L'arca olearia 14/07/2007

OLIVE INDUSTRY, PRO. L'OLIVICOLTURA TRADIZIONALE PRESENTA NOTEVOLI LIMITI, E' NECESSARIA UNA SVOLTA. LA SCELTA DEL MONOCONO RESTA SEMPRE VALIDA. BISOGNA SOLO FAVORIRE UNA CORRETTA APPLICAZIONE DELLA TECNICA

La posizione di Giuseppe Fontanazza. Il superintensivo non è un'anomalia per l'Italia. Occorre accostarsi ai sistemi avanzati della frutticoltura industriale, avendo come obiettivo la riduzione della fase improduttiva, la costanza di produzione e la possibilità di meccanizzare raccolta e potatura. In Spagna, e nei Paesi dell'emisfero sud, il sistema di olivicoltura intensiva meccanizzata rappresenta una realtà diffusa su larga scala



OLIVICOLTURA INTENSIVA E OLIVICOLTURA SUPERINTENSIVA: QUESTE SCONOSCIUTE!

Intervengo in un ampio dibattito che si è aperto in via informatica grazie a “Teatro Naturale”, dovuto alla sensibilità del Dr Luigi Caricato la cui militanza nel settore olivicolo come molti addetti ai lavori conoscono, dura da anni.

Prima di entrare nella discussione su tematiche specifiche in riferimento ad articoli comparsi su questa rivista on line, vorrei soffermarmi su una considerazione preliminare nel tentativo di capire se le varie argomentazioni trattate si riferiscono alla olivicoltura italiana o riguardano il sistema in generale che, come è noto, interessa il nostro ed altri Paesi comunitari così come Paesi mediterranei e del medio Oriente ai quali recentemente si sono aggiunti altri dell’emisfero sud e gli Stati Uniti.

In sostanza vorrei capire se chi scrive abbia ben presente che l’olivicoltura tradizionale, e più specificatamente quella italiana, manifesta notevoli limiti rispetto ad un nuovo concetto di olivicoltura, diffuso a livello globale, intesa come “olive industry” che abbraccia l’intera filiera produttiva dal vivaismo alla produzione, alla trasformazione e alla qualificazione del prodotto; dove il concetto di mercato rientra in strategie di marketing che presuppongono l’esistenza di target di consumatori che possiamo distinguere in tre categorie: di massa, di nicchia e di elite dell’olio extra vergine di oliva, volendo rimanere nell’ambito della migliore categoria merceologica di questo prodotto.

Una impostazione in tal senso è chiaramente evidenziabile nella olivicoltura di aree non tradizionali che comprendono Nuova Zelanda; Australia, Sud Africa, Argentina, Cile, Messico, Stati Uniti dove sono limitatissime le condizionanti esperienze di olivicoltura tradizionale.

Quando alla metà degli anni ’70 del secolo scorso, sulla base di indicazioni che venivano dalle esperienze di rinnovamento olivicolo condotte nella grande area olivicola spagnola dell’Andalusia, ebbi l’idea, tenendo presente esperienze preliminari italiane degli anni ’60, di impostare un modello di coltivazione dell’olivo volutamente indicato come Olivicoltura Alternativa (Edagricole 1982), avevo ben presente la necessità di dare una svolta al perdurare dei sistemi tradizionali che caratterizzavano e, ahimè caratterizzano ancora la nostra olivicoltura.

Il modello proposto e successivamente sviluppato tenta di accostarsi ai sistemi avanzati della frutticoltura industriale avendo come obiettivo, la riduzione della fase improduttiva, la costanza di produzione e la possibilità di meccanizzare sia la raccolta che la potatura. Dal punto di vista più specificatamente produttivo è presupposto fondamentale del modello coniugare alta quantità di produzione con elevata qualità del prodotto, lasciando alla interazione cultivar/ambiente e alle tecniche di raccolta e molitura la possibilità di combinare alta qualità con tipicità (Olivicoltura Intensiva Meccanizzata, Edagricole 1993.

Ricordo bene che il problema principale che mi si presentò nella definizione del modello era legato alla scelta varietale, scaturito successivamente in una più ampia problematica genetica della specie. E’ noto che le varietà di olivo sono tantissime, differenziate per ambiente e per caratteristiche del prodotto non sempre note in senso individuale, ma soprattutto prive allora di esperienze sulla effettiva capacità di rispondere a un modello intensivo di coltivazione così come concepito. Si poneva inoltre il problema, già risolto in frutticoltura, se proporre o meno la irrigazione,considerato il fatto che l’olivo è pianta tollerante la siccità, ma comunque in grado di avvantaggiarsi dell’irrigazione ai fini della esaltazione della produttività in senso quantitativo e qualitativo. Dal punto di vista ambientale si poneva inotre il problema di proteggere il suolo da fenomeni di erosione e di perdita di fertilità conseguente alle ripetute lavorazioni del terreno più o meno superficiali, tenendo presente tra l’altro la lenta crescita della pianta.

La scelta per il modello è stata quella di proporre il miglior sistema di irrigazione localizzata, preferibilmente “a goccia”, sistematico o di soccorso in relazione alla esigenza fisiologica della pianta e alla disponibilità idrica naturale, mentre per la gestione del suolo la scelta è andata all’inerbimento permanente, preferibilmente sull’interfila.

Per quanto riguarda invece la scelta varietale, non è stato facile sciogliere il nodo della complessità genetica dell’olivo in relazione ad un modello para-frutticolo; gli orientamenti proposti sono stati orientati alla individuazione delle migliori varietà presenti nei diversi ambienti dal punto di vista produttivo e della qualità dell’olio, più vicine alla necessità imposta dal modello. Rimane tuttora aperto la problematica connessa al prevalente carattere di elevata vigoria delle varietà di olivo che costituisce un fattore limitante rispetto ai sistemi di coltivazione intensiva in quanto va ad incidere sulla precocità di entrata in produzione, sul controllo del volume della chioma e sulla risposta alla meccanizzazione della raccolta con vibratori del tronco combinati con ombrello intercettatore oltre un certo limite di età della pianta. Peggio ancora se l’oliveto si vuole vincolare al concetto tradizionale secondo cui una volta realizzato dovrà servire per le generazioni future comprendenti figli, nipoti, pronipoti, etc.
Da qui l’idea di assegnare al modello una ciclicità di rinnovamento dell’intera parte aerea della pianta, stimabile in 30-40 anni, attraverso il rinnovamento intergrale con taglio alla base e ricostituzione dell’albero da singolo pollone. Da qui la scelta, ancora una volta contro l’opinione corrente di piantare l’oliveto con olivi da talea contrastando invece il perdurare del convincimento di preferire piante innestate su generico portinnesto da seme.

Oliveto intensivo di 20 anni allevato a monocono sottoposto a potatura meccanica con potatrice Tanesini

Passiamo ora a discutere sulla scelta della forma di allevamento, il tanto contestato monocono. Quando Alberto Grimelli scrive nell’articolo del 16 giugno scorso su “Teatro Naturale” che avrei ignorato i principi bio-fisiologici evidenziati dal mio maestro Prof. N. Iacoboni nel 1962, in netta polemica con la forma di allevamento ad ipsilon che condivido a pieno, scegliendo per il mio modello la forma di allevamento a monocono, debbo invece sottolineare che egli ignora che l’olivo è pianta basitona, caratterizzata da dominanza apicale. Infatti se si affida in campo la giovane pianta di olivo, predisposta in vivaio ad asse unico, ad un tutore per favorire la crescita del tronco in senso verticale la formazione della chioma avviene rapidamente poiché necessitano minimi interventi cesori, ottenendo precocità di entrata in produzione già nella fase di formazione della chioma. Cosa ben diversa nella forma di allevamento ad ipsilon dove la divaricazione delle due branche opposte, proprio per effetto della basitonia si stimola l’accrescimento dei rami basali che insorgono sul dorso delle due branche compromettendo la dominanza apicale delle stesse. Da qui le opportune critiche dello Iacoboni in relazione ai tagli continui delle ramificazioni verticali alla base delle branche richiesti o alla curvatura delle stesse per ridurre l’effetto della basitonia e indurre la fruttificazione.
Operazioni da certosino e ovviamente non compatibili con l’economia di gestione di un oliveto.

Se un rilievo si può fare all’allevamento a monocono e la difficoltà di prolungare il ciclo di crescita e produttivo della pianta oltre 30-40 anni, data l’elevata vigoria delle vecchie varietà di olivo. Nella forma di allevamento a vaso, pensando all’impiego di vibratori per la raccolta meccanica, una volta raggiunta la rigidità del tronco è possibile mantenere la pianta passando alla vibrazione delle branche principali. Tuttavia quest’ultima forma di allevamento non si concilia con la potatura meccanica, né tanto meno con il restringimento del sesto d’impianto sulla fila. Ecco perché con forme di allevamento caratterizzate da chioma espansa e voluminosa (vaso, globo, etc.) il sesto d’impianto è generalmente quadrato, mentre il monocono data la verticalizzazione della chioma e la possibilità-convenienza di contenere con tagli di ritorno l’allungamento delle branche laterali, consente l’intensificazione dell’impianto attraverso il sesto rettangolare. Che poi anziché essere 6x3 m è più opportuno che sia 6x4 m o 6,5x4 m in relazione alla vigoria della varietà e all’ambiente di coltivazione nulla cambia rispetto agli obiettivi che il modello si propone, quello cioè di sviluppare in tempi rapidi una adeguata superficie di chioma ad ettaro (8.000-10.000 mq) per garantire elevata produzione. Il monocono assolutamente compatibile con la raccolta meccanica con vibratore del tronco e ombrello intercettatore consente la potatura meccanica elementi fondamentali per il drastico contenimento dei costi di produzione, riducendo l’impiego di manodopera ad ettaro a non più di 80 ore, il tutto in perfetta sintonia con la qualità del prodotto. Che poi, se come dice Grimelli, “ la maggior parte degli olivicoltori italiani non hanno accettato questa proposta”, vanificando così lo studio di 40 anni circa mio personale e quello dei miei collaboratori in ambito dell’Istituto di Olivicoltura del CNR di Perugia,ritengo che ciò sia legato al fatto che in Italia perdura tenacemente il sistema tradizionale di olivicoltura con scarso interesse alla meccanizzazione integrale e alla esaltazione della capacità produttiva della pianta. Solo in parte giustificato dalle limitate dimensione degli impianti, dove spesso il coltivatore nella analisi economica che fa della gestione dell’oliveto non guarda alla remunerazione della sua manodopera scaricando la stessa sulla gestione complessiva dell’azienda.

Raccolta meccanica con vendemmiatrice Braud in oliveto cv FS-17 al 4° anno d'impianto

Non è da sottovalutare inoltre che in molti casi è venuta a mancare la corretta applicazione della tecnica di allevamento e potatura del monocono per carenza di assistenza tecnica o anche per una certa malafede nella applicazione della tecnologia di allevamento volutamente intenzionata a dimostrare l’incompatibiltà della forma di allevamento con l’olivo. Posso comunque assicurare il Dr Grimelli ed altri come lui critici del monocono, ricercatori e non, che impianti di dimensioni compatibili con la realtà italiana che fanno riferimento al mio modello di olivicoltura intensiva meccanizzata ormai datati di oltre 20 anni si trovano dai Laghi Lombardi alla provincia di Trapani passando per la Romagna, le Marche, la Toscana, l’Umbria, il Lazio, l’Abruzzo,La Campania, il Molise e la Puglia non escludendo la Calabria e la Basilicata.

Se questa è la storia vissuta negli ultimi 40 anni dell’olivicoltura italiana dove alternative all’innovazione tecnologica da me proposte vanno sostanzialmente dall’adeguamento delle forme di allevamento tradizionali, alla potatura agevolata, con forbici e seghetti pneumatici e alla raccolta agevolata con pettini più o meno vibranti ritengo compatibili con oliveti familiari o la proposta di raccolta meccanica con vibratori di tronco o di branche in combinazione con forme a vaso più o meno modificate, ben diversa è la storia che riguarda l’evoluzione e la nascita dell’olivicoltura in Paesi tecnologicamente avanzati.

Raccolta meccanica con scavallatrice trainata Gregoire in oliveto ad alta densità della cv FS -17 al 4° anno d'impianto

In Spagna e più ancora nei nuovi Paesi olivicoli ricadenti nell’emisfero sud la forma di allevamento a monocono (eje central in spagnolo e central leader in inglese) con la variante del monocaule libero, ma è meglio dire il sistema di olivicoltura intensiva meccanizzata rappresenta una realtà diffusa ed utilizzata su larga scala. Ma in questi Paesi l’olivicoltura è “olive industry”; infatti operano vere e proprie imprese olivicole su ampi territori vocati alla olivicoltura e con aziende di notevole dimensione; basta citare il caso del Cile dove in poco meno di 10 anni sono stati realizzati 6.000 ettari di nuovi impianti secondo i criteri dell’olivicoltura intensiva meccanizzata ad opera di appena 40 imprese, ma non mancano casi in Australia come in Argentina di imprese olivicole ex-novo da 500 fino a 2000 ettari di oliveti per impresa che seguono il medesimo criterio.

La domanda che ci si può porre a questo punto se sia possibile pensare ad un rilancio dell’olivicoltura italiana su base imprenditoriale “olive industry” , concependo un sistema produttivo su dimensioni aziendali compatibili con una gestione interna di raccolta e potatura meccanica e possibilmente con un frantoio aziendale tecnologicamente avanzato per una maggiore economica e corretta gestione della produzione, trasformazione, conservazione dell’olio e confezionamento dello stesso, cosa normale per le aziende olivicole delle nuove aree di coltivazione e ancora rare in Italia. Una scelta così radicale tuttavia riguarda si l’imprenditore agricolo di tradizione o nuovo che sia, ma è anche fortemente condizionata da scelte politiche e di programmazione economica assolutamente carente nel nostro Paese dove, pur trovandosi condizioni ambientali e di territorio idonee alla nascita di una olivicoltura nuova su larga scala, la produzione di olio rimane insufficiente per l’autoconsumo, ed implica una forte importazione di olio per alimentare le industrie olearie, operanti in Italia, che controllano una larga fetta del mercato internazionale dell’olio.

Nessun piano olivicolo tra i tanti proposti dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso, sono stati recepiti né a livello nazionale né a livello regionale, lasciando l’olivicoltore piccolo o grande che sia in balia di se stesso che tira così a campare nella speranza che la tipicità legata al territorio o alle innumerevoli varietà presenti nel nostro Paese, alle numerose Dop e a qualche Igp (per la verità soltanto una) possano risolvere il problema della redditività del sistema produttivo olivicolo; mentre attualmente sono in molti a sperare nel varo della etichetta “made in Italy” per l’olio d’oliva considerata la panacea di tutti i mali. Si continua invece ad ignorare che alla base di tutto in olivicoltura c’è il problema del controllo della produzione in senso quanti-qualitativo ed economico quale presupposto per strategie di marketing, più o meno sofisticate, se è vero che l’Italia può vantare un primato di qualità riconosciuta a livello nazionale e internazionale.

Seppure rari, tuttavia non mancano esempi di validi imprenditori italiani che con impegno personale e lungimiranza hanno affrontato il problema di riorganizzazione del sistema produttivo olivicolo trendone risultati economici soddisfacenti; gli altri olivicoltori (centinaia di migliaia) anch’essi tra piccoli e grandi sperano in un miracolo di “Sant’Olivo” che deve essere ancora beatificato, avendo ormai perduto le speranze nel “provvidenziale” e prolungato intervento comunitario.

Raccolta con macchina combinata vibratore del tronco e ombrello intercettatore della ditta Berardinucci

Passiamo ora all’altro argomento, oggetto in tempi recenti di acceso dibattito che riguarda la così detta olivicoltura superintensiva da taluni considerata una “anomalia” nel sistema di coltivazione dell’olivo o addirittura antieconomica dal puro punto di vista concettuale.
Poiché anche in questo caso ho vissuto e vivo in prima persona una esperienza diretta, vorrei chiarire la mia opinione al riguardo, evidenziando aspetti positivi e negativi attualmente riconducibili al sistema, in quanto si tratta di una tecnologia in continua evoluzione ed assolutamente rivoluzionaria.

Il sistema attualmente viene spinto dai media di settore attraverso forzature commerciali provenienti dalla Spagna con supporters locali che per come viene presentato può effettivamente creare disorientamenti o eccessive illusioni sulla validità della olivicoltura superintensiva; mentre se correttamente attuata è in grado di accelerare la fase di entrata in piena produzione dell’impianto e di consentire ottimi livelli produttivi quanto-qualitativi, con un drastico abbattimento dei costi di produzione attraverso la meccanizzazione della potatura e la raccolta con macchine scavallatrici (non si tratta di carica di cavalleria, bensì di mezzi meccanici validissimi ampiamente usati in viticoltura e nella coltivazione del caffè da oltre 30 anni).

Per quanto mi riguarda l’idea di impostare un modello avanzato di olivicoltura predisposto alla raccolta in continuo nasce a metà degli anni ‘80 del secolo precedente quando utilizzando una vecchia vendemmiatrice “Pasquali” effettuai prove soddisfacenti di raccolta in un oliveto al quinto anno del clone di olivo” I-77”, selezionato nell’ambito del germoplasma IRO-CNR . Il clone è caratterizzato da accrescimento di media vigoria e da precocità di fruttificazione per cui ben si prestava per le prove preliminari di raccolta con scavallatrice.

Nel concepire successivamente il modello basato su un numero di piante ad ettaro non superiore a 1.250 (sesto 4x2 m), mi sono posto il problema varietale in considerazione della indisponibilità di cultivar con caratteristiche particolari per le finalità del modello. Da qui la necessità di utilizzare la mia attività di ricerca sul miglioramento genetico dell’olivo, iniziata nel 1970, finalizzandola alla selezione di nuove linee genetiche di portinnesti nanizzanti e di nuove varietà caratterizzate da vigoria contenuta ed alta produttività. Poiché l’impiego di portinnesti di vigoria contenuta, data la caratteristica della specie, forniscono risposte limitate al fine del contenimento della vigoria delle varietà se non per combinazione portinnesto e nesto specifiche, ho seguito la strada alternativa della costituzione di nuove linee genetiche poco vigorose con caratteristiche appropriate al modello di olivicoltura ad alta densità. Tale attività ha portato alla costituzione di nuovi genotipi da incrocio già brevettate quali la “FS 17”, la “Don Carlo” e recentemente la “Giulia”. Ancora prima del deposito brevettuale le nuove varietà sono state testate in pieno campo ed in ambienti differenti per verificarne le caratteristiche bio-agronomiche per verificare la corrispondenza delle caratteristiche bioagronomiche. Relativamente alle prime due linee, coltivate ormai da anni sia in Italia che all’estero, danno risposte assolutamente positive sia in coltura intensiva che ad alta densità.

Le tre nuove varietà sono state selezionate anche in relazione alla differente epoca di maturazione del frutto e alle caratteristiche compositive ed organolettiche dell’olio mentre in comune presentano vigoria contenuta, autofertilità, precoce entrata di produzione, alta produttività e resa in olio medio-alta.
Malgrado i risultati positivi ottenuti con queste nuove varietà, lungi da me l’idea che si possa diffondere su larga scala e addirittura in ambienti fortemente differenziati per fattori climatici e podologici la olivicoltura sia ad alta che a media densità utilizzando una o poco più varietà. Rimane dunque per la olivicoltura superintensiva il presupposto fondamentale di disporre di varietà con caratteristiche specifiche ed in numero consistente, in quanto, a mio avviso, è difficile reperire tra le varietà esistenti, siano esse italiane che straniere, le caratteristiche desiderate per cui è necessario puntare sul miglioramento genetico. D’altra parte le pochissime varietà tradizionali spagnole fino ad ora utilizzate in larga scala (Arbequina e Arbosana), seppur caratterizzate da precocità di entrata in produzione, buona produttività e vigoria contenuta presentano caratteristiche non adeguate per resa in olio, costanza produttiva e caratteristica dell’olio.

Programmi di miglioramento genetico dell’olivo, recentemente orientate verso gli impianti di oliveto ad alta densità vengono portati avanti anche da altri gruppi di ricerca e particolarmente in Spagna e in Israele, a significare l’interesse per il nuovo sistema di coltivazione e per superare l’utilizzazione delle varietà tradizionali.

Relativamente alla meccanizzazione della raccolta in continuo, la mia opinione è che la linea seguita inizialmente di utilizzare vendemmiatrici con qualche modifica si debba considerare ormai superata, tanto è vero che talune ditte costruttrici hanno provveduto a realizzare scavallatrici semoventi per l’olivo; ritengo tuttavia che nel caso soprattutto dell’Italia, in considerazione delle dimensioni delle aziende nostrane e della ricorrente presenza contemporanea di viticoltura ed olivicoltura sia opportuno puntare sulla realizzazione di macchine scavallatrici ambivalenti preferibilmente trainate, oppure su macchine specifiche per l’olivo ma semplificate rispetto alle precedenti al fine di contenerne il prezzo così come è l’ipotesi costruttiva di una industria meccanica italiana.

Non comprendo come mai mentre non si rilevano critiche sui sistemi di raccolta con scavallatrice per la viticoltura di qualità il cui fine è il contenimento dei costi di produzione si voglia invece porre quasi un veto al principio di raccolta meccanica in continuo per l’olivo e di conseguenza alla realizzazione di impianti ad alta densità dati i vantaggi che essa comporta. A meno che non si ritenga che sia impossibile produrre varietà ad hoc con il miglioramento genetico oppure che si voglia vincolare il nuovo sistema all’utilizzazione di varietà tradizionali ricercandole anche nell’ambito delle cosiddette varietà minori. L’unico problema che esiste invece è quello di essere fortemente in ritardo con il miglioramento genetico dell’olivo, visto che le varietà tradizionali più o meno empiricamente selezionate nel corso dei secoli e finalizzate a tecniche di coltivazione ampiamente superate dalla logica di evoluzione del comparto, limitano, come già sottolineato, una reale evoluzione della olivicoltura.

Il mettere in dubbio che un sistema di coltivazione basato sull’alta densità con un numero di piante ad ettaro ragionevole, a mio parere non superiore a 1.250, e sulla meccanizzazione integrale ivi compresa potatura e raccolta meccanica con scavallatrice non rappresenti l’opportunità di contenere fortemente i costi di produzione senza compromettere quantità, costanza e qualità del prodotto attraverso la scelta di varietà idonee, significa voler negare la validità dell’innovazione tecnologica che, seppur giovane ed in evoluzione, non è una utopia.

D’altra parte, i dati che vengono citati sulla attuale estensione di alcune migliaia di ettari di impianti ad alta densità in Spagna come nelle nuove aree olivicole dall’Australia alle Americhe e più recentemente in Italia, legati ad una imprenditorialità avanzata dimostrano il contrario. Va comunque sottolineato che non sempre vengono seguiti indirizzi tecnici convalidati da opportuna sperimentazione; così come ad esempio la proposta del “modello spagnolo”, che poi nasce dalla nostra tecnologia, ma che segue indirizzi differenti quali l’utilizzazione di varietà spagnole tradizionali, ridotte spesso ad una soltanto o a due con un iperbolico numero di piante ad ettaro prossimo a 2.500, oltre a comportare investimenti elevati, si traduce in risposte produttive quanto-qualitative non in linea con le aspettative soprattutto di olio data la bassa resa e la modesta qualità.
In conclusione rimango dell’idea di non sottovalutare sia il modello di olivicoltura intensivo che quello ad alta densità fruibili in funzione delle specifiche necessità aziendali.

La validità dell’ultimo modello è sostenuta dai risultati produttivi ormai pluriennali in termini di costanza, quantità e qualità del prodotto rilevati in pieno campo in numerose aziende, sia in Italia che all’estero, inizialmente con la cv FS 17 e successivamente con l’altra varietà “Don Carlo” . Relativamente all’utilizzo di macchine scavallatrici l’esperienze di campo hanno messo in evidenza la opportunità di appiattire la forma di allevamento della chioma nel senso del filare, mantenendo comunque l’impostazione ad asse centrale in accordo con la logica evoluzione delle macchine sulla base delle risultanze in campo.

Da qui la mia opinione di considerare un errore le critiche negative e spesso gratuite ai sistemi avanzati di coltivazione dell’olivo mentre è più ovvio spingere la ricerca e la sperimentazione ad andare avanti se non si vuole mettere in pericolo la sopravvivenza della coltura che rischia di essere travolta dagli alti costi di produzione soprattutto nel nostro Paese, dove prevale la olivicoltura tradizionale con i limiti economici sotto gli occhi di tutti. Fermo restando la necessità, in particolare italiana, di salvaguardare quella parte di olivicoltura con valenza storico-ambientale anche ai fini di salvaguardia del paesaggio tradizionale caratterizzato dalla presenza di olivi centenari e ultracentenari; sottolineando tuttavia l’esigenza del sostegno economico della stessa da parte di enti pubblici, data l’impossibilità di essere autogestita dal privato.





N.B. Tengo a precisare per rispetto nei confronti della rivista e dei lettori che ho utilizzato per questo articolo la prima persona e non la terza persona nè il plurale maiestatis,come di mia consuetudine. La scelta è dovuta al fatto che essendo ormai fuori dall’Istituto di Olivicoltura del CNR, ho ritenuto corretto non coinvolgere l’Istituzione, assumendomi la responsabilità delle affermazioni che tengo a sottolineare non mirate a sterile polemica ma a fare chiarezza, convinto fermamente della necessità di un reale rinnovamento della olivicoltura italiana.

di Giuseppe Fontanazza