Mondo 22/06/2013

20 milioni di ettari all'anno acquistati da multinazionali e hedge found

Il primo bersaglio è l’Africa, con quasi il 50% delle negoziazioni, seguita da Asia (33%) e America Latina. Ma l'Europa non è esente dal fenomeno del land grabbing: 5 milioni gli ettari "accaparrati"


La “corsa all’oro” del terzo millennio si chiama “land grabbing” e negli ultimi anni ha assunto dimensioni impressionanti: si tratta letteralmente dell’accaparramento della terra su vasta scala, ossia quel meccanismo tramite cui moderni conquistatori (multinazionali, governi e fondi di investimento) acquisiscono il diritto di sfruttare vaste aree coltivabili del Sud del mondo, a discapito delle popolazioni locali che perdono così la loro principale fonte di sostentamento. Per questo è già stato definito come una nuova forma di colonialismo ed è per questo che va assolutamente arginato: è immorale fare affari e speculazioni sul cibo togliendo risorse e nutrimento ai Paesi poveri. Lo afferma la Cia-Confederazione italiana agricoltori, che ha deciso di aprire la VII Conferenza economica a Lecce con l’anteprima del documentario del giornalista Francesco De Augustinis e la lettura dell’attrice Maria Amelia Monti sul “land grabbing”.

Che il fenomeno dell’acquisizione di terreni agricoli nel mondo stia crescendo a ritmi vertiginosi lo dimostrano i numeri -sottolinea la Cia-. Nell’ultimo decennio, secondo l’International Land Coalition, sono stati venduti, affittati o concessi in uso a 40-50 e fino a 99 anni ben 203 milioni di ettari, oltre 20 milioni l’anno: vuol dire una superficie pari a 7 volte quella dell’Italia, più o meno le dimensioni dell’Europa nord-occidentale. E il primo obiettivo delle negoziazioni è l’Africa, in particolare quella sub-sahariana, che rappresenta con 134,5 milioni di ettari quasi il 50 per cento delle trattative. Seguono l’Asia con il 33 per cento (43,5 milioni di ettari) e l’America Latina (18,3 milioni). Ma una piccola quota, circa 5 milioni di ettari, riguarda anche la campagna europea, soprattutto Romania, Bulgaria, Ungheria, Serbia e Ucraina.

Alla base di questa “fame di terra”, che diventa oggetto di speculazioni economiche e finanziarie internazionali, c’è prima di tutto la crescita della domanda di cibo, con il suo effetto moltiplicatore sui prezzi delle materie prime agricole. Nel 2050 -ricorda la Cia- la popolazione mondiale arriverà a toccare 9 miliardi, un terzo in più di oggi, e per soddisfare la domanda globale di generi alimentari la produzione agricola dovrebbe aumentare del 70 per cento. Ora, se è vero che queste previsioni hanno finalmente portato il tema della sicurezza alimentare nelle agende politiche dei vertici internazionali, come l’ultimo G20 di Parigi, dall’altro hanno scatenato la corsa alla terra in Paesi fortemente importatori. Paesi ricchi che però non hanno terre coltivabili e acqua (come ad esempio l’Arabia Saudita) o che contano su un’alta densità di popolazione (come il Giappone) o che vedono crescere in maniera esponenziale la domanda interna (come la Cina). Non solo produzione agricola però. Dietro il “land grabbing” spesso c’è anche il business delle agro-energie: nel 37 per cento dei casi, infatti, a risvegliare l’interesse per la terra c’è la produzione di biocarburanti, cioè i carburanti derivati dalla trasformazione di prodotti agricoli.

In tutti i casi, però, a farne le spese sono i popoli locali che vivono nella fame e nella povertà -osserva la Cia-. La dinamica è quasi sempre la stessa: in cambio della cessione o dell’affitto di vaste aree coltivabili, i “ladri di terra” propongono progetti di sviluppo per i villaggi e le comunità, ad esempio sulla salute delle donne, l’educazione dei bambini o per il miglioramento dei redditi degli abitanti. Ma molto spesso non ci sono garanzie e nella maggior parte dei casi i programmi non vengono realizzati. Il problema resta sempre lo stesso: da un lato, non esistono norme internazionali che regolino e controllino negoziati e contratti, dall’altro spesso i governi locali non coinvolgono i contadini dei villaggi, che si trovano espropriati della terra anche se sono loro a lavorarla.

Ecco perché ora è necessario agire a livello mondiale per mettere un freno al “land grabbing”. Un primo importante passo avanti contro l’accaparramento delle terre è venuto dall’accordo voluto dalla Fao e ratificato a Roma l’11 maggio 2012 da 124 Paesi membri del Comitato per la sicurezza globale, che hanno scelto di adottare le “Direttive volontarie per la gestione responsabile della terra” -ricorda la Cia-. Non sono previste sanzioni, se non morali, per gli Stati e le imprese che contribuiscono al “land grabbing”, ma per la prima volta sono individuati principi e linee guida ai quali i governi di tutto il mondo dovrebbero ispirarsi per assicurare un più equo accesso alla terra. Anche nel corso del G8 irlandese del 17 e 18 giugno, Oxfam ha chiesto a gran voce ai leader mondiali la completa trasparenza sulle grandi acquisizioni di terreni, visto che finora le compravendite condotte in maniera poco chiara hanno esposto le comunità più vulnerabili del mondo al rischio di perdere ogni mezzo di sussistenza.

E’ altrettanto chiaro però che, per contrastare fenomeni odiosi come il “land grabbing” e lottare contro la fame nel mondo, è sempre più urgente favorire politiche che permettano di aumentare la produttività agricola nei Paesi più poveri. Per sconfiggere l’emergenza alimentare e combattere la povertà (su 1,4 milioni di persone che vivono nella povertà assoluta il 70 per cento risiede in aree rurali) bisogna garantire alle comunità locali l’accesso alla terra e anche al credito. D’altra parte -conclude la Cia- solo un futuro con più agricoltura può permetterci di affrontare la sfida della crescente domanda alimentare. Solo attraverso politiche globali orientate allo sviluppo produttivo dell’agricoltura e alla stabilizzazione dei mercati contro le speculazioni sul cibo si può davvero sconfiggere la povertà e sfamare il pianeta. In vista del 2050.

di C. S.