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LEGGENDO “LA FIGLIA OSCURA” DI ELENA FERRANTE, SI ENTRA NELLE PAROLE CHE ABITANO L’ANIMA

“Raccontare le cose che noi stessi non riusciamo a capire”, è con questo proposito che si rifà viva una delle autrici culto della narrativa italiana. Di lei sappiamo poco, e sicuramente si tratta di uno pseudonimo dietro cui non si sa bene chi si celi. Forse una nota traduttrice, chissà

02 dicembre 2006 | Antonella Casilli

Antonella Casilli vista da Filippo Cavaliere de Raho


Ai lettori piace incontrare gli autori, perché? mi chiedo. Un autore, che con il suo pensiero ci ha fatto compagnia, prende forma nella nostra mente di lettori e spesso la forma è differente da quello che poi al primo incontro letteral-mondano si concretizza nelle sembianze dell’autore.

Elena Ferrante questo meccanismo l’ha bypassato. Ciascuno la immagina come meglio crede, unico neo è che poi di Elena Ferrante si parli più per cercare di scoprire il suo io che non per quei bellissimi libri che scrive.
Così come mi lascio coinvolgere in presentazioni letterarie, nelle quali non credo, mi lascio coinvolgere nel toto-Elena Ferrante.

Anni fa leggevo prevalentemente autori di lingua spagnola ed allora sovente, quando inciampavo, cercavo di leggere il libro in originale, mi sembrava di essere tornata al liceo quando stavo ore con il vocabolario di latino aperto a cercare il termine più adatto.

Quando la mia collaborazione con i Presidi del libro è iniziata tra i primi incontri ho voluto incontrare una traduttrice.
La mia amica e valentissima interprete e traduttrice, professoressa Maria Rosaria Buri, ha tenuto una bellissima relazione sugli equilibrismi del traduttore.

Un bravo traduttore deve conoscere l’argomento di cui tratta, deve abitare le parole, solo così il lettore attento potrà essere premiato dalla fluidità di una prosa sontuosamente colta; per dirla tutta, come lettore rimpiangono quella bellissima collana Einaudi “Scrittori tradotti da scrittori”.

Questo preambolo per partecipare il mio sospetto che l’elegante lessico di Elena Ferrante autrice de La figlia oscura, edizioni e/o, nasconda Anita Raja, valentissima traduttrice dal tedesco per la stessa casa editrice per la quale ha tradotto, tra gli altri Riflessioni di Christa Wolf, un romanzo sull’incompletezza, l’inadeguatezza e la fatica di stare al mondo, la difficoltà di dire “io”; Un giorno dell’anno, in cui sono analizzati conflitti, crescita delle figlie, tradimenti degli amici , perdite, abbandoni, gioie; La recita estiva, in cui si racconta di un gruppo di intellettuali tedeschi alla ricerca di un modo di vivere più semplice e a contatto con la natura, lasciano la città per recarsi in campagna e solo dopo si accorgeranno di aver compiuto una scelta ingenua, perché hanno portato dietro il proprio io e tutte le problematiche ad esso legate.
E’ quello che succede anche a Leda, l’io narrante dell’ultima fatica della Ferrante, che in uno stato di inusuale benessere dopo che le due figlie partono per raggiungere il padre decide di prendersi una vacanza sul mar Ionio. Appunto, come gli intellettuali tedeschi della Wolf, anche Leda porta con sé in vacanza tutto il proprio fardello esistenziale.

Il romanzo è condotto come una sorta di soliloquio in cui con piglio psicologico l’io narrante scava in se stesso chiedendosi il perché di ogni proprio comportamento: “cosa mi sarebbe costato cambiare ombrellone, gli altri l’avevano fatto, anche gli olandesi perché io no. Senso di superiorità, presunzione. Autodifesa dell’ozio pensoso, tendenza colta a dare lezioni di civiltà. Stupidaggini … Ecco cos’ero, superficiale… sempre parole di sprezzo o scettiche o ironiche… spezzoni di parole”.

Il comportamento contingente che qui si analizza è il piccolo furto di una bambola perpetrato ai danni di Nina ed Elena, mamma e figlia, le vicine di ombrellone studiate con morboso interesse da Leda. ”Mi poggiai la bambola sulle ginocchia come per compagnia. Perché l’avevo presa. Custodiva l’amore di Nina e di Elena, il loro vincolo, la reciproca passione. Era il testimone lucente di una maternità serena. Me la portai al petto. Quante cose sciupate, perdute, avevo alle spalle, e tuttavia presenti adesso in un vortice di immagini. Sentii nitidamente che non volevo restituire Nani (la bambola, ndr) anche se avvertivo il rimorso, la paura di tenerla con me”.

La maternità serena di Nina è il continuo contrappunto dell’analisi che Leda fa della sua maternità mai serena ma dove molto tardi, nella sua vita approda con rassegnazione a vivere poco per se stessa e molto per le sue bambine.
E’ cronaca, nella famiglia mononucleare sono tante le donne che si sentono sovrastate dalla maternità, voluta, anche ma che non si riesce a gestire.
Nina lo chiama scombussolamento, la colta Leda ammette che “ti si frantuma il cuore: non riesci a sopportare di stare insieme a te stessa e hai certi pensieri che non puoi dire”.

E’ il caso di fermarsi non perché in questo romanzo abbia rilievo il finale ma perché, comunque è grazie ad esso che si capisce appieno quanto sia difficile per usare le stesse parole della Ferrante “raccontare le cose che noi stessi non riusciamo a capire”.



Elena Ferrante, La figlia oscura, Edizioni e/o, pp. 141, euro 14,50