Quo vadis 27/07/2018

Il museo di arti e mesteri come percorso sapienziale: artigiani e contadini tra storia e futuro

Il museo di arti e mesteri come percorso sapienziale: artigiani e contadini tra storia e futuro

Un'esperienza intensa e profonda, come sanno dare gli appuntamenti culturali di Pandolea. Ma qui siamo ad Assisi, dove merita una visita il Museo delle arti della casa e della civiltà popolare. Un luogo così non ha uno stile internazionale nè un’anima commerciale: nelle cose, appena sotto un velo di polvere, sono in agguato forze viventi, intensamente presenti


Ancora quattro passi, al tramonto che annega nel verde, gli occhi sulla valle del Subasio, inebriati, come sempre, dall’istantanea di tanto valore. Per completare la giornata, mai stanchi di percorrere ogni angolo della città di Assisi, sediamo abitualmente sul muretto di pietra e mattoni a cui la basilica di Santa Chiara volge l’abside ed il campanile, lungo il viale di tigli secolari, affacciati sul campo degli ulivi che godono di quell’ombra monumentale e che sembrano sorriderci, sonori, delicatamente sfiorati dal soffio di vento della sera. I pensieri di mia moglie Francesca sono vicini ai miei, nel silenzio, ma in quell’aura sospesa e in quel tempo di nessuno i suoi occhi che traguardano il paesaggio mi sembrano disegnare ogni volta un nuovo mistero, di cui l’argento delle piccole foglie possono essere appena un tremulo riflesso. Mi prende per mano, proseguiamo ancora un po’, in direzione della porta medievale, fino alla fine del corso. Ci fermiamo a pochi metri dall’arco, è il momento di scegliere dove mangiare, ispirati dai profumi delle cucine che si espandono tra i vicoli.

Incuriosito forse dalla vivacità del nostro dibattito gastronomico, un signore sollecita cordialmente la nostra attenzione, invitandoci a visitare il nuovo museo di Arti e Mestieri dell’Umbria – ‘museo delle arti della casa e della civiltà popolare’-, recentemente inaugurato; la sede è appena dietro l’angolo, la raggiungiamo in un attimo, difronte ad un cortile ordinato, che gode dell’affaccio su quella vallata. Seppur esausti, accogliamo curiosi l’ennesima opportunità della città di Francesco. Era come se quel piccolo museo si sforzasse di farsi spazio tra le chiese che richiamano turisti da ogni parte del mondo, tra mura e palazzi di chiara importanza, e dicesse, mentore il nostro: “Ci sono anch’io, prestatemi un po’ del vostro tempo”. Si comprende subito che la collezione è interessante, ricca, già ad una prima occhiata d’insieme, varcata la soglia d’ingresso che dà sul grande ambiente principale. Un po’ incerti all’inizio, comprendiamo ‘parola dopo parola’ il valore dell’incontro, il ‘senso’ - avrei pensato in seguito - dell’”anima del luogo”. Con ritmo intenso, dettato dalla circostanza, la guida introduce quanto gli è possibile, chiaro e appassionato, portandoci tra gli oggetti con cui dimostra di avere quotidiana familiarità, richiamando aneddoti, ogni volta accompagnando la descrizione con una lode commossa all’ideatore dell’istituto. “Peccato”- ci dice – “che non sia qui, è sempre impegnato, ora qua ora là, gli avrebbe fatto piacere incontrarvi”.

Un attimo dopo, passo baldanzoso, elegante, arriva lui, il direttore del museo; ci presentiamo, siamo trascinati in breve in una girandola di racconti, sensazioni, ricordi, inattese condivisioni di conoscenze, scambi di osservazioni su alcuni manufatti conservati in quello scrigno. “Questa è una fistula di terracotta per il trasporto dell’acqua, sa come funziona?...”-dico io- “Come l’ha chiamata?-risponde lui-“ Interessante! Mi dica ancora…”. “Qui ci sarebbe bisogno di tante professionalità, di uno studio approfondito – incalza egli animosamente – di un catalogo scientifico, occorre trasmettere la missione di enti come il nostro, affinchè non si perda quello che può raccontare”. Concordi, promettiamo una visita più accurata, lasciamo i recapiti, dibattiamo su spunti di possibili iniziative, lasceremo ad un incontro a tavola il ‘gusto’ e la sorpresa di conoscerci meglio. “Sapete – precisa – per me che sono quasi centenario, il tempo è più prezioso, perciò è opportuno rivederci presto. Intanto vi lascio tutto il materiale di cui disponiamo per avere un’idea della storia di questo patrimonio, così che possiate contribuire a promuoverlo…”. L’età di Davide non è un particolare di poco conto in questo racconto, anno più, anno meno, siamo intorno ai cento. Il plesso è stato interamente ristrutturato grazie a lui, disposto anche a svendere preziosi mobili delle sue collezioni migliori – racconta - pur di procurarsi la manodopera necessaria all’impresa; quei piccoli capolavori di artigianato ‘made in Italy’ hanno le più disparate provenienze ma, soprattutto, sono un prolungamento della sua passione, e di quella di tanti altri, per la sapienza delle mani, per l’intelligenza del mondo. E’ un ruolo educativo di inestimabile importanza e merito di associazioni culturali come Pandolea, che con i musei dialoga, quello di accendere i riflettori sull’uomo, sulle tradizioni, sugli insiemi paesistici visti come complesse strutture antropologiche. In essi, la mano “anziana” realizza, tras-portando il passato, il disegno di un più illuminato futuro, dove i contorni dei campi coltivati possano offrirsi come giardini agli occhi dei giovani ormai sempre più assorti nell’oblio telematico, dove la vanga del contadino possa continuare a dare perfezione lineare e pittorica all’immagine delle colline, dove ogni ruga possa tornare a farsi sentiero, rispetto, coscienza, guida, realtà. La “faccia” di Davide mi appare ora come l’insieme indefinibile di tutte le facce che hanno lavorato a quegli oggetti che nel corso delle generazioni passate hanno servito tecnologicamente, cioè ‘sapientemente’, le vite dei nostri antenati; la conoscenza che guarda lontano, “telematica”, rifiuta spesso di confrontarsi con quei volti, con mani prudenti, lente, laboriose, instancabili, mani nodose e vecchie, come i manufatti stessi, che degli oggetti possedevano il gesto, il senso, la forza, la vita che avrebbero dato, se realizzati con arte, con tutta la bellezza della loro stessa “sofìa”.

Manualità: tornano in mente ora più forti le parole di Marco Cavalieri, agronomo, titolare della vitivinicola Le Corti dei Farfensi, “…le mani di tutti i nostri collaboratori sono la sintesi della mano del monaco che dal medioevo tramanda con noi una tradizione immortale, l’umiltà, l’opera, il dono di secoli, ancora”…Volti: gli fà eco sua moglie Antonella, dolcemente, commossa: “…i loro volti, io ho nella memoria del cuore ciascuno dei loro volti, ciascuno, nella loro unicità, sono parte della mia forza, i loro occhi, quando, sotto la calura e nel sudore, intenti nell’impresa della vendemmia, si rinnova ogni volta la promessa, nella più piccola vigna della terra, come a ricordarci che siamo una parte minuta, ma necessaria, della storia culturale del mondo”. Ecco ai nostri occhi farsi strada Shakespeare nel volto del quasi centenario direttore del museo dei “ferri del mestiere” della città di Properzio, “…il suo cuore si riconosce subito al suo volto” (Riccardo III). La sua faccia, la nobiltà di portamento, una “testa frenologicamente bellissima” (James Hillman, in “La forza del carattere”, 1999); occhi dritti al futuro, pieni colmi di un passato epico, nulla che sia possibile notare o intuire in un corpo giovane, dove l’idea del carattere non può essere sostenuta dalla mancanza di storia, dalla ‘frenesia’ accidentale degli eventi. All’illusione dell’eterna giovinezza, quella che non lascia trapelare i segni della “sintesi passiva” descritta da Lèvinas, abbiamo sacrificato l’opera delle mani, la chirurgia, il ‘cheiròs èrgon’, per debellare, in una lotta impari, i segni del vissuto sulle facce, dimenticandone la funzione originale, che fu di prolungamento della sapienza intellettuale. L’attuale immagine postoperatoria dell’esistenza, affidata alla velocità, si adatta meglio alle nuove esigenze convenzionali: nuova, internazionale, priva di individualità, un po’ triste ma senza difficoltà; ai volti degli antenati e alle maschere di cera abbiamo sostituito un ‘libro della faccia', la platea che con il suo nome anglosassone si porta appresso tutto il fascino ‘cool’ dell’ultima sfida esistenziale: “Ti trovo su face-book?”.

Eppure, “se vuoi formarti il carattere - diceva William James -, fai una cosa solo perché presenta difficoltà”, la difficoltà che ‘usa la faccia’, accende gli occhi, fa corrugare la fronte, mordere le labbra, concentrare, realizzare artefatti di mirabile sapienza. Il termine greco “sofìa” indicava, tra i suoi significati originari e più pregnanti, l’abilità artistica, il saper fare, la perizia di rendere sostanziale la bellezza, di trasformare la natura in cultura. Questo fu il miracolo nelle mani di Fidia, il filosofico scalpello degli scultori dell’antichità e di tutti i protagonisti della storia dell’arte, e della letteratura, storia di uomini dal carattere unico, espressione di un fenomeno estetico.

Un museo complesso dunque, in un città ricchissima di storia e di arte, in cui la memoria si confonde con il sogno e l’energia del passato è monito di vita, è attenzione, occhi accesi, mani trepidanti, fervore, sapere plurale, “un appassionato desiderio di accuratezza”, il sommo principio estetico per T.E. Hulme. Tutti i manufatti qui nascondono un mistero inafferrabile, chiedono dedizione e ricerca; la nostra guida centenaria, il nostro ‘Virgilio’, sulle orme delle vite di tanti artigiani e contadini, ci stava conducendo attraverso la sapienza di tutte quelle realizzazioni, oggetti che solo l’immaginazione può restituire al presente, insieme al sudore, al pianto, alle risa, scavalcandone l’ingenua apparenza di ‘impolverate cianfrusaglie’. La passione personale di Davide, destinata all’eternità, non teme i conformismi sociali, né il giudizio cosmetico della contemporaneità, perché vive della forza del carattere, è “còsmos”. La tradizione giudaica ricorda nelle preghiere che il volto di Dio non può essere contemplato, se non da Mosè, ma nella formulazione cristiana il volto di Dio si rispecchia nella natura: la generosità della terra, i giardini di fiori, frutti e ortaggi sono l’espressione diretta della forza del creato, della cui gloria siamo stati chiamati a custodi, umili operai. La faccia della terra, angelo dell’invisibile, sollecita la nostra sensibilità, ci sorprende con meraviglia, vuole essere percepita, ‘rispettata’, osservata con paziente e prudente lentezza, come il volto di ogni nostro prossimo, specchio della nostra etica. Ma la faccia va ri-vista nel tempo, dopo tanti e tanti tramonti, la faccia invecchiata, come gli oggetti, mostra la sovrapposizione di “un’intera serie di facce”. “…Terra e vita, a pesca nell’oceano, coricarsi nel deserto sotto le stelle, costruire un capanno sulle montagne, coltivare il campo alla maniera antica…Improvvisa mi arriva una voce: ‘Per rimanere giovane, per salvare il mondo, rompi lo specchio’ ”(Nanao Sakaki, Break the Mirror, in H., op. cit.). L’idea che la nostra faccia rappresenti il nostro carattere, il nostro destino, la nostra ascendenza, non rientra nei confini dello specchio davanti al quale ci sistemiamo. Nel riflesso dell’Altro possiamo vedere molto più che allo specchio, diventare più coscientemente…quel filo d’erba, quella foglia di vite, quel sentiero, quella campana dell’antico campanile, quella corteccia d’albero e quel manico di scopa, quella vecchia madia, quel manichino della boutique di fine seicento…Terra e mani e volti.

Questo processo di invecchiamento come ‘progresso della faccia’ sollecita la nostra immaginazione; un Museo di Arti e Mestieri non ha un ‘look’ accattivante ma usa le facce, porta tutte le tracce di un’usura che non ha bisogno di correzioni cosmetiche, ma di cura, di attenzione, di tempo, sguardo reciproco, ‘in praesentia’; ”la terrificante difficoltà dell’incontro” con l’Altro e con gli oggetti del passato obbliga a lavorare sulla faccia, specchio della nostra relazione con il mondo e con la natura, della nostra vulnerabilità. Un luogo così non ha uno stile internazionale nè un’anima commerciale: nelle cose, appena sotto un velo di polvere, sono in agguato forze viventi, intensamente presenti, espressioni della faccia delle cose del mondo. “Gli oggetti ricambiano il nostro sguardo”, ci lanciano una precisa sfida morale; l’abitudine che abbiamo sviluppato, mortificante, a vedere negli oggetti solamente ‘cose’ inerti fà si che solitamente noi le usiamo e possediamo in modo parimenti inerziale, senza averne percepito l’immagine, la saggezza, la forza, la storia. Ogni angolo di mondo ha impressa su di sé la stratificazione storica del suo carattere; così, ogni azione umana deve prestare attenzione a questo aspetto, rallentando, senza affrettare conclusioni o decisioni irreversibili. Non v’è bisogno di correre, di fare rapina, consumo di territori, competere, dritti all’obiettivo; le linee della faccia del mondo, come quelle dei nostri singoli volti, richiedono la delicatezza del ritrattista, del paesaggista, l’indagine dello storico. La zona di “pietas” che la terra esige, la sua estrema vulnerabilità, è la stessa della nostra faccia, in cui ha inizio l’etica della società; persi nella tempesta ‘social’, fotogenica e ‘selfy’, operiamo ogni giorno un ‘lifting’ alla coesione sociale, priva oramai della sua ‘sorgente originaria’, “la forza della faccia”. Grazie Davide, per il tempo che ci hai donato: “l’apporto che i vecchi possono dare alla società è nelle loro mani…Ma soprattutto è nella loro faccia, nel coraggio di esporsi alla vista”. Se non abbiamo vecchi capaci di ‘essere antenati’, resta un manipolo di “isterici da pulpito, le cui facce smentiscono le virtù che predicano”. Il museo di Davide è invece il tempio dei capi tribali, degli sciamani, dei rabbini, dei dogi, dei vescovi e dei maestri di bottega, la cui autorità era una con la loro autorevolezza, faccia, occhi, mani. Qui devono sostare i giovani, per sentire la profondità delle facce dei vecchi e delle cose vecchie, che sono un bene del gruppo. Tra gli splendidi ritratti fotografici di Ulrich Weichert, che abbiamo avuto modo di ammirare nella mostra intitolata ‘Gli Altidonesi. Vita e volti tra ‘900 e nuovo millennio’, recentemente inaugurata in Altidona, borgo incantevole nelle Marche nel fermano, ecco la faccia e le mani consumate del chiromante, o il sorriso aperto e solare dell’anziana signora, un’attività di pesca sportiva in gestione, procace, sguardo materno, immagine contemporanea della Venere di Willendorf, assisa e potente sulla sua sedia di plastica come su un trono aureo, eterna Mater Matuta, Signora delle forze ancestrali. “Le donne anziane arricchiscono la cultura…sono portatrici dei saperi” che si trovano depositati nei manufatti artigianali, nei proverbi, nelle movenze tradizionali, vere e proprie reificazioni di una ritualità atavica in un’immagine, “riserva di storie delle origini” che “alimentano la memoria…guardiani della collettività”. Grazie Davide, tu che come i nostri nonni sei nonno, perché continui a raccontare un sogno, e spieghi la storia degli oggetti quale si dipana tra le mani degli uomini e delle donne, di contadini e merlettaie, orafi e vasai, veri e propri ‘chirurghi di sapienza’. I nonni vivono circondati di buffi oggetti dall’odore indimenticabile che trattano come gioielli preziosi, perché sanno di che passato sono fatti: “intricato, lento, impercettibile processo…conoscenza pratica della natura e della strada, dei sogni, dei saperi, delle maniere e dei gusti…”. La missione dei vecchi è la trasmissione della cultura; dietro la cataratta, l’”èidos”, l’immagine, è più profonda che mai, la visione è più vicina a quella dei bambini, più spontanea, genuina, più utile, più vera. La cultura apparentemente ‘passatista’ del museo di Arti e Mestieri introduce al futuro, con il suo bagaglio di conoscenze manuali, “un patrimonio che non si trova nei libri, che non si proietta sullo schermo, che deve essere personificato, espresso con parole non più attuali, esposto in stili non più di moda, presente in facce che non possono fingersi diverse. I vecchi sono unità di eredità culturale, che rendono possibile, con le parole di Roszak, ‘l’evoluzione a forme superiori’”, e sanno immaginare il mondo come un organismo vivente, “tacitamente mantenuto in vita dall’umana decenza”. Promuovere il futuro della civiltà, quindi, e nessuno meglio di Cicerone, nel De senectute, 44 a.C.: “Mens enim et ratio et consilium in senibus est; qui si nulli fuissent, nullae omnino civitates fuissent”. Ecco il progresso: conservazione della natura e difesa della memoria storica, e poichè ai vecchi resta poco tempo da vivere, di solito essi apprezzano con gusto questo mondo e la sua bellezza, ispirati dall’angelo che chiama. Dietro le nonne che seguono i nipoti al parco e raccontano le loro storie re-inventate “stanno le nonne del mito: Cibele, Gaia, Rea, Iside, Nut, le garanti di questa terra e del cosmo intero”. Gaia, la ‘vecchissima’, ‘fondamento di tutto ciò che esiste’; Rea, nonna di Dioniso, Sant’Anna, la nonna di Gesù, rappresentata da una porta, attraverso cui il mondo delle nuove generazioni può accedere alla giustizia e alla saggezza. Stiamo uscendo dal museo, è ora di cena; Davide si offre ancora a noi senza riserva, indistruttibile, nonostante abbia altri impegni in serata, ci dice, e, aggiunge, “per i prossimi venti giorni non mi cercate, l’agenda è fittissima. Ma appena tornate sarete miei ospiti, ci conto”. E’ chiaro, i vecchi vaccinano contro la paranoia, sono una perenne manifestazione di fiducia, attraversano la strada lentamente, appoggiati ad un bel bastone di legno di olivo, perché lungo il tragitto si fanno incontri: i vecchi oggetti, le vecchie storie, i vecchi caratteri, proteggono la civiltà dalla sua stessa insidia predatoria, dall’impresa, ingenua ed egoica, di calpestare la faccia di questo mondo “per la smania di arrivare primi dell’altro. Ciò che resterà…è questa bellezza, l’eredità per le nuove generazioni. Prima di andarcene, dobbiamo ottemperare alla nostra parte del patto di reciproco sostegno tra gli esseri umani e l’essere del pianeta, restituendo quello che abbiamo preso, assicurandoci che esso duri anche dopo di noi”.

Mia moglie mi prende per mano…o forse sono io ad afferrare la sua, ripartiamo, fiduciosi, come sempre, e attraversiamo la strada, un poco più lentamente, mentre vediamo in lontananza Davide correre via…

di Cristiano Berilli

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