Turismo

Alcune provocatorie riflessioni intorno ai territori turistici montani

Nel far promozione, spesso e volentieri si ricorre impropriamente al termine "naturale". La realtà, però, è nei fatti ben diversa. L'analisi di Daniele Bordoni ci apre la mente su aspetti finora poco considerati

31 gennaio 2009 | Daniele Bordoni

L’aggettivo che oggi domina la promozione del turismo montano è Naturale. Ma quanto è veramente naturale? La realtà è molto diversa da ciò che immaginiamo naturale. Nella Valle Anzasca, un tempo c’erano pochi boschi e molti terrazzamenti coltivati, di cui si scorge traccia ancora oggi quando le foglie degli alberi alle quote più basse cadono. Gli alpeggi, con la loro erba rasata dai capi, mucche, pecore o capre, erano un po’ ovunque, il mezzo di trasporto era l’asino o il mulo, per i più benestanti, il calesse o la carrozza, anche in epoca in cui le città cominciavano ad essere dominate dalle auto e dai mezzi di trasporto pubblici.

Nell’immaginario questo era un paesaggio “naturale”, ma cosa aveva di naturale in realtà? Quasi nulla; la mano umana era ovunque e lasciava segni evidenti. Inoltre era molto più popolato e molto più povero. Oggi che la montagna è un po’ ovunque abbandonata e il bosco avanza, la stessa valle, prima carica dei segni della presenza umana, risulta più impoverita, le poche case rimaste e non diroccate sono minacciate dall’avanzare della vegetazione che sta riprendendo possesso degli spazi umani. Vista da lontano, in estate la stessa montagna risulta coperta di alberi fino alle quote alte, sino a formare una coltre, come una coperta, di vegetazione, talvolta anche fitta. I terrazzamenti sono quasi scomparsi e si intravedono soltanto in inverno tra i rami della vegetazione spoglia, ma fra non molto anche questi ultimi segni saranno completamente riassorbiti dalla vegetazione.

Oggi potremmo dire che il paesaggio stia tornando ad essere “naturale”, ma all’occhio del visitatore non è sempre percepito come tale, bensì come il suo opposto. Prendiamo il caso di Macugnaga, definita negli anni 60’ la “Perla del Rosa”. In quel tempo non erano ancora molte le stazioni sciistiche organizzate, le più alla moda erano Macugnaga (metà dei lombardi, milanesi e dell’area di Varese) e Cortina (metà degli emiliani, bolognesi e di buona parte del centro e sud Italia). In realtà il paesaggio montano di paesaggio montano di Macugnaga era molto più antropizzato di oggi, con molti più negozi, più impianti sciistici, locali di divertimento e negozi dei prodotti più svariati, ma con in comune il fatto di essere rivolti ad un turista con un’ alta capacità di spesa. Ciò nonostante la montagna, così intensamente trasformata, appariva all’immaginazione del turista come un “paesaggio naturale”, anche se l’unico vero elemento naturale era il Monte Rosa, che rimaneva però sullo sfondo.

Seguirono gli anni del turismo di massa, che coinvolsero gradatamente anche la montagna; aprirono nuove stazioni sciistiche ed il turismo alpino si arricchiva di maggiori offerte anche per il periodo estivo, suggerendo nuovi percorsi e nuove mete, ma era soprattutto lo sci a dominare. Man mano che cresceva il settore, gli impianti sciistici divenivano sempre più imponenti e in grado di trasportare numeri incredibili di sciatori che riversavano sulle piste da sci, divenute più affollate delle strade metropolitane nelle ore di punta. Chi è stato in Alto Adige, nel percorso del “Sella Ronda” non potrà fare a meno di ricordare la quantità abnorme di segnaletica, agli incroci delle piste, in numero assai maggiore di quella che si può osservare in un qualsiasi svincolo autostradale. Ricordo di avere contatto circa 50 indicazioni ad un incrocio particolarmente frequentato che metteva in collegamento 6 o 7 direzioni diverse.

Ciò nonostante il paesaggio veniva percepito e viene in parte ancora oggi percepito come “naturale”. Persino la forma del territorio era mutata: alcune montagne erano state addolcite nelle coste più ripide, lisciate e coltivate a prato per facilitare l’innevamento, anche artificiale. Grandi costruzioni, rigorosamente in legno a forma di improbabili baite erano sorte in particolare in corrispondenza degli arrivi più importanti degli impianti di risalita.

Il turismo alpino seguendo il ciclo economico subì oscillazioni, dopo la grande crescita durata fino agli anni ’80 ed ebbe un certo declino,divenendo più selettivo e chi desiderava sciare finiva per privilegiare i luoghi più attrezzati, piuttosto che i luoghi più belli o paesaggisticamente attraenti. Era proprio il concetto stesso di attrattiva che era mutato. I luoghi con impianti moderni e super attrezzati, un’intesa attività dopo-sciistica, con discoteche, locali, bar, pub, negozi, ristoranti, pizzerie, in misura così densa da lasciare pochi o nessuno spazio vuoto, divenivano i luoghi più richiesti e meta di maggiori presenze.

Cortina si adeguò nel corso degli anni, Macugnaga restò com’era agli inizi. L’effetto è stato sconcertante: mentre l’area che circondava il Monte Rosa rimaneva molto più naturale della maggior parte delle località alpine, veniva al contrario percepita come un luogo dove non esisteva più nulla e non come un luogo rimasto “naturale” o “incontaminato” o, per lo meno, meno contaminato.

Il turista non vuole essere chiamato “turista di massa”, termine che ha una forte connotazione negativa, perché è convinto o è stato convinto dall’intenso battage pubblicitario, che trascorrere una vacanza in montagna era un fatto decisamente elitario, di chi amava il contatto con la natura e non un evento chiassoso, come la vacanza al mare. La realtà, sappiamo tutti, si è rivelata ben diversa. Alcune piste delle località sciistiche alla moda sono ancora oggi affollate e decisamente “massificate”. Neppure il turismo estivo scampa a questa regola: alcuni sentieri sono così affollati da mettere in evidenza una doppia fila composta da coloro che salgono e coloro che scendono.

Oggi si sta lentamente riscoprendo un turismo alpino più semplice, non di grandi numeri, quindi non di massa e destinato a restare con numeri modesti: quello che ricerca gli ambienti meno antropizzati, i boschi, i sentieri e le mulattiere quasi scomparse, i vecchi borghi ed i piccoli villaggi. Mi è capitato di accompagnare alcuni inglesi, frequentatori abituali di queste valli alpine divenute oggi meno alla moda. Durante una sosta, mi sono messo ad osservare il paesaggio e dentro di me, forse anche perché influenzato dalle campagne pubblicitarie, ho affermato che nel nostro piccolo villaggio del centro Valle Anzasca non c’era nulla; uno degli escursionisti inglesi mi ha risposto che era per quel nulla che era venuto in quella zona. Ha poi spiegato che conduceva una vita stressante, piena di impegni e orari. Necessitava di un ambiente che l’allontanasse da tutto ciò, per ritrovare un po’ di serenità e di equilibrio.

In conclusione si può dire che esiste una fondamentale differenza tra il paesaggio montano percepito dal visitatore e dal turista e quello reale. L’esempio classico è l’alpeggio: visto da quasi tutti come la massima espressione del paesaggio naturale alpino, in realtà è un paesaggio decisamente ricreato e lo è sempre stato. Sono stati estirpati arbusti, piante, e alberi per fare spazio al prato. Le baite sono state costruite dai pastori e prima di loro non esistevano, gli animali sono stati fatti salire dai pastori e se l’alpeggio viene lasciato, il bosco ne riprende possesso. In questo caso però lo spazio così ritrasformato viene al contrario vissuto come sporco e selvaggio. In realtà la visione del naturale alpino è una visione arcadica di pastori spensierati, felici e di mandrie che offrono prodotti semplici e tipici., che non è mai realmente esistita. Il tempo in cui la pastorizia era praticata su larga scala era un tempo di grandi difficoltà di vita, di carestie e sopravvivenza incerta . L’abbandono delle zone montane avvenne anche per la mancanza di prospettive ed il desiderio di migliorare la propria condizione sociale ed economica.

Oggi occorre ripensare al nostro futuro ed interrogarci se la vita carica di ritmi e impegni, che la città ci offre, sia veramente la strada migliore che abbiamo davanti. Una vita che non ci fa pensare, non permette di “ritrovarci” e dall’inizio dell’attività lavorativa ci porta sino alla pensione, senza che ci sia possibile controllare eventi e impegni, in cui si è trascinati vorticosamente, senza che si riesca neppure a sentire le stagioni e i ritmi naturali. Dall’ambiente artificiale, stiamo divenendo anche noi stessi esseri artificiali. Oggi in presenza di una grande crisi economica mondiale, che mette in discussione il nostro stesso modello di filosofia consumistica, chiediamoci se non sia il caso di ripensare l’intero nostro modello di vita, ricercare altri valori di riferimento, riaccostarci alla natura e ai suoi cicli, tornare di nuovo a percepire il fluire degli eventi e delle cose, come veri protagonisti e non trascinati dai ritmi imposti al nostro esterno.


L'Autore
Daniele Bordoni. Laureato in Lingue e Letterature Straniere, all’Istituto Universitario di Lingue Moderne di Milano, nel 1980, con il massimo dei voti e tesi specialistica incentrata sulla letteratura inglese del ‘600 e su un’analisi testuale dell’opera di Sir Thomas Browne, di cui è uno dei maggiori conoscitori.
Ha acquisito una grande esperienza di viaggiatore, conseguenza del suo lungo impegno pluriennale nella finanza internazionale, che lo ha portato a viaggiare e visitare moltissimi angoli del mondo, in una sorta di Grand Tour moderno. Da molti anni studioso di Economia del Turismo e del Costume con particolare riferimento alle aree del turismo naturale sostenibile nelle aree montane.

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