L'arca olearia
Olio di oliva italiano in affanno. Al capezzale tutti i protagonisti
L'Italia perde posizioni e quote di mercato all'estero ma anche all'interno dei confini nazionali l'extra vergine soffre. Sono gli italiani a non consumare più l'olio d'oliva. Perse 200 mila tonnellate in dieci anni. I protagonisti cercano una via d'uscita mentre altrove si guarda lontano
17 luglio 2015 | Alberto Grimelli
Due appuntamenti nel corso della settimana a Expo2015 hanno dato il senso della difficoltà e dell'affanno che sta vivendo il mondo dell'olio di oliva italiano.
Dati, numeri ma anche sensazioni e parole. Tutto contribuisce a indicare che siamo in una fase di passaggio cruciale. O si vive o si muore.
L'Italia ha affrontato, lo scorso autunno inverno, la peggiore stagione olearia da decenni ma la spiegazione del declino dell'Italia olivicola, al di là del calo della produzione, sta nel calo dei consumi e dell'export.
Gli italiani amano, evidentemente, sempre meno l'olio d'oliva. Si può dare colpa alla crisi, ai consumi fuori casa, alle nuove mode e tendenze, alla crescita di cucine etniche. Si possono addossare colpe e responsabilità a pioggia. Resta il dato, fornito da Jean Luis Barjol, direttore esecutivo del Coi. Gli italiani consumavano, fino al 2003, circa 800 mila tonnellate di olio di oliva, oggi ne consumano circa 600 mila tonnellate. Un calo repentino e drastico. Vero è che in tutti i paesi produttori si sta assistendo a una contrazione dei consumi ma l'Italia rappresenta un unicum, per intensità.
Prima che venissero presentati questi dati, era lecito chiedersi perchè il Ministero delle politiche agricole sentisse il bisogno di organizzare un convegno, a Expo, su “olio di oliva per una sana alimentazione.” Forse perchè gli italiani hanno perso qualche sana abitudine.
Allo stesso modo l'Italia sta perdendo posizioni anche sullo strategico mercato americano. Gli Stati Uniti sono il mercato di riferimento, consumano 300 mila tonnellate all'anno, quasi tutte importate, e con un trend in crescita. L'Italia arranca, evidentemente incapace di interpretare i nuovi fenomeni in atto, oppure di dar loro una risposta.
Gli Stati Uniti, come si evince dai grafici mostrati da Jean Luis Barjol, sta consumando sempre meno prodotto confezionato e importa sempre più olio sfuso. I volumi di vendita di confezionato italiano negli Usa sono tornati ai livelli del 2006. La Spagna ha abbondantemente surclassato l'Italia per quanto riguarda l'export di olio sfuso.
L'interpretazione data dal direttore esecutivo del Coi è la seguente: “gli americani fanno quello che faceva l'Italia tanti anni fa. Importano olio raffinato, lo miscelano e lo promuovono con nomi di fantasia.”
A onor di cronaca va ricordato che molte aziende italiane di imbottigliamento d'olio d'oliva hanno aperto sedi e società proprio sulla costa est degli Stati Uniti.
In Italia, insomma, cala la produzione di olio d'oliva, dalle fantomatiche 600 mila tonnellate di 15 anni fa fino alle 170 mila di quest'anno. Ma calano anche i consumi nazionali, di 200 mila tonnellate, e l'export, di circa 100 mila tonnellate.
Di questo passo dell'Italia olivicolo-olearia resterà solo il ricordo.
Una consapevolezza ben presente in tutti i protagonisti della filiera che hanno voluto portare la loro testimonianza nel corso del convegno di Unasco sulle prospettive e il futuro dell'olivicoltura italiana.
L'intera dirigenza dell'olio di oliva, rappresentata ai massimi livelli, che si cosparge il capo di cenere. Qualcosa è davvero cambiato.
“Il problema dell'olivicoltura italiana non si risolve con una o due riunioni – ha raccontato Luigi Canino, presidente Unasco – Gli obiettivi che ci siamo dati, anche nell'Interprofessione, non sono stati raggiunti. E' tempo di cambiare. Torniamo a vendere l'olio di oliva italiano in Italia.”
“Abbiamo peccato di visione strategica – ha chiosato la presidente dell'Interprofessione, Pina Romano – abbiamo valorizzato in maniera esagerata l'extra vergine e altri oli vegetali hanno conquistato quote di mercato a scapito degli oli di oliva. Occorre ripartire insieme, dall'imprenditorialità. Stabiliamo una fascia protetta di oliveti a scopo turistico e paesaggistico e poi lasciamo che siano gli imprenditori a scegliere come o cosa piantumare.”
“La nostra priorità è l'extra vergine di qualità – ha dichiarato David Granieri, presidente Unaprol – E' da vent'anni che non si investe nel settore. Di fronte all'emergenza in cinque mesi abbiamo ottenuto il piano olivicolo nazionale e il Ministro Martina sta discutendo con le Regioni di come integrare questa strategia con i piani di sviluppo rurale. Occorrono obiettivi chiari e certi. Occorre un'assemblea delle organizzazioni profesisonali affinchè si diano obiettivi certi di mercato.”
“Parlare politichese non serve più – ha affermato Gennaro Sicolo, presidente del Cno – la produzione di olio d'oliva italiano è in calo perchè non c'è più reddito. Tutti hanno tolto reddito a olivicoltori e frantoiani. Bisogna coraggiosamente cominciare a dire che la politica per cui l'olio extra vergine è prodotto civetta è sbagliata.”
“Un modello aggregante serve alla filiera – ha ragionato Tommaso Lo Iodice, presidente Unapol – per sconfiggere l'abbandono occorre concentrare il prodotto attraverso le organizzazioni professionali, ma serve anche conduzione aggregata delle terre vper sconfiggere la parcellizazione. Solo così si può riportare l'Italia a livelli produttivi accettabili.”
“Poche industrie olearie hanno risalito la filiera in questi anni – ha affermato Giovanni Zucchi, presidente Assitol – il modello di valore era importare e miscelare. Un modello che faticherà sempre più nel futuro. Senza l'olio italiano neanche l'industria olearia italiana ce la può fare. Occorre fare olio di qualità e avere centri di stoccaggio all'altezza, poi si potrà fare attività promozionale e segmentare il mercato.”
“C'è aria nuova nel settore ma non bisogna dimenticare il passato – ha dichiarato Tullio Forcella, direttore di Federolio – promozione nel passato ne è stata fatta tanta. Poi si è smesso. La mancanza di promozione del Coi ha fatto perdere quote di mercato agli oli di oliva rispetto ad altri oli. Occorre tornare a investire nella promozione, magari seguendo l'esempio dell'Interprofessione spagnola che spende molto in promozione per il Made in Spain.”
Posizioni e punti di partenza diversi. Bisognerà vedere come e per quanto si concilieranno. Il test probante sarà con la nuova campagna olearia, a novembre. Se torneranno le tensioni sui prezzi, torneranno anche le divisioni e le accuse reciproche. Una vera sinergia di filiera si misurerà anche sulla capacità di arrivare a un gentlemen's agreement tra i vari attori per un prezzo dell'olio extra vergine italiano che garantisca un'equa divisione della ricchezza nella filiera.
Mentre in Italia si sperimentano le larghe intese olivicolo-olearie, un'altra piccola grande rivoluzione accade sopra le nostre teste.
I paesi membri del Coi hanno trovato l'accordo per il rinnovo dell'organismo fino al 2026. E niente sarà più come prima.
Come ha dichiarato la neo dirigente del Ministero delle politiche agricole per l'ortofrutta e l'olio d'oliva, Eleonora Iacovoni: “occorre adeguarsi alle necessità dei paesi consumatori, non solo di quelli produttori.”
Una frase poi spiegata da Jens Schaps, dirigente del settore olio di oliva della DG Agri a Bruxelles e presidente di turno del Coi: “abbiamo un nuovo accordo per il funzionamento del Coi che ora è al vaglio dell'Onu. Accoglieremo non solo i paesi produttori ma anche quelli consumatori e le quote, con relativi diritti di voto, saranno commisurati non solo alla produzione ma anche a export e importazioni.”
Le prossime e future regole sull'olio di oliva non le faranno più solo i paesi che producono ma anche quelli che consumano e importano.
Si guarda lontano e l'Italia è in affanno.
Commenta la notizia
Per commentare gli articoli è necessario essere registrati
Accedi o RegistratiAlberto Grimelli
21 luglio 2015 ore 16:06Gentile Dott. Croscenzi,
lei ha elegantemente fatto presente quanto si vocifera da un po' nell'ambiente oleario.
Il "product of Italy", inteso come olio miscelato in Italia da diverse provenienze, in Usa non tira più. Non garantisce più alcun significativo valore aggiunto. Ecco allora che diventa un insensato aumento dei costi far partire l'olio dalla Spagna per farlo imbottigliare in Italia e poi spedirlo in Usa. Meglio spedire direttamente dalla Spagna l'olio sfuso e farlo imbottigliare in loco. Si risparmia significativamente.
Alcune aziende imbottigliatrici italiane sono presenti in Usa da tempo. Non credo che sia un deficit di presenza quello delle imprese imbottigliatrici italiane, quanto piuttosto aver compreso con eccessivo ritardo che il "product of Italy" era usurato ed era necessario inventare qualcosa di diverso.
Non è solo il mondo olivicolo ad essersi adagiato su comodi allori per molto tempo.
Cordiali saluti
Alberto Grimelli
luca crocenzi
21 luglio 2015 ore 15:43Egregio Direttore, mi permetto di disturbarLa per provare a sottoporLe un quesito relativo ad un preciso punto dell'interessante articolo da Lei redatto. In particolare, nel momento in cui Lei evidenzia che sono molte le strutture italiane che hanno aperto delle loro sedi in territorio statunitense. Fermo restando il fatto che l'apertura di strutture confezionatrici in loco rappresenta sicuramente una delle nuove frontiere attraverso le quali potenziare la propria presenza in mercati di proprio interesse, e fermo restando il fatto che quanto sopra era stato oggetto di una prima analisi anche all'interno della newsletter del COI del mese di Gennaio di quest'anno, mi domandavo come mai, a Suo parere, il fatto di un incremento dello sfuso (che era positivamente coerente con un incremento delle realtà confezionatrici in loco), non vedeva altresì un incremento del prodotto confezionato. Il mio timore, infatti, era proprio che (purtroppo) vi fossero molte ditte statunitensi, nonché spagnole, a preferire di imbottigliare direttamente in loco (maggior valore aggiunto) piuttosto che acquistare già imbottigliato, e come su questo, invece, fossimo indietro rispetto ai nostri principali competitors.
Spero di non essere stato troppo diretto, ma avevo un sincero interesse a raccogliere una Sua opinione in merito.
Grazie.
Luca Crocenzi
Sergio Enrietta
18 luglio 2015 ore 16:55Articolo veramente molto interessante mi congratulo con chi lo ha scritto.
Gli elementi per capire secondo me ci sono, se non tutti, quasi tutti.
Innocenti, sempre secondo me nessuno.
Tutti quindi a dare il meglio di noi per migliorarci, qualitativamente, e organizzativamente.
Non faremo risalire magari il quantitativo di olio consumato per abitante italiano, potremo però fargli avere migliore qualità e percezione del vero e inimitabile gusto della spremuta di olive.
Questo valore una volta acquisito globalmente darà la giusta dignità all'olio di oliva, oggi nascosta da qualità mediocre, quindi imitabile con altre mediocrità.
Quando noi Italiani avremo imparato a gustare e consumare, qualità vera, sarà difficile propinarci miscugli indistinti.
Fatto questo passo, anche all'estero sarà più facile "prendere per le papille gustative" chi ora è uso all'indistinto.
Magari non si venderà di più, ma si venderà meglio, non sono i grandissimi quantitativi secondo me su cui si deve puntare, ma grande vera qualità.
Per qualità, lascerei perdere quella tradizionale, che ha fatto il suo tempo e resta un buon piedistallo storico, ma non più attuale.
Noi dobbiamo fare qualità, e questa qualità non deve essere quella che fa comodo a noi, ma quella che piace anche al cliente.
Dopo tutto è lui che paga e in genere chi paga, sceglie la musica, pardon "l'olio".
Buon lavoro a tutti.
Sergio
luca crocenzi
21 luglio 2015 ore 16:19Egregio Direttore, gentilissimo e rapidissimo..
La ringrazio del Suo riscontro, anche se poi mi solletica tutta una serie di ragionamenti in merito, che non è possibile affrontare in questa seppur piacevole circostanza: sarebbe infatti interessante,a questo punto, sapere di più sulle quote di mercato che sono in mano ad aziende italiane rispetto a quelle di realtà appartenenti ad altri paesi...
In ogni caso grazie e alla prossima occasione.
Buon tutto