Bio e Natura 22/09/2012

Italia impreparata a una filiera nazionale della birra

Italia impreparata a una filiera nazionale della birra

Quanti sanno che il 66% del malto utilizzato proviene dall'estero? Quanti sanno che l'orzo coltivato nel nostro paese è di costituzione straniera? Eppure vi sono birrifici disposti a sviluppare progetti 100% italiani ma burocrazia e miopia istituzionale frenano investimenti e sviluppo


Il mondo della birra sta crescendo rapidamente in Italia, anche per merito di molti micro impianti che iniziano a far conoscere una cultura della birra che fino pochi anni fa nel nostro Paese era completamente assente.

Guardando ai freddi numeri, in base ai dati Assobirra, il consumo nel nostro Paese dovrebbe assestarsi sui 30 litri/anno (la media UE è di 72 litri/ anno e l’Italia è comunque il paese con il consumo procapite più basso). Si contano in Italia oltre 400 unità produttive fra impianti industriali e micro birrifici, 2.000 marchi di birra prodotti e/o distribuiti in Italia, oltre 144.000 posti di lavoro complessivi, fra diretti, indiretti e indotto allargato: il settore della birra italiano ha un valore complessivo di oltre 2 miliardi e mezzo di euro.

Certo il nostro paese non può vantare la tradizione secolare di paesi come Belgio e Germania però, visti i numeri di un settore in crescita, si potrebbe pensare a creare una filiera produttiva totalmente italiana dando vita a prodotti veramente “Made in Italy”.

Possibile ma la strada è in salita.

Circa il 66 % del malto utilizzato in Italia proviene dall’estero. La coltivazione di orzo da birra quindi non riesce a soddisfare la domanda interna perdendo cosi un importante segmento di una filiera che potrebbe stare in piedi da sola. Attualmente la coltivazione di orzo da birra in Italia è limitata al Centro-Sud Italia nelle aree limitrofe alle due grandi malterie, vengono prodotte varietà di costituzione straniera ma competere con la qualità dei malti esteri non è semplice.

Anche il luppolo, introdotto in Italia nel 1847, dall'agronomo Gaetano Pasqui potrebbe avere un buon sviluppo e diventare espressione di una tipicità territoriale, del resto Humulus lupulus – la pianta lupo - cresce spontaneo anche in Italia.

Occorre sapere lo stato dell'arte per progettare il futuro e vi è lo spazio per valutare la fattibilità di piccole filiere locali che conferirebbero valore aggiunto alla birra, una sicurezza per gli agricoltori che potrebbero assicurarsi contratti di coltivazione e spuntare prezzi migliori per i loro cereali e dare vita a piccoli maltifici che potrebbero portare concretezza ad un settore in crescita.

Eppure siamo in Italia e una sorta di miopia cronica non permette di sviluppare progetti di filiera: manca una politica di sostegno, manca una regia che metta ad un tavolo agricoltori, birrifici, e imprenditori capaci di investire in parti della filiera al momento carenti, manca la lungimiranza di chi potrebbe mettere a disposizione delle risorse pubbliche per sostenere una filiera che va costruita e creare cosi posti di lavoro. Si parla tanto di “occupazione e ripresa economica” ma evidentemente gli amministratori locali e nazionali non sono capaci di vedere più in la di una legislatura e fanno fatica a comprendere il valore economico e sociale di questo settore.

“Nessun piccolo birrificio se la sentirebbe di imbarcarsi in una impresa del genere, troppa burocrazia - dice Moreno del birrificio l’Olmaia - e poi nessuno avrebbe la forza di investire e creare un micro maltificio che diventi riferimento per noi piccoli produttori e per gli agricoltori di zona”.

“Per me sarebbe un onore e un vanto poter produrre anche una sola birra fatta con materie prime della zona - dice Piggiu del Piccolo Birrificio Clandestino - ma il rapporto qualità prezzo mi impone di scegliere l’estero per le materie prime.”

Quindi, solo per fare un esempio, fra gli oltre 40 piccoli birrifici presenti in Toscana non c’è un vero dialogo e non si creano sinergie capaci di generare economie di scala, molti hanno aperto un po’ per gioco, ma i più maligni dicono per moda! Secondo gli esperti assaggiatori questa esplosione di micro impianti è allo stesso tempo un bene e un male. Da una parte è un sintomo di un settore che può e deve fare ancora molto, dall’altro c’è il rischio che degli improvvisi, dei novelli produttori non lavorino con le giuste modalità e mettano sul mercato delle birre di pessima qualità con il rischio di gettare discredito su tutti gli operatori.

Un caso esemplare viene dall’America: nel 1995 Sam Calagione apre il suo birrificio, il Dogfish Head, grazie ad un mix di passione, marketing, e tanto buon lavoro l’azienda cresce vertiginosamente in pochi anni. Oggi il birrificio è un piccolo impero, il marchio è associato a qualità, e il titolare è considerato a livello mondiale un vero “guru” del settore.

Facendo le opportune tare riguardo a consumo procapite di birra (in America è 3 - 4 volte maggiore che in Italia) e numero di clienti (in America ci sono circa 5 volte il numero di abitanti presenti in Italia) sembra impossibile che una storia come quella di Sam Calagione si avveri anche in Italia.

Da cosa dipende questo fatto? Potremmo produrre orzo, malto, luppolo e siamo in possesso di tutte le tecnologie per mettere a punto una filiera di qualità.

Ci sono tanti piccoli operatori ma nessuno emerge con forza, nessuno può/vuole investire, tutto è appesantito da una burocrazia opprimente, e la storia del Dogfish Head sembra un miraggio. Come quando a 50 C° vedi un’oasi e pensi a una bella birra fresca.

Fatta in Italia si, ma con prodotti esteri.

di Francesco Presti

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