Cultura 22/01/2011

La vanitosa cicala e le abbandonate spoglie

Attraversando a piedi un vecchio uliveto, vinto dal bosco, tra sprazzi d’ombra fitta e campacci impolverati, lavorati dai cinghiali. L’ammaliante prosa di Nicola Dal Falco




La cicala


a E.Z. e a G.S.M.


Forse, lo sguardo deve dimenticarsi perché guarda. La sua azione è solo fisica.
Una carezza, ad esempio, scivola via, un salto è un salto e il passo sposta il nostro baricentro, radicandoci momentaneamente altrove.
A volte, la vista è un’altra vista.

Riconoscendo alcuni di questi sguardi e le conseguenze che paiono provocare per urto o scivolamento, per abrasione e aggiunta, verrebbe quasi da catalogarli come spiragli sul tempo che copre e scopre.
Sono loro a scostare il velo e, sommo mistero, a ricollocarlo al suo posto.

Ieri, andavo con il cane e il suo rustico, allampanato padrone in un vecchio uliveto, vinto dal bosco: sprazzi d’ombra fitta e campacci impolverati, lavorati dai cinghiali.

I capelli color vinaccia, tinti e ritinti, gli occhi chiari e i panni del bracconiere conferivano al compare un non so che di eremitico, l’aria di una vocazione fallita, ma ancora operante.
Passeggiando tra le buche e i rovi si studiava di apparire garbato, di ripulire discorsi e giudizi.

Camminava e conversava lentamente, con pause scelte e gesti succinti, riuscendo comunque eloquente proprio come si farebbe ad un ballo o in un senato accademico, così da scrutare il mondo senza farsene sorprendere.

Vent’anni prima, quando lavorava ancora per l’Azienda Forestale, lui stesso aveva piantato i filari di noci, allineati e tremanti nell’afa.
Ma fu solo dopo essersi fermato sotto un olmo ed aver prestato orecchio alle cicale, che gli venne in mente di raccontarmi quanto il caso prepara da tempo, farcendo di senso gli incontri tra sconosciuti.

Era un piccolo ricordo d’infanzia che a me fece l’effetto di un frammento di poesia, assimilabile all’idillio, almeno nella fugacità e perfezione della scena.
Ripensava, sospinto dal frinire dell’insetto sui rami, a quella volta in cui, seduto fuori dall’uscio, giocherellava con un cucchiaio, scavando qua e là la terra ai suoi piedi fino a che non apparve un insetto verdissimo, acquoso, quasi trasparente.
Pareva una goccia di vetro, un pendaglio di orecchino appena soffiato.
Poi, piano piano, alla luce del sole, la cicala prese a mutare colore, e da verde che era divenne prima grigia e poi bruna.

Calcificandosi, relegava sempre più a fondo i propri umori, custodendo quel liquore d’erbe che eterizza la terra al mattino o dopo un rovescio di pioggia.
Ora il processo che l’aveva trasformata in una scheggia di calcare era compiuto e lei, spiegando le ali, volò via.

Alla fine, tutto il brevissimo racconto sembrava scaturire dallo sguardo di un bambino, seduto a giocare.
Sguardo e gesti conditi di un’affabile e verrebbe da aggiungere – mansueta – distrazione.

La via delle nascite passa, necessariamente, dallo stato minerale e lo scavalca fino a trasformare l’essere in pietra viva e volante.
Condizione irrinunciabile perché, morendo, ci si svuoti, liberando le proprie spoglie tra le scaglie di un tronco. Come fa la vanitosa cicala.



Podere Il Pantano, 7 luglio 2010