Piano B, capace di superare le obiezioni di fondo che sono state sollevate da più parti alla sua proposta. E L’Italia farebbe bene a richiederlo.

Ci vorrebbe un primo pilastro che ridimensioni i pagamenti diretti e contenga interventi efficaci per la gestione del rischio, a partire dagli effetti della volatilità dei prezzi.

Poi andrebbe prevista una più forte politica di sviluppo rurale per finanziare progetti territoriali che permettano di introdurre un’innovazione sociale in tre grandi ambiti:

1) la creazione di reti che riguardino sia i prodotti alimentari che i servizi (sociali, culturali, ricreativi, turistici, ecc.) e prevedano supporti agli scambi in una logica di competizione collaborativa tra tutti i soggetti della filiera, includendo anche i consumatori mediante la promozione di gruppi d’acquisto. Tali reti andrebbero finalizzate sia alla creazione di mercati locali differenziati, sia alla nascita di mercati fondati sullo scambio di culture alimentari e che vedano la collaborazione di operatori economici e cittadini di diversi paesi, europei ed emergenti, a partire da quelli che fanno parte dell’area di libero scambio euro-mediterranea;

2) la rivitalizzazione delle aree agricole abbandonate, incominciando da quelle montane, mediante l’insediamento di nostri giovani e di immigrati nei terreni di proprietà pubblica, utilizzando il contratto d’affitto. Ma questa operazione non la deve fare lo Stato perché ha già dato prova di non essere in grado di realizzarla. Lo Stato deve vendere il proprio patrimonio agricolo ai valori di mercato ad una società appositamente costituita, in accordo con regioni e comuni e aperta alla partecipazione del Terzo settore. La costituenda società dovrà pagare il patrimonio finanziandosi sul mercato dei capitali, attraverso l’emissione di titoli garantiti dal valore del patrimonio acquisito. E dovrà gestirlo secondo le finalità e i vincoli previsti dal proprio statuto, compresi quelli di destinazione agricola e di inalienabilità;

3) il riconoscimento delle agricolture urbane e periurbane, ponendole al centro di un’azione di bonifica integrale in chiave moderna. Si tratta di disinquinare le aree agricole e di esaltarne le funzioni di servizio per le città e, nello stesso tempo, di coprire la crosta urbana con orti in serre fotovoltaiche. Il tutto integrando intelligentemente strumenti urbanistici e interventi di sviluppo rurale.

 

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Vincenzo Lo Scalzo

22 settembre 2012 ore 09:36

Caro Alfonso, ho twittato pensando che solo lassù c'è forse qualcuno che guarda e ci pensa, quaggi come vede anche Luigi il deserto resta senza oasi.