L'arca olearia 17/10/2014

I cinesi non si limiteranno ad appiccicare Made in Italy sulle “loro” bottiglie d'olio d'oliva

I cinesi non si limiteranno ad appiccicare Made in Italy sulle “loro” bottiglie d'olio d'oliva

Il passaggio dei grandi marchi, non solo italiani, a capital venture e a potenze economiche di primo piano segna un'ulteriore evoluzione per il comparto. Un punto di non ritorno. Nulla sarà più come prima e occorre una nuove strategia di rilancio per l'olivicoltura italiana


Confesso che a me il riso all'inglese non dispiace: riso bollito, un filo d'olio extravergine, qualche goccia di limone ed il risultato è tutt'altro che disprezzabile. Lo hanno scoperto anche i cinesi, grandi consumatori di riso, che di solito lo accompagnano con polpettine o pezzetti di pesce o carne dei più svariati animali, ma ora sembra che anche il solo olio (d'oliva naturalmente e non di soia) soddisfi il loro palato. Forse è una possibile spiegazione dell'acquisto effettuato nei giorni scorsi da parte di un colosso cinese del settore agroalimentare di alcuni marchi di olio d'oliva (Berio e Sagra) già da tempo presenti sul mercato cinese, un mercato in cui, stando ai dati ufficiali, il consumo di olio d’oliva aumenta del 50% l'anno (e quindi le importazioni: la Cina non produce olio d'oliva). L'acquisto di marchi italiani si prospetta quindi come un grosso affare: continuare a produrre olio in Italia, per venderlo direttamente in Cina, attraverso una propria catena di supermercati, garantendo che si tratta di olio made in Italy. Analogamente (è una facile previsione) farà, sui mercati di mezzo mondo, il fondo di investimento inglese che è subentrato alla spagnola Deoleo nella proprietà dei marchi Bertolli, Carapelli e Sasso, tutte aziende che continuano ovviamente a “produrre” olio in Italia.

L'olio extravergine italiano sembra dunque avere un futuro roseo, sempre più apprezzato e diffuso in Europa, come in Asia e negli Stati Uniti. Il paradosso è che l'olio ottenuto da olive italiane va sempre più diminuendo: quest'anno la campagna olearia sarà particolarmente nera per le avverse condizioni climatiche e l'invasione in molte zone di insetti “ghiotti” del frutto della pianta di olivo.

Come si spiega questa (solo apparente) contraddizione? In modo molto semplice: la convinzione degli italiani di essere furbi, molto furbi, più furbi di tutti.

Alla metà degli anni ‘50 del secolo scorso, quando si trattò di tracciare le linee per la rinascita economica di un paese gravemente colpito dagli eventi bellici, la scelta fu a favore dello sviluppo dell'industria, relegando in un cantuccio l'agricoltura, in quanto a basso valore aggiunto, e quindi non in grado di assicurare agli addetti redditi comparabili con quelli dei lavoratori dell'industria, che in un paese privo di materie prime non poteva che essere industria di trasformazione: importare, trasformare, esportare, divennero i tre pilastri della nascente industria italiana. Fu quasi naturale, nei trattati stipulati a partire dagli anni '50, relativi ai rapporti tra i paesi della comunità economica europea, stabilire che il paese produttore fosse quello in cui era avvenuta l'ultima fase della lavorazione di un prodotto: quindi “prodotti italiani” sarebbero stati tutti quelli ottenuti in Italia con materie prime, ed anche semilavorati, importati dall'estero. Basti pensare alle automobili Fiat, fabbricate in Italia, e quindi rigorosamente italiane, con materie prime tutte d'importazione. La soluzione apparve ottima: Vittorio Valletta, a quel tempo amministratore delegato della Fiat, affermava che quando una cosa andava bene per la Fiat significava che andava bene per l'Italia; una valutazione che non faceva battere ciglio alle truppe cammellate della società torinese, largamente presenti nei territori del potere politico italiano e che, per la parte che li riguardava, trovava consenzienti tutti i grandi industriali italiani. Nessuno mostrò di rendersi conto che quella prescelta era una strada diabolica, capace di condurre in luoghi meravigliosi, ma anche verso il baratro. In un primo momento infatti tutto sembrò andare per il meglio, qualcuno pensò anzi di profittare della possibilità offerta dal sistema ed iniziò a produrre all'estero per poi aggiungere al prodotto importato in Italia la sola l'etichetta, ultimo atto della produzione che consentiva di qualificare quel prodotto come italiano. Produrre nel senso di apporre l'etichetta è stata la strada del disastro.

E’ accaduto per tanti prodotti, dalle automobili alle felpe, dalle scarpe ai medicinali, ed era quasi fatale che accadesse anche per l'olio d'oliva, importato per essere poi imbottigliato da marchi italiani prestigiosi ed immesso sui mercati nazionali ed esteri come olio italiano. Nessuno si è preoccupato di fermare il treno in corsa verso il baratro, nessuno ha considerato che veniva in tal modo favorita l'importazione e non la produzione dei prodotti esportati: l'industriale diventava una sorta di commerciante all'ingrosso di prodotti per l'esportazione, favorito da continue svalutazioni della lira fino al 2001, quando si passò all'euro ed il giochetto non fu più possibile. Il guadagno per gli imprenditori poco seri era assicurato dai prezzi internazionali più bassi di quelli interni, anche se per merce di peggiore qualità. E’ quanto accaduto anche per l'olio extravergine di oliva, acquistato a prezzi molto bassi all'estero, talora per obblighi di acquisto stipulati sul piano internazionale (è il caso di alcuni paesi del Nord Africa), “aggiustato” ed imbottigliato in Italia e, una volta divenuto così olio made in Italy, esportato di nuovo, magari con marchi divenuti prestigiosi all'estero proprio perché produttori un tempo di olio italiano ottenuto con olive italiane lavorate in Italia. Nessuno ha considerato che importare olio a prezzi più bassi dei costi di produzione nazionale avrebbe depresso il prezzo della materia prima, questa volta italiana - le olive - discriminandone il mercato. Tutti felici per la grande quantità di olio esportato sorvolando sugli indicatori sempre più negativi dell'olio prodotto con olive italiane. La realtà è che, venuta meno (con tutti gli errori, con tutti i difetti) la penetrante azione politica della Coldiretti, le difese del mondo agricolo in Italia si sono affievolite come dimostra del resto il crescente consumo di territorio per altri scopi, di cui sembra che ci si stia accorgendo soltanto ora.

L'impatto del “prodotto non prodotto” l'Italia lo ha subito tutto. L'azione per modificare le cose sul piano della normativa europea è stata, ed è, molto debole: troppi sono gli interessi che premono perché nulla venga modificato. Ad approfittare del meccanismo sono ora i gruppi finanziari stranieri che acquistano aziende italiane per utilizzarne il marchio ed esportare prodotti made in Italy che di italiano hanno solo l'etichetta. Fra inglesi e spagnoli è una corsa ad incollare etichette sulle bottiglie di olio d'oliva, ma ora è arrivato lo Stato cinese. E non credo si limiteranno ad attaccare le etichette, sono una potenza economica troppo grande per accontentarsi di questo.

Non sarebbe il caso di iniziare a vivere in un mondo in cui buongiorno vuol dire veramente buongiorno? Forse si tratta solo di un mondo fantastico in cui si arriva volando sul manico di una scopa, come nel vecchio film “Miracolo a Milano”.

 

Mario Pacelli, docente di Diritto pubblico nell'Università di Roma La Sapienza, è stato per lunghi anni funzionario della Camera dei deputati, ha scritto numerosi studi di storia parlamentare collabora con "Corriere della Sera", "Il Messaggero" e "Teatro Naturale".

di Mario Pacelli

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Commenti 3

Renata Baruffi
Renata Baruffi
19 ottobre 2014 ore 00:19

Ogni articolo, ogni osservazione che leggo su questi argomenti non fa che spingermi più a fondo nella disperazione e sono certa che questo effetto colpisce molte altre persone.
Non vale la pena lamentarsi e rivangare su quel che è successo nel passato. Non serve. Non serve neppure piangerne e lamentarsi (parlo a me stessa ed a quelli che la vedono come me), Purtroppo non vedo vie d'uscita. Continuiamo a basarci su un solo codice che è l'unico preso in considerazione ed è stato costruito ad hoc dagli organismi che hanno giovamento dalla situazione finanziaria quale viviamo oggi: il PIL. Già più di 50 anni fa, Robert Kennedy, in un discorso memorabile, aveva espresso le sue critiche a riguardo e si augurava che, come minimo, al PIL fossero affiancati anche altri codici che permettessero di elaborare e sviluppare il sistema di vita in tutta la sua reale complessità. Ora, spero che sia chiaro a tutti che crescere ad oltranza non è possibile in un sistema chiuso come la Terra e naturalmente come l'Italia. Ma se è soltanto il PIL che misura la salute di un paese ed il suo valore sul mercato, quanto ci aspettiamo di poter crescere ancora?, come pensiamo di poter non essere sopraffatti da Stati come la Cina? La crescita continua obbligatoria unita ai cromosomi della furbizia e dell'imbroglio hanno portato l'Italia al punto attuale. Sono state varate leggi che oggi sappiamo essere la nostra rovina e che potremmo cambiare se non ci fosse un veto chiaro ed una grande opposizione ad ogni cambiamento in proposito, sostenuto da interessi consolidati uniti ad una ignoranza stratosferica ed una buona dose di delinquenza diffusa di piccola e grande entità. Siamo già in decrescita, come l'ha definita Latouche. Sarebbe bello se lo capissimo e riuscissimo a renderla felice... Poi, naturalmente ci vorrebbe gente senza interessi personali diretti, intelligente, non ignorante e determinata nel sostenere il made in Italy. Questo vale per tutto il made il Italy , non solo per l'olio che ne è soltanto un piccolissimo elemento.

Sergio Enrietta
Sergio Enrietta
18 ottobre 2014 ore 10:48

Paradossalmente, siamo stati italiani anche industrialmente, abbiamo fatto prevalere anche li la nostra "furbizia levantina" e siamo stati pian piano estromessi come da quasi tutto il resto.

Ora fare mille analisi e puntare il dito serve alla solita piagnucola nazionale, però non ci farà salire di un centimetro.

Servono al massimo proposte, però più che altro buona volontà, spirito di sacrificio, rinuncia attuale per benefici futuri di cui magari godranno solo le successive generazioni, non vi è altra chiave di svolta.

Io ho cominciato da moltissimi anni, quando pareva assurdo descrivere ciò che ci sta succedendo e peggio ci avverrà.

In molti vedo fanno altrettanto, ma la stragrande maggioranza continua a illudersi che il tutto migliorerà con promesse che non vengono realizzate e aumento del debito.

Invece della partita a golf, tennis, la passeggiata per digerire, sarebbe meglio individuare un terreno incolto, non è difficile, e cominciare, funzionerà, se la maggior parte opererà, anche se una piccola parte ne approfitterà.

Purtroppo, invece, qui la piccola parte è quella che opera, gli altri alla meglio aspettano, brutta storia, triste epilogo.

vittorio orlando
vittorio orlando
18 ottobre 2014 ore 09:07

BUONGIORNO DOTT.PACELLI,CONCORDO CON LA SUA ANALISI,MA QUESTO NON FA CHE CONSOLARMI SULLE MIE GRIDA ,PURTROPPO INASCOLTATE,NEL MONDO DELL'AGRICOLTURA CHE MI CIRCONDA.ABBIAMO ASSISTITO AL DISFACIMENTO DEL MONDO AGRICOLO A PARTIRE DAGLI ANNI SETTANTA,PILOTATO DAI GRANDI LUPI AFFAMATI DELLA POLITICA ITALIANA ED INTERNAZIONALE(SIA DEL SUD CHE DEL NORD)I LE SUE RIFLESSIONI FANNO PENSARE AL FATTO CHE CONOSCE BENE I GRANDI DISEGNI DELLE MULTINAZIONALI CONTRO I QUALI CHI PIEGA LA SCHIENA E LAVORA INNOCENTEMENTE LA TERRA NON PUO' FAR NULLA, PERCIO' LA MIA DOMANDA:SAREBBE IL MOMENTO,ANCHE SE IN RITARDO ,DI DISUBBIDIRE A CHI CERCA DI CONVINCERCI CHE STA LAVORANDO PER IL NOSTRO BENE QUANDO POI IN REALTA' CI STA VENDENDO AI POCHI SENZA SCRUPOLI?FARE ANALISI APOSTERIORI E' SEMPRE AZZECCATO,ANDARE CONTRO TENDENZA E' MOLTO DIFFICILE .ORLANDO