Cultura 18/06/2011

Aphaia, un viso navale, classico, greco

Aphaia, un viso navale, classico, greco

Avanza, estranea, regale, divina. Attraente, magnetica, abile nella caccia e nella pesca, rapida, scaltra, sicura. E’ la dolce vergine


Un viso navale, classico, greco.

Il naso, disegnato a squadra con la fronte, unisce la prima ruga alle narici, formando un angolo acuto, mentre il mento è stondato come la poppa di un legno. Avanza, estranea, regale, divina, i capelli raccolti, coronata, fendendo le onde, il doppio azzurro di un cielo insulare.

Britomartis è chiamata, la dolce fanciulla, la dolce vergine di Gortina.

Dal profilo coniato in argento, dolce sembra avere più a che fare con una giovinezza eterna; equivale, forse, a fresco, stillante, ombroso, verde, casto, non certo ad un moto particolare dell’animo.

Attraente, magnetica dea della fertilità, abile nella caccia e nella pesca, esperta di reti, rapida, scaltra, sicura del risultato.

Onorata, infine, come Aphaia, “Scomparsa”, porta nel nome l’ondeggiare dei nomi, dei suoi successivi destini: cretese dea madre, poi ninfa e ancora dea ad altre dee confusa.

Anche il racconto dei fatti, il suo mito, scivola nella corsa a rompicollo, saltando in un là presto svanito che come un bosco o un mare si apra e richiuda alle spalle.

Prima di incontrare sul proprio sentiero di ninfa il navarca Minosse, il re che stabilisce nuovi domini e leggi, che la desidera con gioviale ostinazione, ripetendo le imprese del Padre celeste, aveva brillato come potente astro notturno.

Era stata lei a ritrarsi in agguato fin quasi a sparire per, poi, lanciare la sua rete di raggi, scovando l’effimero re di primavera con cui si era unita e che all’equinozio d'autunno veniva festosamente immolato.

La faccia fredda e splendente della luna portava, allora, i segni del sacrificio, benedetto dal ripetersi del ciclo annuale di morte e rinascita.

Ora, nei panni della ninfa Britomartis, che serviva nel corteo di Artemide, prendendosi cura dei cani, toccava a lei fuggire, inseguita dal re.

Una caccia sui monti durata nove mesi, di gola in gola, di picco in picco fino a quello strapiombo sul mare.

La scogliera contro cui brillava la risacca, ferendo gli occhi e le orecchie, dava una speranza di salvezza; la parabola nell’aria e il tuffo verso il fondo le restituiva ancora l’incedere perenne di un tempo, dalla luce al buio.

Stavolta, però, spiccando il salto, non sarebbe più ricomparsa.

Il suo alone – il corpo finito nelle reti dei pescatori – avrebbe raggiunto l’isola di Egina, per celarsi nel gran tempio di calcare bianco che la ricorda col suo nuovo nome, divenuto l’epiteto di una più numinosa presenza: Atena Aphaia.

Così luminoso è il volo e silenzioso il tuffo della luna nell’acqua che l’orizzonte appare diverso per quanto immutabile.

Minosse terminò invece la sua vita mortale in Sicilia, dove era arrivato, inseguendo, Dedalo.

L’architetto, artefice del labirinto, vi era giunto con le ali che aveva costruito per fuggire la prigionia, rapide quando le navi del suo inseguitore.

Di corte in corte, Minosse chiedeva notizie di Dedalo, sfidando i suoi ospiti alla soluzione di un rompicapo.

Mostrava una conchiglia, chiedendo se c‘era qualcuno capace di attraversarla con un filo di lana, riproponendo così la situazione del labirinto.

Bello il mito che sempre riaccenna il proprio tema profondo; in questo caso, un tema marino, salato.

Dedalo, che si era rifugiato sotto la protezione di re Cocalo, non riuscì a sottrarsi alla sfida, opponendo al problema, posto dal signore del mare, un’abilità diversa e, per così dire, terragna.

Dopo aver fatto un piccolo buco in cima al guscio, fece scivolare del miele all’interno.

Introdusse, quindi, una formica, a cui legò il filo che rapidamente passò da un’estremità all’altra della conchiglia.

Minosse aveva scoperto il nascondiglio di Dedalo e chiese al re di consegnarglielo.

Cortesemente, il re lo invitò a prendere un bagno in compagnia delle figlie. E lì, rovesciandogli in capo dell’acqua bollente, fu ucciso.

Morte (e cottura) per acqua, riservata a chi, secondo Tucidite, era stato: “il più antico di quanti conosciamo per tradizione ad avere una flotta e dominare per la maggiore estensione il mare ora greco… “.