Quo vadis

Nell'Ogliastra la storia della viticoltura italiana che risale all'alba dei tempi

La viticoltura in Italia ha origini molto più antiche di quanto ci si aspetti. I nostri avi degustavano vino già mille anni prima di cristo in Sardegna, nell'area dell'Ogliastra. Alla scoperta della civiltà nuragica visitando il territorio di Triei

28 maggio 2015 | Graziano Alderighi

Fino a qualche decennio fa era opinione comune fra tutti gli studiosi del settore che l'arrivo in Sardegna per la prima volta del vino e di conseguenza della successiva coltivazione della vite, fosse da far risalire alle fasi iniziali della colonizzazione fenicia (IX - VIII sec. a.C.), e che la vitivinicoltura diffusa in scala più ampia, datasse alla successiva dominazione cartaginese (VI sec. a.C.), e romana poi (III sec. a.C.).

Fortunate campagne di scavo, condotte con i più moderni sistemi di indagine archeologica, coadiuvate da sofisticate analisi scientifiche, quali esami al C14, pollinici e gascromatografici, nonché comparazioni con altri siti extra-insulari, le cui genti hanno avuto contatti nella preistoria e nella protostoria, con le popolazioni dell'Isola, hanno consentito di spostare, almeno a partire dalla fine dell'Età del Bronzo Medio (XV sec. a.C.) - inizi dell'Età del Bronzo Recente (XIV sec. a.C.), la certezza della presenza in Sardegna della vite e del vino.

Se si vuole averne la prova occorre recarsi nel territorio di Triei.  Nessun paese in Ogliastra può vantare un connubio tale tra vino e archeologia. 

I miti raccontano che fu Aristeo, compagno di viaggio di Dedalo, a introdurre in Sardegna la coltivazione della vite, dell’ulivo e l’allevamento delle api. Una conferma di quanto fosse radicata questa credenza, tramandataci da Pausania e da altre fonti antiche greche e latine, è data dal ritrovamento in territorio di Oliena, il località “Sa idda ‘e su medde” (il paese del miele), di un piccolo bronzo raffigurante Aristeo, col corpo totalmente ricoperto di api.

In realtà durante la campagna di scavi del complesso nuragico di Bau Nuraxi a Telavè, sono state ritrovate all’interno di una brocca askoide, dei residui di acido tartarico derivanti da vinificazione, datati con l’esame del C14 al 1000 a.C..

La Sardegna era poi meno chiusa di quanto possiamo immaginare. Commerciava con il resto del bacino del Mediterraneo. Le brocche askoidi, di produzione sarda presenti in diversi contesti extra-insulari: dalla Sicilia (Isola di Mozia-Marsala e da Dessueri-Monte Maio); dall’Isola di Creta (Tomba 2 della necropoli di Khaniale Tekke); dalla Tunisia (a Cartagine, forse da attribuire ad un insediamento precedente la fondazione fenicia della città); dalla penisola iberica (una brocca asconde nuragica è stata trovata di recente a Calle Canovas del Castello n° 38 a Cadice).

Una storia che è continuata nei secoli. La continuità nella coltivazione della vite in Sardegna è infatti documentata nell’Archivio Vaticano, dove in un registro di spesa del ‘600 veniva registrato l’acquisto di vino bianco di Telavè del villaggio di Triei.

Da tale storia millenaria, protratta avanti per millenni dai viticoltori locali, nasce la Cantina di Talavè.
Nei suoi vigneti ad alberello, coltivati secondo le tecniche locali, si annoverano diverse varietà autoctone come il cannonau antico (foglia trilobata), il muristellu nieddu, e l’amanthosu.
Le uve prodotte in questi vigneti, raccolte manualmente in piccole casse forate ed attentamente vinificate danno vita a vini autoctoni particolari.

Il rosso della cantina di Talavè è segnato dal gusto inconfondibile del muristellu, l'antico vitigno di cui sono emerse tracce negli scavi del complesso nuragico che tutti riportano con il nome di Talavè.

 

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